La conoscenza di Simone Cipriani è stata un effetto collaterale, imprevisto quanto piacevole, della visita alla Collezione Gori, della cui ineffabile tribù Simone fa parte essendo sposato con Stefania Gori. Senza tirarsela neanche un po’ mi ha raccontato del progetto Ethical Fashion, da lui ideato per le Nazioni Unite nel 2008, ma di cui colpevolmente non sapevo nulla (condizione questa, temo, abbastanza condivisa). Si tratta, per farla breve, di impiantare in territori “difficili” del Sud del mondo laboratori attivi nella filiera della moda (dalla produzione dei tessuti a quella degli abiti confezionati, passando per il loro disegno), incoraggiando forme di microimprenditoria indipendente che puntano all’autofinanziamento di ogni propria attività (EFI collabora regolarmente con brand come Vivienne Westwood e Stella McCartney, e dal 2015 le sue creazioni partecipano a Pitti Uomo). A colpirmi è stato anche il suo percorso personale: a questo progetto Simone, che lavorava nel settore privato della moda prima di avvicinarsi alle Nazioni Unite, è giunto partendo dalla sua passione per i colori, i disegni, le stoffe: non da un teorema sociale, politico o religioso. Ma se a una dimensione del genere si giunge nel concreto del proprio operare, questa perde ogni astrazione. L’idea di Simone, semplice quanto geniale, è che a una crescita economica “a casa loro” si affianchi, da parte “nostra”, l’incoraggiamento a sviluppare la creatività e l’indipendenza delle donne, per esempio, e la collaborazione a progetti condivisi di lavoratori provenienti da gruppi etnici, per tradizione, rivali. Lavorare insieme è il modo più utile – nonché il più divertente, probabilmente – di fare pace. Il minimo che si possa dire è che, per realizzare qualcosa del genere, ci vuole stoffa. L’Afghanistan è stato in questi anni uno dei laboratori-guida di questa esperienza; Simone mi ha raccontato diverse storie al riguardo. Ora però le storie si fanno più tese.
A.C.
“Sobh Baheir, waiting to be called”
Messaggio, appena ricevuto, di un collaboratore che sta cercando di essere evacuato da Kabul. È in lista con le forze internazionali (non dico di più per ovvi motivi). Una parte del nostro personale (con le loro famiglie) è stato spostato a Kabul, a causa dell’avanzata delle forze dell’Emirato e adesso si trovano intrappolati lì. Con tantissime altre persone. Ogni giorno parliamo, ogni giorno cerchiamo di capire come e quando coloro che vogliono partire possano essere evacuati. La confusione è enorme. Ho un paio di amici là a Kabul, impegnati nella missione umanitaria che cerca di sottrarre chi credeva in un Afghanistan diverso alla vendetta di chi vede il nemico in chi ha un’opinione diversa. Il problema poi non è tanto l’essere chiamati, ma raggiungere l’aeroporto. Si sono viste sui media le immagini orribili della calca e della disperazione all’aeroporto. Ma per strada, prima di arrivare a quella calca, vi sono i talebani: controllano, questionano, intimidiscono, minacciano. Immaginate una famiglia con bambini che deve attraversare queste forche caudine per poi trovarsi a rischio di vedere uno dei piccoli schiacciato dalla folla. Anche nella disperazione c’è una triste gerarchia: chi è già su una lista ufficiale di partenze spesso viene chiamato e può recarsi un punto di raccolta relativamente sicuro (di nuovo, non posso dare indicazioni) da dove viene trasportato in aeroporto con veicoli corazzati. Chi non ha questo privilegio si espone a rischi enormi perché si reca in aeroporto sperando di far valere le proprie referenze per ottenere un passaggio. Da stamani circola voce che si temono attentati dell’ISIS (altra rete del terrore, minoritaria e combattuta anche dalle forze dell’Emirato in Afghanistan, ma comunque presente) tra la folla, all’aeroporto.
