Nel 1966 escono due film. Il primo è Made in U.S.A. di Jean-Luc Godard; il secondo Persona di Ingmar Bergman. Recentemente, ho avuto la fortuna di rivedere, su grande schermo, il film di Godard. Ne ho tratto un’impressione di povertà assoluta, tanto dal lato formale, quanto da quello – mi si passi l’espressione – del contenuto. “Il contenuto” è un’espressione davvero misera da un punto di vista critico ma, in realtà, appropriata per un film che si vuole, esplicitamente, a tesi e impegnato politicamente (“un film Po”, come lo definì il suo autore). È il periodo della grande denuncia della cultura pop americana, dell’anti imperialismo e dell’ideale rivoluzionario. Godard non si limita a una semplice denuncia delle contraddizioni del proprio tempo ma cerca di rivoluzionare il cinema stesso, attraverso una decostruzione del suo linguaggio e della tecnica di montaggio. Destruttura la trama; inserisce non-sense a ripetizione; stravolge la recitazione; disconnette il sonoro. Il tutto si alterna a citazioni e rimandi alla cultura del tempo (i Rolling Stones, Ben Barka, Walt Disney) e a riflessioni metafisiche e politiche riprodotte e ridotte ad absurdum. Godard, in fondo, in quegli anni, inaugura una modalità cinematografica che, per denunciare il nichilismo contemporaneo, in tutte le sue forme, riduce tutto a nulla, compresi i suoi film. A più di mezzo secolo di distanza, il film di Godard è inguardabile: noioso, goffo, ripetitivo (come, spostandosi di poco e solo a mo’ di esempio, illeggibile risulta Quel petit vélo à guidon chromé au fond de la cour?, sempre del 1966, di Perec).
Se, ora, passiamo nella seconda sala della cineteca e ci immergiamo in Persona abbiamo l’impressione di assistere a un evento epocale della storia del cinema. Il film di Bergman non ha perso in nulla la sua forza. Anzi, ne ha acquisita enormemente, proprio pensando a quel che è successo nei cinquant’anni successivi. Quello del cineasta svedese è un dramma che dialoga alla pari con Shakespeare e Sofocle. Pur andando al fondo stesso del nichilismo – chi più di Bergman ha saputo rappresentare il vuoto interiore della fine di tutti i valori? – non toglie valore a nulla, non riduce nulla allo sberleffo del non senso, ma, anzi, estrae dal nulla la domanda radicale di senso, il grido disperato che invoca una risposta, seppur silente. (Ricordo solo che, sempre nel 1966, termina di essere girato, Andrej Rublëv di Tarkovskij che, seppur con diversa sensibilità, segue piuttosto la via tormentata bergmaniana che il compiaciuto e vuoto sperimentalismo godardiano). Il film di Bergman risucchia il suo spettatore dentro lo schermo (allo stesso modo in cui Thomas Bernhard, sempre nel 1966, stendendo le pagine di Verstörung, capolavoro di tensione narrativa, spinge i suoi lettori in un vortice letterario lontanissimo dalla voga sperimentale di quegli anni).
Quel che ci colpisce, oggi, retrospettivamente, non è tanto la possibilità di giungere a stabilire un nuovo canone, dove inserire i sommersi e i salvati della storia del cinema, ma comprendere quanta poca tenuta abbiano i gesti di denuncia che si costruiscono sul linguaggio che vorrebbero combattere (Godard o, almeno, la quasi totalità del suo cinema successivo a Bande à part) e quanta potenza, invece, abbiano quegli atti creativi che, di fronte alla nullità del proprio tempo (perché ogni tempo ha la sua nullità), elaborano un linguaggio autonomo, spesso in dialogo con il meglio di ciò che il tempo ha tramandato. Harold Bloom direbbe che un grande autore si costruisce negando il suo predecessore e superando, tramite un atto creativo, la propria angoscia dell’influenza, cioè il proprio timore di non aver nulla di nuovo da dire. Bergman sembra un autore forte; Godard un eterno adolescente ansioso e impegnato nel tentativo di inventare qualcosa, tramite lo sberleffo e l’assurdo, per il timore di rimanere schiacciato dai suoi predecessori o, peggio, dal proprio tempo.
Se c’è qualcosa che questi due film ci aiutano forse a meglio comprendere, oggi, è come ogni opera che si generi a partire da una denuncia postproduttiva (per utilizzare una terminologia critica che ha visto la luce sicuramente anche grazie a Godard, seppur in una forma quasi parodistica: la parodia della parodia), dicevo, ciò che nasce esclusivamente sulla critica della miseria dell’esistente si destina, con il passare del tempo, alla stessa inconsistenza di senso. Mentre ogni opera che si ponga fuori dal proprio tempo, mirando alla cosa immobile delle umane vicende, resta come un classico, per sempre inattuale. Si danno chiaramente eccezioni, talvolta anche enormi, in entrambe le direzioni. Ma proprio per questo si è voluto qui prendere in considerazione due dei più grandi, Godard e Bergman. In fondo, queste veloci riflessioni all’uscita di un pomeriggio di cinema sono solo un modo di invitare a ripensare, oggi, la storia dello sperimentalismo del secondo novecento, ponendolo a confronto con la cultura che quello sperimentalismo non l’ha praticato, pur non avendo affatto rinunciato a lavorare sulla materia e sulla forma del proprio medium. La questione, ovviamente e fortunatamente, non si esaurisce qui e resta, anzi, aperta e totalmente da pensare.
P.S. Cercando un’immagine per la copertina di questo articolo, mi imbatto in due curiose coincidenze di cui non ero a conoscenza. Un’immagine trovata, inizialmente, su Mubi, e qui ora riprodotta in copertina, che porta questa didascalia “Ingmar Bergman, 1966”. Si tratta di un’intervista televisiva del 1966, in svedese, assieme a Bibi Andersson e Liv Ullmann (si può vederla qui). E questa citazione, tratta da un’intervista apparsa su Sydsvenska Dagbladet nel maggio del 2002, in cui, ancora una volta, tutto torna, anche la data su cui si impernia il mio articolo (cito da una traduzione inglese, non avendo la possibilità di leggere lo svedese e tradurre dall’originale). Bergman, rispondendo a Jan Aghed: “I’ve never gotten anything out of his [di Godard] movies. They have felt constructed, faux intellectual and completely dead. Cinematographically uninteresting and infinitely boring. Godard is a fucking bore. He’s made his films for the critics. One of the movies, Masculin Féminin (1966), was shot here in Sweden. It was mind-numbingly boring”.