Si presenta una versione abbreviata e adattata di Passo dello Strabismo. Achille Bonito Oliva e l’arte della critica, saggio pubblicato all’interno del catalogo della mostra A.B.O. Theatron. L’Arte o la Vita, in corso fino al 9 gennaio 2022 al Castello di Rivoli Museo di Arte contemporanea.

Screen test
Nove pagine. Una fotografia: un primo piano ripetuto in otto fotogrammi immobili. Un testo che scorre. Volto e parole sono di Achille Bonito Oliva, lo scatto di Ugo Mulas, il luogo il catalogo di Amore mio, una mostra allestita a Palazzo Ricci di Montepulciano nell’estate del 1970[1]. Il ruolo con cui si firma il critico trentenne è quello di “segretario generale”, e il suo testo di apertura dichiara la volontà di “inaugurare un diverso comportamento, inedito nella storia del costume culturale: affermare per ciascun artista la diretta responsabilità di configurarsi criticamente al di fuori della consueta mediazione della critica d’arte”. Gli inviti alla mostra erano stati in effetti gestiti in autonomia dagli artisti, autoconvocatisi sulla base di predilezioni e affinità dichiarate, in un’aperta rivendicazione della “componente critica implicita nel loro operare” (Filiberto Menna) che si riflette nella concezione del catalogo, dove ogni partecipante compone liberamente le proprie pagine. È su questo sfondo che va inquadrata la scelta di Bonito Oliva (d’ora in avanti, per brevità, A.B.O.): chiamato a porsi su un piano di parità con gli artisti, il critico dismette il suo tradizionale, invisibile ruolo di mediatore e garante per mettere in gioco la propria soggettività; la sua faccia, e per estensione il suo comportamento, divengono letteralmente materiali dell’esposizione.
Preceduto dagli interventi di Carlo Alfano e Getulio Alviani e introdotto da una breve biografia in cui si definisce “letterato e critico d’arte”, A.B.O. presenta nel catalogo un enigmatico poème en prose. La prima “stanza”, la sola non accompagnata da un’immagine, recita:
Tutto l’interesse di questo racconto consiste nel modo in cui si compiono insieme otto movimenti, in una certa misura distinti e però legati a tal punto che la loro dipendenza resta nascosta. Gli otto movimenti sono necessari per raggiungere la morte, ma quale promuove gli altri, quale è il più importante?
Gli “otto movimenti” tratteggiano un singolare processo di iniziazione ricalcato su un modello illustre, il racconto filosofico Igitur ou la Folie d’Elbehnon (1869), tappa essenziale nella vicenda letteraria di Stéphane Mallarmé e della sua ricerca della parola poetica pura che sfocerà nel Coup de dés… (1897). Il testo descrive la catabasi, lo sprofondamento nel Nulla del protagonista, verso un suicidio simbolico che costituisce la porta d’ingresso alla “potenza del negativo”, a una paradossale piena coscienza di sé la cui posta consiste nella sconfitta dell’impotenza creativa: l’annientamento di se stessi diviene la paradossale condizione per la conquista dell’Opera.
Questa discesa negli abissi si trasforma nel catalogo di Amore mio nel percorso iniziatico dell’“eroe da camera”[2], il doppio esoterico del critico-poeta alla ricerca di una nuova nascita, di un nuovo principio di individuazione ritrovato grazie a “un lavoro lucido per procedere fuori di sé, per percepirsi nell’atto di sparire e apparire a se stessi nel miraggio di questa sparizione”. L’“eroe” è dunque il Critico stesso, alle prese con la necessità di una morte simbolica, l’uscita dalla “camera”, dal passato, posta come condizione di una indispensabile metamorfosi. Il rituale del distacco dallo scenario della vita precedente – “la camera è vuota come se già tutto fosse compiuto” – si configura come uno sprofondamento, un paradossale viaggio immobile, dove otto rintocchi, otto misure identiche e ripetute, segnano il tempo della morte, trasformazione e rinascita dell’eroe in un individuo nuovo: “come se fosse necessario morire anonimamente per poter morire nella certezza del proprio nome”.