Avevamo capito che le cose andavano male già un paio di settimane fa. Avevamo evacuato alcuni collaboratori diretti con le famiglie da una provincia lontana, portando tutti e tutte a Kabul. I talebani avevano conquistato quella provincia in un soffio. L’esercito meno motivato del mondo, quello afgano, annientato prima di tutto da una corruzione rampante che distruggeva risorse senza nemmeno combattere, privo di sostanziale copertura aerea, si stava liquefacendo. In una riunione di crisi, un collega aveva sentenziato: “La volta scorsa i talebani ci misero più di tre anni per prendere Kabul!”. E io avevo risposto che stavolta speravo tenesse tre giorni. Non ha tenuto tre ore.
Cosa vuol dire questa crisi al di là dell’immediata emergenza umanitaria? Vuol dire una crisi sociale profonda in un paese che stava cercando di cambiare vita, con tante implicazioni su scala globale. A me, fra queste ultime, ne interessa una: la battuta d’arresto per molte donne musulmane che credono in un islam diverso (tralascio l’impatto geopolitico, enorme, che è ben analizzato in tanti articoli e saggi: vedi ad esempio le numerose analisi disponibili su “Foreign Affairs”, la rivista del Council for Foreign Relations statunitense).
Il fatto è che in anni di progetti e di interventi, gestiti con la società civile locale, in Afghanistan siamo arrivati ad avere una nuova generazione di donne nelle professioni, nell’economia, nella cultura, nella politica. Non è vero che questi venti anni non sono serviti a niente: è una stupidaggine. Le donne hanno acquisito un ruolo nuovo nella società afgana. Conosco delle imprenditrici bravissime (ometto ogni nome per ovvi motivi di sicurezza) che producono abbigliamento molto elegante utilizzando antiche tecniche di tessitura e decorazione. E conosco artiste, registe cinematografiche di valore. Nel nostro caso diretto (dirigo un progetto delle Nazioni Unite) siamo arrivati ad avere attività imprenditoriali che vendono in Europa: lo zafferano afgano è di nuovo sui mercati, come lo sono la seta e i suoi manufatti, attraverso il nostro lavoro. E sono in maggioranza donne le persone impegnate in questi lavori.
Pochi si rendono conto proprio di questo: in Afghanistan, con le donne, sino a ora si lavorava. Si produceva, si esportava. E c’era un fermento creativo incredibile: io conosco una cooperativa di fotografe attiviste (cinque ragazze che abbiamo assistito offrendo loro il sostegno e gli insegnamenti di un fotografo internazionale) che hanno ritratto in maniera efficace la condizione della donna in quel paese. Le loro foto sono pezzi di antropologia o sociologia visiva. Nell’ambito del lavoro di cui ho responsabilità diretta (sia in Africa che in Afghanistan) abbiamo sempre fatto ricerca sulla condizione della donna, anche attraverso la tecnica della photo elicitation. Non so come si dica in italiano e mi farebbe piacere saperlo, perché mi infastidisce l’uso costante dell’inglese quando non è necessario. Ma è una tecnica di sociologia visuale: si prendono immagini e si registra la reazione delle persone davanti a queste. Noi lo facciamo in due modi: chiediamo alle persone di disegnare la loro vita, o distribuiamo macchinette fotografiche (com’erano utili le macchinette usa e getta con pellicola!) adesso sostituite dalle fotocamere dei telefonini. Vengono fuori spaccati di vita e, nel tempo, si osserva il cambiamento, immortalato in forma di passaggio da mondi chiusi a mondi nuovi. Si vede, letteralmente, la luce. Sono il vecchio e il nuovo che si relazionano, che interagiscono.
