Partenze intelligenti

31/08/2021

Il giorno avvampa senza luce, nel muro di suono delle cicale, negli eucalipti che crescono sempre più isolati, sempre più come macchie gigantesche. Sono le prefigurazioni del dopo-schianto. Sono i cespugli in fiamme che faranno pappa dell’inconscio. Le contraddizioni del capitalismo e la nuova scala geologica nella quale l’allegoria diviene Storia.

Non ci sono paesi lungo il tragitto: al più s’incontrano minuscoli agglomerati di case diroccate, baracche di lamiera, costruzioni in muratura dalle quali spuntano tondini di ferro per armare il cemento nel caso, un giorno, la baracca venga trasformata in palazzina. C’è una specie di stile architettonico che potrebbe appartenere al Sudamerica come a certi tratti della superstrada che collega Firenze a Livorno: un’accozzaglia sbagliata di palmizi spiumati e casupole dirazzate.

Tra un paese e un altro di questa piana autostradale s’incontrano aree allestite con una scenografia alla Las Vegas. Architetture senza alcuna creanza, volte e guglie, ascese gotiche in così tanto spazio: frotte di antenne sparate in cielo, una cartellonistica sarcastica: «Università degli Studi» affisso su un pannello color vinaccia, sopra a uno di questi edifici-mattoncino, che sembra una SPA, con sauna finlandese e tutto il resto. L’istruzione è uno slogan pubblicitario dentro lo sconcerto del non-finito, dell’incompiutezza che attende condoni.

In queste zone si addensano, però, anche grandi magazzini; gli spazi orizzontali della distribuzione concentrata: un capannone per marchio, ciuffi di palme che bevono acqua dalle crepe del cemento, un sound dance che si disperde tra un magazzino e l’altro, la coordinazione dei battiti cardiaci di chi deve comprare e, soprattutto, di chi, là dentro, deve vendere. La dose spacciata dai salariati con la Polo aziendale, le scarpe da ginnastica, l’età della paghetta o degli alimenti, oppure la magra disperazione di chi si è sottratto alla raccolta stagionale.

In ogni caso, è impossibile captare quei destini, quei volti dermo-consumati dall’unto dell’aria condizionata. Sushi restaurant a caratteri mistral, di neon rosa-fenicottero, in recinti cilindrici e un ammiccamento all’aria fresca di una aiuola che non si fa toccare dallo schifo che c’è d’intorno. Poi, dopo una rotonda, anche queste zone che trafiggono il cuore, spariscono e tutto torna a un indecente deserto di sudiciume ai lati della strada.

Filippo Polenchi

è nato e cresciuto a Firenze. Lavora, ha famiglia, legge, scrive. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su “Alfabeta2”, “L’indice dei libri del mese”, "Le parole e le cose", “La balena bianca”. Suoi racconti sono apparsi su “Nazione indiana”, “Collettiva”.

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