La penetrazione dell’espressione “cultura visuale” nella lingua italiana risale al 2002, anno della prima traduzione, per Meltemi, di An Introduction to Visual Culture di Nicholas Mirzoeff. Pubblicato in originale nel 1999, il libro si proponeva come consuntivo programmatico di una stagione tutto sommato recente (la data di nascita “ufficiale” degli studi di cultura visuale è solitamente fatta risalire al 1985), ma molto intensa e feconda, e non soltanto negli Stati Uniti, come attesta la contemporanea affermazione della Bildwissenschaft germanofona.
Nelle intenzioni di Mirzoeff, la visual culture si configurava come una tattica per comprendere il postmoderno. La nozione di tattica, mutuata da De Certeau, veniva sottoposta a una rielaborazione atta ad acclimatarla al nuovo tempo segnato dalla globalizzazione e dall’annullamento dello spazio prodotto dal world wide web: non più, dunque, una forma di resistenza locale, come nell’autore de L’Invention du quotidien, bensì, integrando le analisi di Appadurai, un’istanza critica collocata nel campo di tensione tra locale e globale caratteristico della nuova epoca. Di qui l’identificazione dell’oggetto dellacultura visuale con il nuovo “immaginario transnazionale”; di qui, anche, l’adesione di Mirzoeff a uno dei capisaldi dei Visual Culture Studies, ovvero il rifiuto dell’opposizione tra cultura cosiddetta ‘alta’ e cultura cosiddetta ‘bassa’, dal momento che la dimensione nella quale i flussi di scambio tra globale e locale risulterebbero maggiormente visibili è quella che l’autore, parafrasando Gramsci, definisce “visual-popolare”, e alla quale egli dedica ampio spazio nel volume, dalle telenovelas sudamericane allora in auge alla copertura mediatica della morte di Lady Diana.
Il postmoderno, a sua volta, veniva interpretato da Mirzoeff come epoca dell’apogeo e insieme della crisi delle immagini. Apogeo, poiché nel postmoderno l’“evento visivo” si costituisce come principio e strumento per la comprensione e l’organizzazione della realtà, secondo logiche irriducibili ad altri regimi di significato, in primis quello verbale (qui le analisi dell’autore convergevano, nella pars destruens, con quelle del Thomas Pavel de Le Mirage linguistique e, nella pars construens, con l’iconic turn di Gottfried Boehm); ma anche crisi dell’immagine poiché, nel postmoderno, essa non è più capace di fare sintesi del reale: “La visualizzazione della vita quotidiana – scriveva Mirzoeff – non determina necessariamente la comprensione di ciò che vediamo”. Nell’accumulo e nella proliferazione postmoderna delle immagini, sosteneva, esse perdono quell’“immediatezza sensoriale” all’origine del “sublime” che per millenni è stato riconosciuto, anche dai suoi detrattori, come tratto saliente dell’esperienza iconica. Di qui l’urgenza, attraverso la visual culture, di ritrovare il senso delle immagini, di ripristinare la loro esperienza autentica.
A vent’anni di distanza, sulla scia di recenti introduzioni ‘autoctone’ alla cultura visuale (di Andrea Pinotti e Antonio Somaini per Einaudi e di Michele Cometa per Cortina), la traduzione del libro di Mirzoeff viene riproposta da Meltemi con la ‘storica’ introduzione di Anna Camaiti Hostert e una nuova prefazione di Giancarlo Grossi. La pubblicazione è occasione non soltanto per ritornare sulla ‘scena primaria’ degli studi di cultura visuale in Italia, ma anche per metterne a fuoco alcune specificità, che – come soltanto ora possiamo cominciare a osservare – in realtà divergono alquanto da quell’esordio.
Fornisce a questo proposito informazioni preziose un innovativo capitolo del già citato Cultura visuale di Michele Cometa, dedicato alla ricostruzione genealogica degli studi di cultura visuale in Italia. A eccezione della citazione d’obbligo della “raccolta di saggi a dire il vero parecchio eterogenea ma di grande impatto internazionale” di Mirzoeff, il nome di quest’ultimo non compare nel novero degli studiosi stranieri indicati come decisivi per la nascita degli studi italiani di cultura visuale, che comprende invece gli anglofoni Bal, Elkins e Mitchell e i germanofoni Belting e Bredekamp.
Giocò certo un ruolo, in questa che possiamo a tutti gli effetti definire una mancata penetrazione, nonostante la fortuna del titolo, lo scarto, già percepito da Camaiti Hostert, tra il mondo pre-11 settembre nel quale il libro era stato concepito, e il mondo del 2002 nel quale vide la luce la traduzione italiana, funestato quest’ultimo dalla cosiddetta “guerra al terrore” e dal conseguente “binarismo sterile” che aveva prosciugato la pluralità di punti di vista, la contaminazione di media e il meticciato di immagini del mondo postmoderno che, seppure in chiave critica, aveva ispirato le analisi di Mirzoeff. Si trattò tuttavia di eventi su scala globale, che non possono essere univocamente impiegati per spiegare un fenomeno di natura locale. Altre ragioni, di natura più intrinseca, dovettero giocare nella mancata ricezione.
Una traccia per una possibile risposta è fornita dallo stesso Cometa, quando osserva che il contributo dei Visual Cultural Studies e della Bildwissenschaft si innestò sul tronco già vigoroso degli studi di comparazione interartistica illustrati in Italia da Mario Praz e da Giovanni Pozzi (nomi ai quali andrebbe aggiunto quello di Lea Ritter Santini); e che quest’ultimo ramificò nelle ricerche sulla traduzione intersemiotica di Cesare Segre e in quelle sull’ekphrasis e sugli iconotesti di Lina Bolzoni e dello stesso Cometa (nonché del Pietro Montani dell’Immaginazione intermediale, aggiungiamo noi). A rinforzo intervenne, più precocemente che in qualsiasi altro contesto, grazie alle mediazioni di Delio Cantimori prima e di Carlo Ginzburg poi, la scienza della cultura warburghiana, da Cometa definita “la spina dorsale della cultura visuale italiana”; anche in questo caso si trattò di una prospettiva costitutivamente intermediale, stante la coalescenza originaria di parola e immagine nella struttura dell’engramma, come mostrato dagli studi di un altro autore molto influente a sud delle Alpi, Georges Didi-Huberman. È evidente come gli studi di cultura visuale germinarono in Italia su un terreno assai difforme da quello della visual culture di Mirzoeff, tesa a rimarcare, non differentemente da quanto proposto da Boehm (non a caso anch’egli poco fortunato in Italia, a differenza, ad esempio, della ricezione euforica ricevuta in una Francia più sensibile alle questioni di filosofia delle immagini e dell’immaginario), la specificità della ‘logica delle immagini’ e la sua alterità irriducibile ad altri regimi di significato, quello verbale in primis.
Resta valida, del libro di Mirzoeff, la sollecitazione a riattivare l’“immediatezza sensoriale” e il “sublime” delle immagini in un contesto se possibile ancora più caotico e anestetizzante di quello della fine del secolo scorso; magari proprio (ma dubitiamo che l’autore concorderebbe su questo punto) attraverso la “scrittura estesa” di natura iconotestuale indicata dall’ultimo Montani come possibile sorgente di “emozioni dell’intelligenza”.
Nicholas Mirzoeff
Introduzione alla cultura visuale
a cura di Anna Camaiti Hostert, traduzione di Federica Fontana, prefazione di Giancarlo Grossi
Meltemi, 2021, 422 pp., € 24
In copertina: La principessa Diana davanti al Taj Mahal, 1992