Miniera, sposa

Un uomo per otto mesi nel sottosuolo salentino in compagnia di un asino. Il rumore di fondo del frantoio è calpestio di zoccoli che girano alla cieca sulla roccia, sfregamento di pietra su pietra, sversamento di pappe di posa nei piatti di stagno. Gocciolamenti, palta oleosa, residuo per lucerne. Il suono echeggia sulle pareti della grotta, scivola la bestemmia. Date le nulle condizioni igieniche e il possibile contagio, il cibo viene calato da una donna (moglie, madre, sorella, raramente figlia) attraverso il lucernaio. La donna s’inginocchia accanto a un buco e fa scendere sotto la terra un paniere con pezzi di pane, formaggio, raramente carne. Gli escrementi rimangono sul posto. Sottoterra c’è un fantasma che vive con un asino dagli occhi chiusi. L’uomo parla con l’asino come a una moglie, o a un nemico, dipende dall’umore, dipende se piove, dipende dai pensieri, dai sogni di una notte ininterrotta, dagli incubi infantili che sbattono la testa sul granito. Quando esce, ha il colore di una larva e le garze sugli occhi, la troppa luce può ustionare la cornea. Se la Madonna fa la grazia di conservargli la vista, può partire per mare, diventa pescatore stagionale, arso dal sole.

Intanto, nella miniera sarda dell’Argentiera, un uomo tiene abbracciato per giorni il trapano a spalla, che per ciò viene detto «la Sposa». Sposa sotterranea. Sposa di ferro immortale. Solo la ruggine buttera la carnagione della Sposa, lievemente. Male di superficie. La Sposa è ferma tra le braccia dell’uomo, vibra contro gli ostacoli e la paura, quando la morte gialla denuncia la saturazione di gas, nell’aria occlusa della cava. Quando il canarino cade sul fondo della gabbia il suono è soffice, quasi non si sente. Se l’uomo vede la sua piccola morte, grida di far salire l’ascensore che porta in superficie. Se qualcuno lo sente, la corda scorre veloce sul metallo dell’argano. La gabbia umana porta alla luce un corpo nero, ricoperto di polvere. Tizzone quasi spento, fiato corto. Il rumore di fondo della miniera è un conflitto continuo di metallo e sassi: la punta del trapano che si fa strada tra i filoni di roccia del sottosuolo e, sopra, sfere di metallo grandi come un’arancia che frantumano i pezzi di roccia saliti alla luce e ridotti in polvere a colpi di martello. Le donne ricavano dalla polvere i metalli preziosi, fanno la cernita a mano, alla luce traballante delle torce a olio. Esordio del ciclo produttivo, da olio a zinco. Raramente filoni d’argento.

E la maceria svetta contro il lentischio. Fa appello alla memoria muscolare, a una solitudine ancestrale, benigna. La fatica, il lavoro, il sacrificio. Lo sforzo collettivo di durare. Come specie, non come individui. In fondo a tutto, il durevole mare, la dura madre.

è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, autrice e conduttrice Rai e regista di videoreportage per «Corriere TV». Tiene laboratori di poesia in scuole pubbliche e carceri. Premi Montale, Pasolini, Trivio, Europa, Dessì e Napoli. Ultimi libri “Serie fossile” e “Il bene morale” (Crocetti 2015, 2017), “Gli Scomparsi – storie da ‘Chi l’ha visto?’” (pordenonelegge 2016), “Giardino della gioia” (Mondadori 2019), “Fossils” (SurVision, Ireland 2018), “Sèrie Fòssil” (Aïllades, Ibiza 2019) e l’antologia araba “Questo corpo, questa luce” (Almutawassit Books, Damasco 2020). Ha curato l’opera di Edgar Lee-Masters, Nella Nobili e Dino Campana e una rubrica di esordienti per il mensile internazionale «Poesia». Porta in scena videoconcerti di poesia.

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