Morire, attraversare il proprio negativo, significa per il Critico porre la possibilità della propria sopravvivenza in un’altra dimensione, quella dell’Artista, considerato quest’ultimo però non più come “produttore”, come depositario esclusivo di una sapienza materiale, quanto piuttosto agente di una praxis creativa che comprende ormai sia l’azione intellettuale sia la stessa biografia, l’idea, la parola, il gesto. Una prassi non più solo concentrata nella produzione di “oggetti” dotati di qualità estetiche peculiari ma aperta al fluire quotidiano dell’esperienza, al flusso del pensiero, all’oscurità del corpo[3]. Il dominio della parola conquistato dall’“eroe” non è il dominio del Poeta che A.B.O. era stato, ma del Critico-come-Auteur che ne assume d’ora in poi le fattezze con uno spostamento invisibile ma decisivo.
Testo e immagine rivelano ancora altro. Le frasi che campeggiano in bianco sopra ogni fotografia, incluse quelle appena riportate, sono in effetti la ripresa testuale o con poche variazioni di un saggio dedicato a Igitur di Maurice Blanchot contenuto in suo libro assai noto, L’Espace littéraire[4], di cui A.B.O. si appropria con gesto insieme disinvolto e sintomatico di un’attitudine che riporta direttamente alla sua attività letteraria e poetica del decennio precedente. Il metodo è mutuato da due procedimenti essenziali delle pratiche della neoavanguardia del secondo Novecento, anzitutto la tecnica di radice dada del cut-up, rinnovata da Brion Gysin e William S. Burroughs negli anni cinquanta e largamente utilizzata nei due decenni successivi in campo tanto letterario che artistico, e quindi il détournement di marca situazionista, con il valore anticonvenzionale attribuito alla decontestualizzazione, al riuso e al montaggio di materiali verbali e iconici. In Italia, in particolare, se ne ritrovano esempi tanto nell’area della poesia visiva, in cui A.B.O. aveva esordito a metà degli anni sessanta, quanto in quella del Gruppo 63, nella cui orbita era entrato nel 1967. Il riferimento più immediato è Nanni Balestrini, con i suoi collage verbo-visivi o i testi narrativi e poetici realizzati con l’ausilio di tecniche combinatorie che si ritrovano anche nei lavori di membri del Gruppo Operativo Sud 64 e del Gruppo 70, con cui A.B.O. aveva collaborato in varie occasioni. Quanto all’immagine replicata nelle otto “stanze” dell’intervento, si tratta della riproposizione di una delle tre fotografie di Ugo Mulas utilizzate per il volume di poesia Fictions Poems, pubblicato da A.B.O. nel 1968 con Lucio Amelio, dove figurava insieme ad altre due inquadrature di profilo e da dietro a comporre una sorta di rilievo antropometrico; le fotografie erano stampate su fogli tagliati in quattro parti che si aprivano svelando in successione le immagini, secondo la soluzione grafica ideata da Gianni Colombo[5]. L’immagine di Mulas, con le due metà del volto illuminate da due sorgenti di luce contrapposte, crea un effetto di assenza, di innaturale, ieratica fissità: la “camera” materna e soffocante abitata dall’“eroe” è dunque anche in senso proprio la camera fotografica, il suo potere di riproduzione e moltiplicazione, la sua capacità di generare il simulacro di una nuova vita.

Citazione e autocitazione compongono così nelle pagine di Amore mio un nuovo insieme significante, un vero e proprio iconotesto il cui tema, cripticamente dissimulato, è l’affermazione, sotto le spoglie di un iperbolico rispecchiamento narcisista, di una possibilità nuova: una relazione performativa tra biografia e opera, tra scrittura e immagine, tra pensiero critico e creazione poetica. In questo senso l’intervento va non solo considerato l’ideale compimento delle esperienze letterarie e visive del decennio precedente, ma soprattutto un’affermazione programmatica, per quanto velata, un’apertura di partita in cui si mettono a punto strategie comunicative che saranno poi costantemente utilizzate lungo tutto il percorso successivo di A.B.O., sul crinale sottile tra esibizionismo consapevole e seduttiva spettacolarità.
Nelle pagine che seguono cercherò di ricostruire le modalità con cui A.B.O. ha costruito negli anni settanta un percorso in cui critica e autorialità divengono indistinguibili all’interno di una persona in cui confluiscono una pratica eterodossa della storia dell’arte, un’attiva militanza critica nel presente e un’inedita dimensione comportamentale. Una critica come performance, dunque, in cui corpo, parola e azione convergono in forma ibrida e imprevista.
