Lucus a non lucendo

L’ennesimo ricordo di copertura mi parla di una gita-archetipo con mio padre. Improbabile. Sicché accetto l’invito di Carlo, che è di queste parti (ma quante vite ha vissuto?), a scoprire i resti del Tempio di Diana. Niente di meno. Rimasticature di seconda mano del Ramo d’oro, riletture di sbieco del Cuore di Conrad e della Terra – che non si sa più come aggettivare – di Eliot, Marlon Brando con la manona sulla fronte sudata, le conigliette sugli elicotteri. Ci mancava Pierre Klossowski: scrittura d’una noia tetragona, ma a ogni pagina un’idea.    

Dopo essere scivolati sulle sponde limacciose del lago, ed esserci immersi cauti nelle sue acque oscure – anche il sole pieno, qui, ha un che di tenebroso –, ci aggiriamo nei pressi del «Museo delle Navi» (quelle ancorate da Caligola in mezzo al lago, però, sono in fumo da un pezzo: non si sa se per un’incursione americana, «mi piace l’odore del napalm al mattino»). Nulla, rigorosamente, che segnali il Luogo nel fitto del Bosco. Semiarresi all’afa, ci imbattiamo in uno spirito-guida: «Recate i vostri omaggi alla Dea», ci soffia dietro. Bisogna aggirare un cancello arrugginito, farsi largo tra i rovi, scavalcare una rete di plastica da cantiere. Lo sforzo è irrisorio: ma per Accedere, in ogni caso, è necessario Trasgredire.   

Sostiene Roberto Varese che il luogo del sacrificio rituale del Rex Nemorensis non si può vedere perché sopra ci avrebbero costruito una villetta: l’abuso edilizio più sofisticato di tutti i tempi. Ma al di là del supposto sfregio non si può immaginare abbandono più desolato di questo. L’aspetto è quello appunto d’un cantiere, come nell’Urbe quelli perenni della metropolitana. Dell’area templare resta qualche brandello scotomizzato da bandoni grossolani, teli scoloriti, pali infitti non si capisce a quale scopo.

Il terzo esploratore, Anil, evoca Eleusi. Pure al cuore di quella tenebra c’era il vuoto, la pura istituzione di sé stessa; e in effetti una tradizione minore identifica Diana con la Kóre. Ma quella che mi magnetizza è la Dea Lunare di Ovidio, sublime allumeuse che per esistere deve mostrarsi, dice Klossowski, ma quando appare lo fa solo per sottrarsi. Circolarità del mito: il divieto produce il desiderio ma il desiderio plasma il proprio oggetto. Senza l’occhio fremente di Atteone, della Dea resterebbe solo l’Idea: è lui a darle corpo. Giusto, allora, che lei gli sottragga il suo. Getto un ultimo sguardo al Luogo, Sacro in quanto Vuoto. Dietro gli occhi ammicca un muso di cervo, brillano i denti dei cani, luccica la mezzaluna sulla chioma della Dea. Carlo mi scuote: il sole sta calando, è ora di andare.

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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