Bibliothèque Nationale de France

26/08/2021

Il motivo per cui sono a Parigi in queste settimane è dato da una ventina di faldoni negli archivi della Bibliothèque Nationale de France. È il fondo intitolato a Charlotte Delbo, intellettuale francese, deportata e per fortuna sopravvissuta ai campi di sterminio e diventata poi una delle voci più importanti e lucide della letteratura del Novecento. In questi giorni sto facendo passare in rassegna racconti inediti scritti in una grafia minuta, fotografie, appunti, documenti, lettere.

Il carteggio più intimo è quello con la sorella, non si può chiamarlo carteggio nel vero senso del termine perché sono tutte lettere solo di Odette a Charlotte, senza risposta. La prima lettera è datata 23 marzo 1942, Charlotte è appena stata arrestata dalla polizia nazista e si trova in una cella al numero 3 di Quai de l’Horloge. L’ultima lettera, del 21 maggio del 1945, è indirizzata al centro dell’Ambasciata francese di Stoccolma per la raccolta e il rimpatrio dei superstiti dei campi, là dove si cerca di dare le prime cure a persone irriconoscibili, di avvertire i parenti, di attribuire un nome e una vita a chi a volte neppure è in grado di parlare. Tra queste due lettere, tra queste due date, ci sono le profondità di un abisso che negli anni Charlotte proverà a raccontare e che Odette, a quel tempo, non è probabilmente neppure in grado di immaginare.

Le parole iniziali del carteggio nascondono la preoccupazione di Odette dietro a frasi pratiche, domande secche: “Hai freddo ?”, “Vorrei spedirti un reggiseno, ma non conosco la tua taglia, riesci a farmi avere le tue misure ?”, “Per il pacco di Pasqua ti manderò una sorpresa! Puoi usare un fornello per scaldare la vivande?”. Odette racconta le sue giornate, la mamma, gli amici, non fa cenno a Georges Dudach (il marito di Charlotte, come lei nella Resistenza francese, fucilato qualche tempo dopo l’arresto), e la chiama “mia grande” o “cara Lotte adorata”. Le prime lettere sono piene di aggiunte, una riga scritta quasi sull’altra, come se lo spazio non bastasse a contenere un affetto strabordante e pieno di giovinezza. A un certo punto gli invii interrompono il loro ritmo regolare, passano mesi di silenzio. Poi dalla scatola di cartone del carteggio emerge una lettera, sempre di Odette, ma questa volta è scritta in tedesco, non è datata.

Sulla busta si legge:

Madame Charlotte Dudach
n°26007
Block 27
F.K.L. Ravensbrück

Mentre guardo la carta logora, i timbri di controllo delle SS, l’ordine innaturale delle righe di Odette così diverso dal caos avvolgente delle lettere di prima, la grafia più nitida, quasi scolastica, mi prende un malessere crescente. Il contatto della mia mano con il foglio presuppone una vicinanza fisica tra due luoghi inaccostabili – il mio tavolo avvolto nella luce morbida di una biblioteca e la scrivania di chissà quale funzionario nazista nel campo di concentramento di Ravensbrück – e produce un’onda emotiva che impiego una buona mezzora a calmare.

Mi alzo, esco dalla sala consultazione, mi siedo nel cortile dell’ingresso e mi lascio abbracciare dal sole e dalla città tutta.

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