L’intervento per Amore mio stabilisce d’altro canto un piano di confronto, potremmo dire di interdiscorsività, con le pratiche artistiche che si andavano sviluppando a cavallo tra i due decenni, e in particolare con la performance e il tableau vivant fotografico praticati da artisti vicini ad A.B.O. come Vettor Pisani e Gino De Dominicis, o da personalità eterodosse come Luigi Ontani e Salvo. Ma riferimenti importanti sul piano visivo sono anche lavori fotografici prodotti in quegli stessi anni in Italia e altrove, tutti basati su uno stesso impianto formale – il primo piano frontale, lo sguardo rivolto all’osservatore, peraltro già usato da Giulio Paolini nella sua tela fotografica Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967) – che ricorre in opere di Giovanni Anselmo (Lato destro, 1970), Giuseppe Penone (Rovesciare gli occhi, 1970), Salvo (Autoritratto [Come Raffaello], 1970), Gilberto Zorio (Odio, 1971). Pure nelle evidenti differenze di sensibilità, poetiche e significati, in tutti questi casi – come pure in quello specifico di A.B.O. – la matrice è sempre il trattamento del volto utilizzato nei quadri foto-serigrafici di Andy Warhol e forse ancor più specificamente nei suoi screen tests, che forniscono la grammatica visiva fondamentale – antiespressiva e oggettiva – per la creazione di una silente ma determinata esibizione della presenza dell’artista.
Una logica combinatoria e teatrale governa anche altri interventi di A.B.O. degli anni settanta in cui l’immagine diviene uno statement, suggestivo e provocatorio al tempo stesso, di un approccio performativo alla funzione della critica[6]. È il caso della cartella fotografica pubblicata dalla galleria Artestudio di Pio Monti a Macerata nel 1972[7], dove un ritratto di Claudio Abate, replicato nelle dieci “tavole” dell’edizione, presenta A.B.O. a figura intera su uno sfondo alberato, in abito bianco, camicia e cravatta, la mano in tasca e l’espressione decisa, una posa frontale in cui affiora la memoria della celebre affiche di Joseph Beuys La rivoluzione siamo Noi (1971) e forse anche dell’iconico fotomontaggio Gemelli (1968), in cui Alighiero Boetti si presentava con il proprio alter ego. Sotto ognuna delle dieci immagini corre una didascalia bilingue, di cui resta invariata la prima parte (“Io sono Achille Bonito Oliva il critico dunque…”) mentre la coda consiste di volta in volta di definizioni diverse, ironiche o argute (“l’interposta persona”, “il leader”, “il traditore” ecc., ma anche il “coglione” secondo l’artista Vincent D’Arista che nel 1974 si appropriò dell’immagine).

La cartella era accompagnata da un breve scritto, dal titolo Autocritica, in cui A.B.O. sottolineava il potere della critica di “deviare l’opera dalla propria autonomia per integrarla nel sistema dell’arte dunque dal ‘dentro’ al ‘fuori’”, un rapporto “verticalizzato” e inevitabilmente gerarchico. Per questo, proseguiva il testo,
Il ruolo del critico ora deve consistere anche nell’esibire ed investigare la propria ideologia, quale contraddizione tipica tra la “neutralità” del momento di analisi puntuale dell’opera e l’inevitabile “parzialità” di una gestione di potere selettivo e discriminante. Il comportamento del critico deve, a mio avviso, puntualizzare (e tanto più oggi che l’arte occupa anche lo spazio della riflessione critica) questa contraddizione storica e politica: l’antico mito della mediazione tra opera e fruitore (l’arte vissuta per interposta persona) e un reale esercizio di potere culturale vissuto in prima persona.
È difficile resistere alla suggestione che in questo testo, e ancor più nelle fotografie che lo accompagnano, sia presente una sottile allusione in codice a Germano Celant, il critico e curatore che insieme ad A.B.O. incarnava il grande sommovimento della scena artistica italiana del momento, e la cui visione e le cui scelte – come vedremo meglio tra poco – gli si contrapponevano inevitabilmente sia sul piano culturale sia su quello delle strategie personali. Il raffronto è immediato e tutto giocato sul piano visivo: alla tenuta all black precocemente adottata da Celant (e mantenuta sino alla sua scomparsa nel 2020), A.B.O. sembra rispondere con il suo abito candido, gesto che fonde autoironica volontà di distinzione e distacco dandystico, o appunto “parzialità” e “neutralità”.
