Mosca, agosto

Il 19 agosto 1991 era un lunedì. Ci eravamo trasferiti a Mosca a metà luglio. Abitavamo negli edifici per stranieri all’inizio del Kutuzovskij Prospekt, intitolato al generale che sconfisse Napoleone nella “guerra patriottica” del 1812. Qualche giorno prima erano venuti a trovarci i miei genitori e la domenica eravamo andati a mangiare in una bettola fuori città dove servivano solo pollo alla griglia. Sulla porta c’era un grosso gatto che teneva fra le zampe un topo.

Anche se nessuno di noi sapeva suonare, avevamo deciso di affittare un pianoforte, la consegna era prevista per il 19 alle undici di mattina. Alle sette, forse prima, è squillato il telefono: c’è stato un golpe, tengono prigioniero Gorbacëv, state pronti, forse sarà necessario evacuare. Lungo la strada è comparsa una fila di carri armati diretti verso il ponte che porta al centro. Procedevano piano, poi si sono fermati. Erano grossi, sembravano tartarughe giganti munite di una proboscide rigida. Stavano subito fuori dai cancelli del comprensorio, ma le auto continuavano a circolare, i negozi erano aperti. Alle undici in punto è arrivato il camion con il nostro pianoforte. Alla televisione davano ininterrottamente Il lago dei cigni.

Per anni ho raccontato l’episodio del piano, è la cosa che mi ha colpito di più del putsch di agosto, così in Russia vengono chiamati quei giorni: l’idea che anche durante le guerre c’è una quotidianità riottosa, impervia – almeno inizialmente – agli sconvolgimenti. Ci penso di nuovo adesso, vedendo quello che succede a Kabul (in quello stesso comprensorio avremmo poi conosciuto famiglie afghane fuggite dal paese perché avevano collaborato con i russi, volevano andare in Canada, vendevano i loro gioielli).

Non ricordo che avessimo paura. I miei si dicevano felici di essere con noi, in Italia sarebbero stati terrorizzati, evocavano Fabrizio Del Dongo a Waterloo. Presto i soldati emersero dai carri armati, dall’alto discutevano con la gente. Cominciavamo a capire che molto – tutto – stava cambiando.

Queste due foto sono state scattate il 21 agosto. In una c’è mio padre, con la faccia di chi sa di essere nella storia. Nell’altra c’è mio figlio Giovanni, e lui sì, ha l’aria spaventata. Riguardandolo oggi, mi sento come lui.

Maria Teresa Carbone

Giornalista, autrice e traduttrice, ha coordinato la redazione della rivista online «alfabeta2» dal 2014 fino alla sua chiusura, nel settembre 2019. In precedenza ha diretto la sezione Arti del settimanale «pagina99», ha lavorato alle pagine culturali del quotidiano «il manifesto» e ha curato alcune edizioni del festival romapoesia. Da diversi anni si occupa di promozione della lettura in Italia e all’estero. Il suo libro più recente, “111 cani e le loro strane storie”, è uscito nel 2017 per Emons e l'anno successivo è stato tradotto in tedesco.

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