La coda si muove lentamente, si ferma, sussulta, avanza ancora. È passata quasi un’ora. L’autostrada ha tre o forse quattro corsie, c’è tempo per osservare dai finestrini del taxi la filza compatta di costruzioni sui due lati, torri di cristallo azzurro o verde, cilindri lisci o spigolosi di cemento.
E poi altre torri, e volumi più tozzi, schiacciati, facciate generiche, casamenti a terrazzi, enormi, o piccoli edifici gialli aggrappati a pendii, officine, depositi, parallelepipedi ciechi sovrastati da grandi insegne sconosciute, il catalogo di una periferia trionfante, indefinibile, tutta nuova, sempre in costruzione.
Di colpo, ma ne avrei poi contate decine, la moschea, bianchissima, i due minareti appuntiti. Il sole inclinato all’orizzonte fa brillare per un istante le finestre traforate.
E poi da lontano, sopra le automobili, le torri del grande ponte, il traffico accelera, siamo in alto, la luce abbagliante, ai due lati il vuoto – Thálatta! Thálatta! – il vecchio grido mi torna in mente all’improvviso, mi distraggo, Europa di fronte, Asia alle spalle? È questo il ponte giusto? O quello che attraverso più avanti?
Mi immergo tra quinte di grandi palazzi, quelli più nuovi ora spiccano bianchi e lucidi sulla massa scurita dalle intemperie, su un caos di vecchie costruzioni anonime. Poi le strade si stringono, l’aria si riempie di luci, di rumori, guardo le insegne dei negozi. Sono arrivato in città.
È mattina, il sole di luglio è già alto ma l’aria è trasparente, tira vento. Scendo per vicoli tra case di due o tre piani, i colori ancora vividi sulle facciate, gialle, rosse, azzurre, le bow windows sfondate o chiuse da plastiche, i panni stesi. L’intero fianco di una strada è sprofondato, dietro la lamiera un cantiere, pali, impalcature, rumore di macchinari. Nel vuoto di un crollo, poggiata su uno spezzone di cemento muffito, una piccola giostra a manovella sembra un giocattolo rotto.
A Tarlabaşı abitavano i greci, prima, poi i curdi più poveri, e poi ancora da ultimi i rifugiati siriani, in qualche angolo si percepisce ancora una vita dignitosa, una certa memoria comune, piccoli dettagli sopravvissuti. Il presente è incerto, misero, caotico, le demolizioni avanzano inevitabili, seguite da grandi palazzi di marmo bianco. Arroganti. Vuoti.
La città pulsa, si dilata, sale e sale ancora. Dalla vertigine del balcone di legno all’ultimo piano del palazzo al numero 11b guardo la fila di automobili, camion e furgoni che risale lentamente Ömer Hayyam Caddesi. Si può salire qui solo uno alla volta, di fronte agli enigmi si sta da soli, così ha voluto GMT. Dalle finestre intravedo la neve posata sul pavimento delle stanze, bianchissima, impossibile. Nei vetri si riflettono tetti e terrazze a perdita d’occhio, sorvegliati all’orizzonte da giganti smemorati di vetro blu e metallo.
L’aria struggente che risuona ancora mentre scendo la scala a chiocciola mi trattiene. Mi par d’udir ancor canta il tenore in italiano, folli ebbrezze del sogno, le parole e la musica sono appena percettibili eppure la melodia lavora in me, mi sorprende, mi ferma. Divin sovvenir. È questa la verità? È questo ciò che resta? C’è silenzio ora, tutto è compiuto. Un passo e sono nella strada assordante.
Galata ha vie ripide e ovunque negozi di materiali elettrici, lampade e luminarie colorate invadono i marciapiedi. Poco distante due cani randagi spaventano i passanti, seduto in cima a una scalinata sinuosa un ragazzo suona al clarinetto una lunga melodia. La torre genovese guarda dall’alto il Corno d’oro, io decifro a fatica l’iscrizione dorata alla sua base, le chiavi consegnate al sultano il 9 maggio 1453. A Istanbul tutto è dimenticato, nulla è dimenticato.