Per risolvere la “contraddizione storica e politica” il critico nell’epoca dello spettacolo deve diventare visibile, farsi corpo, occupare il vuoto lasciato dalla sua antica funzione di mediazione con un eccesso che possa proiettarlo nella stessa dimensione dell’artista. Per questo, per poter preservare il proprio diritto a parlare, conclude A.B.O., auto-segnalarsi significa “la consapevolezza velenosa e narcisista che solo attraverso la tautologia, la pura esibizione di se stessa, la critica assolve ideologicamente il proprio compito”.

[…]
La critica come performance
Gli interventi teorici e performativi di A.B.O. e la stessa sua scelta di considerare, come si è appena visto, l’esibizione come elemento significante dell’attività critica vanno inquadrati nel più ampio scenario delle tumultuose trasformazioni cui il campo artistico era andato incontro nel decennio precedente, culminate nell’atmosfera febbrile del ‘68. Ne erano state testimonianza paradigmatica, per limitarci allo scenario italiano, due manifestazioni tenutesi fra la primavera e l’autunno di quell’anno. Anzitutto, in maggio, Il teatro delle mostre, il “festival” di esposizioni personali rinnovate quotidianamente organizzato da Plinio De Martiis nella suagalleria La Tartaruga a Roma, un “lungo, insonne, nevrotico, meccanismo temporale di creazione-distruzione” (Tommaso Trini), per il cui catalogo A.B.O. firmerà brevi e incisive schede delle opere esposte.
Quindi, ai primi di ottobre, arte povera più azioni povere, curata da Celant ad Amalfi. Le opere e le azioni presentate sotto le volte gotiche degli Arsenali della Repubblica, nelle vie della cittadina o in riva al mare, come anche l’“assemblea” (una discussione aperta fra critici, artisti e pubblico svoltasi negli stessi spazi della mostra e a cui presero parte fra gli altri, oltre A.B.O. e Celant, Gillo Dorfles, Tommaso Trini, Filiberto Menna e Marcello Rumma, ideatore della manifestazione), rappresentarono in effetti l’irruzione di uno spirito di novità radicale, in cui opere e “comportamenti” davano vita a una mescolanza inedita e anarchica di materie, immagini, corpi e pensieri che sembrava poter realizzare, scriveva A.B.O. in catalogo, una totale, non alienata “umanizzazione del soggetto, attraverso la possibilità di recuperare del mondo qualsiasi immagine e qualsiasi materiale”[8]. Evento esemplare di un approccio esplicitamente antisistematico, Amalfi inaugurava un modello di esposizione come luogo in cui l’arte può “accadere” in continuità con la vita.
A un’autorevolezza critica misurata in termini di prestigio intellettuale e legata, in Italia e altrove, a schemi di interpretazione cristallizzati e di forte connotazione ideologica, evidente nei critici di formazione idealista e marxista, al tradizionale compito ermeneutico del testo nei confronti dell’immagine e al suo valore asseverativo, di garanzia, in rapporto alle istituzioni museali e al mercato si contrapponeva ormai l’esplicita valenza teorica assunta dal lavoro degli artisti, con il loro conseguente rifiuto di una mediazione critica giudicata irrimediabilmente autoritaria. L’attacco alla “istituzione-arte”, la deflagrazione dei medium espressivi e l’avvento di un’arte-in-generale che apriva a “situazioni” e procedimenti effimeri, all’immateriale, al performativo, e la comunanza di spazi e procedimenti con il teatro, la musica e la danza caratterizzano uno scenario in cui la volontà degli artisti di assumere il controllo delle modalità di esposizione e commento si muove in parallelo all’affermarsi della figura del curatore indipendente quale snodo essenziale dei processi di valorizzazione dell’arte più recente.