E il nuovo in Afghanistan voleva dire lavoro e indipendenza per le donne, voleva dire giovani che si gettavano in progetti incredibili come le gallerie d’arte e i cinema che aprivano a Kabul (una mia conoscente ne ha aperto uno). Voleva dire designer afgani e afgane che giravano il mondo o disegni e tecniche tradizionali che venivano usati di nuovo e coniugati con una visione della vita che era tutto fuorché provinciale. Le giovani (e i giovani) afgane sono connesse, leggono e scrivono bene in inglese. Sanno come gira questo mondo. Quando ti avvicini un po’ alle loro lingue (il pashto e il Dhari, ambedue lingue ufficiali), scopri che ne dibattono in maniera vivissima! Io mi sono fatto un’infarinatura di Dhari, dal momento che lavoravo al di là dell’Hindukush, dove questa forma di persiano è prevalente. Spesso traduco alcuni post su Instagram: un mondo! Cosa scrivono le attiviste, ma anche ragazze e ragazzi, è stupefacente. Altro che popolo sottomesso al capriccio di potenti e assassini. Leggo i post di persone capaci di leggere la propria storia in una visione critica e aperta. Persone capaci di modellarsi un’idea del futuro che vorrebbero, anche in rapporto al mondo più ampio che li circonda. Leggo posizioni coraggiosissime di donne che si stanno opponendo all’oscurantismo e al ritorno indietro. Le stesse donne che sono già scese in piazza contro le armi per tutelare i propri diritti.
Per tutto questo vale ricordare che la posta in gioco è enorme. Come dicevamo, va ben al di là di questo paese. Riguarda tutte le donne musulmane che cercano la loro via nell’alveo dell’Islam, che si vedono e si sentono musulmane, che amano la fede in cui sono cresciute, ma che sentono di doverne dare un’interpretazione nuova, che renda possibile l’interazione con la sfera maschile e con le altre culture su basi di vera libertà e responsabilità individuali. Mi sembra quasi di vedere, mutatis mutandis, i fermenti che nel mondo cattolico aveva dischiuso il Concilio Vaticano secondo (dove sono finiti?) quando negli anni Sessanta e Settanta le donne cattoliche si battevano per liberarsi del peso che era stato sulle loro spalle per secoli, pur volendo salvare la propria fede (ho visto che è appena uscito un libro su una teologa di allora, Adriana Zarri, che era avanti di mille anni, anche rispetto a oggi). Le donne afgane, le ragazze di Kabul, sono l’avanguardia di queste donne, direi dell’Islam che potrebbe essere, del mondo che verrà, dove religione e convivenza civile non sono ossimori. Questo è in ballo in Afghanistan: come le donne di un mondo enorme e variegato tale quello dell’Islam si sentano nel mondo di oggi e quale vita vogliano costruirsi. Basta dare un’occhiata all’Instagram della giornalista fuggita negli Stati Uniti perché minacciata dai talebani dopo che ha coperto i negoziati in Qatar per conto di una televisione di Kabul.
Vorrei tanto essere libero di andare ogni tanto nella Kabul idealizzata dalle amiche afgane, che amano il proprio paese, per bere il succo di melograno, per andare a visitare una galleria, per rilassarmi nei giardini di Babur. Purtroppo, la Kabul del quotidiano d’ora in avanti sarà più simile alla città martoriata descritta da Atiq Rahimi nel suo I portatori d’acqua. Case e strade polverose, colline e montagne pietrose, niente acqua, violenza diffusa.
Spero di tornarci presto però. Il nostro lavoro continua, in un’ampia provincia del paese. Produciamo, con una rete di artigiane, artigiani e agricoltori un sacco di cose, dallo zafferano, alla frutta secca, alla seta. E non ci fermiamo nemmeno in questa situazione: la rete produttiva che abbiamo creato continua ad operare nonostante tutto perché è parte della società afgana. L’abbiamo co-creata con tante persone afgane perché si sostenga da sola, senza bisogno di tanti esperti venuti da fuori. È diretta e gestita da personale afgano. Siamo di nuovo al lavoro, da due giorni. Cerchiamo un dialogo con chiunque, per rimanervi. Ciò che conta adesso è la continuità. Avere pazienza e continuare con il lavoro.
Non so come sarà l’Afghanistan di domani. Ma spero che possa rimanervi un po’ di posto anche per la diplomazia, per il dialogo. E di farne parte.