L’avvento di una generazione di critici formatasi in un clima politico e culturale del tutto diverso da quello dell’immediato dopoguerra italiano segna d’altro canto un irreversibile cambio di passo, segnalato anche dall’apparizione di riviste innovative come “Bit”, “cartabianca”, “Data”, “Flash Art” e altre ancora, caratterizzate da un approccio militante e multidisciplinare come pure da un’impaginazione innovativa in cui le immagini giocano un ruolo essenziale per documentare, si può dire in tempo reale, le novità del panorama internazionale. L’armamentario teorico-politico e la sensibilità intellettuale della generazione del ‘68 – nutrita di psicoanalisi, antropologia, filosofia post-strutturalista, critica neomarxista dell’imperialismo e del capitalismo ecc. – si contrapponeva del resto a quello della vecchia politica culturale della sinistra e del PCI, distaccandosi anche dalla prospettiva strutturalista e semiotica che aveva dominato il dibattito in Italia nella prima metà dei sessanta, una rottura che poteva misurarsi fisicamente anche nella diversità di attitudine comunicativa e finanche di abbigliamento. La critica è di fatto obbligata a reinventare la propria fisionomia, ad abbandonare ogni tentazione ortopedica nei confronti delle pratiche artistiche per divenire, pena l’uscita di scena o l’autocondanna all’irrilevanza, “comportamento, informazione, scrittura espositiva, ovvero pratica eterodossa e performativa” (Lara Conte).
Tanto ai critici quanto agli artisti si aprono così in quel momento due strade, come indicava Tommaso Trini nel 1970: il rifiuto del compromesso con l’ideologia borghese e dunque la fuoriuscita verso la militanza politica, oppure “l’uso delle tecniche particolari dell’arte per conseguire nuove attitudini da introdurre nel sistema”, una posizione largamente condivisa da artisti e critici e che vedrà forse le eccezioni più rilevanti nelle figure di Piero Gilardi, che dal 1969 si dedicherà alla militanza politica e a esperienze di creatività collettiva, e di Carla Lonzi, che abbandonerà dopo il 1970 la critica d’arte per fondare a Roma il gruppo Rivolta Femminile e dar vita a una parabola teorica e organizzativa tra le più originali e controverse dell’epoca.
In questo contesto, principale interlocutore/rivale di A.B.O. è inevitabilmente Germano Celant, che come lui praticava al tempo stesso scrittura ed exhibition making e con il quale avrebbe intrecciato nei decenni successivi una serrata competizione sia sul piano intellettuale sia su quello dello stile individuale. La posizione di Celant è fin dagli esordi pensata in opposizione all’atteggiamento prescrittivo, “selezionante e giudicante” attribuito a critici come Giulio Carlo Argan (cui A.B.O. era e rimase peraltro vicino), figura emblematica di un’attitudine da respingere integralmente, come si legge in suo testo molto noto del 1970, Per una critica acritica. L’arte contemporanea, sosteneva Celant,
chiede di essere lasciata in pace, non vuole essere ridotta a parole o a letture critiche, non vuole intervenire o offrire una lettura del mondo, non si pone in chiave moralistica, non accetta di essere addomesticata secondo una visione univoca e unisensa, rifiuta le incrostazioni interpretative, solo preoccupata di verificare nuovamente la sua intenzionalità eco-bio-logica, e si offre solo nella sua naturalità magico-mentale.
Accogliendo l’invito “a vedere di più, ascoltare di più, sentire di più” formulato da Susan Sontag in un saggio molto letto, Against interpretation (1964), opportunamente citato in apertura dell’articolo, la “critica acritica” di Celant respinge l’interpretazione e il giudizio, si fa “raccolta”, “archiviazione”, “registrazione”, diventa complice e fiancheggiatrice degli artisti. In altre parole, da un lato scioglie la conflittualità sottintesa nella relazione artista/critico e dall’altro respinge precisamente la relazione tra critica d’arte e mobilitazione civile che aveva rappresentato nel panorama italiano dopo il 1945 il tratto determinante del nuovo paesaggio dell’arte contemporanea.
Una posizione che riflette e avvalora una circostanza cruciale per critici della nuova generazione come A.B.O. e Celant: il divorzio tra critica e storia dell’arte che si consuma in Italia dopo il ‘68 e che costituirà nei decenni seguenti un limite notevole a una più matura ricezione della cultura artistica contemporanea nel nostro paese. Sarà al nuovo, inclusivo e pluralistico “sistema dell’arte” internazionale che vede la luce nei primi anni settanta – fondato sulla coesistenza di paradigmi estetici discordanti all’interno di un contesto omogeneo di pubblico e di mercato – che spetterà ormai il compito di asseverare il valore delle opere e renderne possibile l’ingresso nello spazio della mostra, laddove alla critica verrà lasciato il compito (collaterale e sempre meno influente) dell’interpretazione.

[…]
Il passo dello strabismo
Se l’arte è produzione materiale, il ruolo del critico è contraddittorio. Vitale in quanto conoscitivo, mortale perché promuove l’arte verso il museo e il mercato. La critica è l’attraversamento analitico delle contraddizioni del sistema artistico, la scrittura ne è la sintesi (non il suo doppio notarile), il teatro filosofico in cui la critica d’arte diventa arte della critica.
Questa diagnosi della posizione incerta e al tempo stesso insostituibile della critica nel campo artistico contemporaneo conclude un libro, Autocritico automobile, pubblicato da A.B.O. nel 1977. Additandone l’insanabile, strutturale ambivalenza, A.B.O. torna ad argomentare il paradosso di un’attività che proprio mentre pone l’esigenza della propria autonomia finisce per scoprire la propria doppia natura – appunto “vitale” e “mortale” – e cioè il suo essere insieme mezzo di liberazione e strumento di reificazione del potenziale artistico.
“L’attraversamento analitico delle contraddizioni del sistema artistico” è dunque al tempo stesso una necessaria presa d’atto della contraddizione in cui si muove l’azione del critico d’arte nello scenario della tarda modernità e una mossa strategica obbligata, l’unica che possa forse preservarla, trasformandola, dal rischio dell’irrilevanza. Al centro, una concezione della scrittura che accompagnerà sempre il percorso successivo di A.B.O.. L’idea cioè che al critico sia affidato il compito non dell’asseverazione, della conferma “notarile”, quanto piuttosto quello dell’interferenza, dell’antagonismo anche, con l’opera.
Il testo da cui è tratto il passo appena citato – una “antologia collage” di interviste rilasciate da A.B.O. tra il 1972 e il 1976 raccoltesotto il titolo Posizione riflessa – si apre con una domanda inattesa: il critico d’arte è dunque un coautore? La risposta non lascia dubbi: il critico deve rifiutare ogni “complesso di inferiorità” nei confronti dell’arte, e di fronte all’espansione nel campo teorico compiuta dalle esperienze concettuali “deve sentirsi autorizzato a rosicchiare a sua volta spazio all’esperienza artistica esteriorizzando il suo narcisismo”. In questo senso, prosegue A.B.O., è necessariamente un “traditore”, dal momento che deve respingere il culto feticistico cui la società condanna l’arte per preservarle “la speranza di tornare utile”. Quella della critica è dunque una “caccia sadica”, un inseguimento il cui obiettivo è “far fuori l’opera d’arte”, negarle l’aura, aiutarla “a diventare immediatamente merce”. La critica è dunque complice di un “processo di espropriazione”, di cui sono momenti inscindibili la sua opera di mediazione culturale e il suo contributo alla reificazione dell’opera. È solo a queste condizioni che l’arte può continuare “a produrre quegli anticorpi, quel contagio sociale” in cui si manifesta secondo A.B.O. la sua funzione più autentica, pur restando all’interno di un sistema composto da opera-pubblico-mercato in cui convivono significati simbolici, prestigio intellettuale e valore monetario.
Ecco dunque il paradosso di un avvelenamento necessario: togliere all’opera ogni illusione teologica per restituirla alla sua contingenza, al suo legame originario con la vita collettiva. Dietro l’iperbole e la provocazione di A.B.O. si profila una visione lucida della posta in gioco: la crisi oramai conclamata della funzione di mediazione e dell’autorità intellettuale, della legittimità stessa del discorso critico, esige risposte non ortodosse, non più fondate sulla riproposizione dello schema modernista del superamento, della costante distruzione e ricostruzione della pratica, dei linguaggi, delle idee dell’arte. La stessa personalità del critico, dunque, e non più solo la sua scrittura, e anzi il suo Io biografico, la sua stessa immagine esibita con vitalistica spregiudicatezza, sono altrettanti modi di intervenire, di praticare, di inverare pensieri e discorsi.
In un piccolo libro pubblicato nel 1975, Arte e sistema dell’arte,A.B.O. riprendeva queste idee reagendo implicitamente a un influente articolo[9] di Lawrence Alloway del 1972. Il critico inglese vi aveva analizzato i nuovi caratteri dell’artworld scorgendovi appunto un “sistema”fondato sulla cooperazione, una rete di istituzioni e di singoli attori – artisti, ma anche critici, curatori, collezionisti, direttori di musei, redattori di riviste ecc. – che creano un “negotiated envinronment”, una “rete” orizzontale e non gerarchica per la distribuzione e il consumo dell’arte in cui la critica perde la sua tradizionale posizione di privilegio.
Che ruolo ha dunque la critica in questo nuovo ecosistema definito dal sintagma “arte contemporanea” e dall’assenza di conflittualità anziché dallo scontro frontale tra avanguardia e tradizione? Con il suo apparente cinismo e una programmatica volontà di scandalizzare, A.B.O. mette il dito su una contraddizione latente che diverrà sempre più visibile man mano che ci allontanerà dal clima culturale degli anni settanta e ci si inoltrerà in un’epoca in cui l’arte crederà di poter mettere da parte ciò che Adorno aveva additato come il suo compito essenziale nell’epoca moderna: insorgere contro la reificazione del mondo. Per A.B.O. è necessario che il critico esca “dal proprio complesso di inferiorità (la creazione mancata)” e punti a investigare “la possibilità di un proprio ruolo autonomo”. Non può più limitarsi a esercitare il proprio potere in un “rapporto verticalizzato” con l’artista, ma “esibire ed investigare la propria ideologia: la contraddizione tipica tra la neutralità del momento di analisi puntuale dell’Opera e l’inevitabile parzialità di una gestione di potere selettivo e discriminante”.
Se dunque la critica non vuole ridursi a un ruolo notarile, sadico e repressivo, deve divenire autocritica, “nel senso di una velenosa autocoscienza del proprio ruolo verso il pubblico e verso il mercato”, rispetto ai quali il suo è un ruolo “vitale e mortale”. Vitale in quanto indispensabile, “socratica” mediazione conoscitiva nei confronti dello spettatore, mortale perché accanto a questo compito, vi è l’opera di volgarizzazione “che fa diventare commestibile l’arte attraverso un allargamento (che per questo sembra democratico) del gusto”.
Concepire la critica come singolarità, come variabile altamente individuale, anarchica e irregolare, è e resterà sempre la posta in gioco per A.B.O. Molte delle critiche che gli sono state rivolte nel corso di più di mezzo secolo finiscono in fondo per ribadire un giudizio sbrigativo: la sua visibilità, il suo protagonismo, sono giudicati eccessivi, riprovevoli, liquidati come manifestazioni di mero narcisismo. Ma la critica per A.B.O. è sin dall’origine, come ho cercato di mostrare, una scommessa, un’avventura di parola e di comportamento, un’attività performativa la cui eccedenza è già inclusa in partenza: sempre irritante e sempre corrosiva. Anche a costo di compromessi e cadute.
La forza, in un certo senso il segreto di questo atteggiamento sta in un’intuizione essenziale per comprendere come pratica dell’arte e pratica della critica si siano rispecchiate l’una nell’altra allo scorcio del XX secolo. Una duplice intuizione, anzi: quella dell’arte come “sistema” in cui la fisica dei poteri è oggetto di una costante rinegoziazione all’interno di un piano orizzontale comune che tollera ogni differenza perché in grado di ricomprenderla in una definizione di “contemporaneità” non più fondata sulla rottura, la divisione e la contrapposizione moderniste; e quella della critica come attività coinvolta sin dall’origine nella creazione artistica, suo doppio, e non più momento esterno di giudizio e classificazione. Con la consapevolezza che l’azione del critico si esplica non più solo nei testi ma appunto nei comportamenti e nel dispositivo dell’esposizione, sino a rendere permeabile il confine tra creazione e discorso, tra biografia, storia, giudizio. Per questo, dice A.B.O., non esiste
una funzione della critica: esiste l’indispensabile azione del critico che elabora teorie, sviluppa interpretazioni, dialoga con gli artisti, rende visibili le sue idee attraverso le mostre. Anche in un critico c’è un dimenticare a memoria, un processo creativo, seppure più autoriflessivo, di costruzione nel tempo. Ogni mostra, ogni libro, ogni gesto deve essere fatto con consapevolezza culturale ma anche […] con un atteggiamento profetico, con il coraggio dello sconfinamento[10].
È la coscienza della natura contraddittoria del suo mestiere, insieme mortifero e redentore, così come la precoce nozione della mescolanza inscindibile, nell’epoca dello spettacolo, dell’apparenza e della profondità, a conferire alla parabola di A.B.O. il valore di testimonianza esemplare e di chiave di lettura originale del suo tempo. È per lui in fondo rimasta sempre una scommessa rischiosa e allo stesso tempo indispensabile praticare la critica d’arte come arte della critica.

[1] Amore mio, catalogo della mostra (Palazzo Ricci, Montepulciano, 30 giugno – 30 settembre 1970), a cura di A. Bonito Oliva, Centro Di, Firenze 1970. Considerata dallo stesso autore l’avvio ufficiale del suo percorso curatoriale, la mostra era stata in realtà preceduta da altre manifestazioni organizzate a Napoli negli anni precedenti, spesso in collaborazione con Filiberto Menna. Su Amore mio, cfr. A. Bonito Oliva, Amore mio: i segni della presenza, in “Domus”, 490, 1970, p. 47; F. Belloni, Approdi e vedette. Amore mio a Montepulciano nel 1970, in “Studi di Memofonte”, 9, 2012, pp. 121-165.
[2] L’eroe da camera sarà il titolo di un fondamentale gruppo di lavori di Vettor Pisani, presente a Montepulciano, basati sul motivo dello “scorrevole” (tra cui appunto l’azione L’eroe da camera. Tutte le parole dal silenzio di Duchamp al rumore di Beuys, eseguita nei giorni dell’inaugurazione di dOCUMENTA 5, a Kassel, nel 1972). Cfr. M. Bremer, Autorappresentazione come “autospossessamento”? Epigonalità e singolarità ne L’eroe da camera di Vettor Pisani a documenta 5, 1972, in Vettor Pisani. Eroica/antieroica. Una monografia, a cura di L. Cherubini, A. Viliani e E. Viola, Electa, Milano 2016, pp. 104-113, e S. Chiodi, Lo scorrevole. Il teatro della crudeltà di Vettor Pisani, in“il verri”, L’io in finzione, 64, 2017, pp. 89-107.
[3] Sulla questione dell’eclisse dell’opera d’arte in quanto creazione materiale, la critica alla sua condizione di feticcio e l’avvento di un’arte intesa come práxis e non più póiesis cfr. S. Benvenuto, Le réel à l’époque de la reproductibilité technique. Notes en marge de Walter Benjamin, in “Ligeia”, 101-104, 2010, pp. 35-44. Su posizioni vicine è anche il saggio di G. Agamben, Archeologia dell’opera d’arte, in Creazione e anarchia, Neri Pozza, Vicenza 2017, pp. 9-28.
[4] Cfr. M. Blanchot, L’espace littéraire, Gallimard, Paris 1955 (trad. it. di G. Zanobetti, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967, pp. 90 e 93; l’unica variante è qui la sostituzione di otto “movimenti” ai tre dell’originale. Tutte le altre citazioni sono prelevate dallo stesso capitolo, L’esperienza di Igitur, tra le pagine 90 e 97 dell’edizione einaudiana). Fabio Belloni, in Approdi e vedette, p. 127, è stato il primo a notare il prelievo da Blanchot.
[5] Sull’intervento di A.B.O. nel catalogo di Amore mio e per un’analisi dei prelievi da Mulas e Blanchot si veda G. Biagi, Sulla traccia della citazione. Achille Bonito Oliva: un’arte della critica tra effimero permanente e linguaggio come paralisi, in “Studiolo”, 15, 2018, pp. 226-246, in part. pp. 239-246.
[6] Le copertine di due riviste (“Proposta”, 5, 1973 e “Art Dimension Art”, 1, 1975) riprodurranno la foto di A.B.O. con la didascalia: “Io sono Achille Bonito Oliva il critico dunque il traditore”. I più tardi e clamorosi nudi pubblicati sulla rivista “Frigidaire” (104-105, agosto 1989), pur nella loro accentuazione ludica e disimpegnata, vanno visti in continuità con questa produzione.
[7] A. Bonito Oliva, Io sono Achille Bonito Oliva, fotografia di Claudio Abate, cartella di 10 fogli, edizione di 115 esemplari numerati, 50 x 70 cm, Artestudio, Macerata 1972. Cfr. A.B.O. Le arti della critica, catalogo della mostra (Palazzo Bice Piacentini, San Benedetto del Tronto, 5 maggio – 18 giugno 2001), a cura di A. Capasso, tav. 2, dove però è erroneamente datata al 1970.
[8] A. Bonito Oliva, Contro la solitudine degli oggetti, in arte povera più azioni povere, catalogo della mostra (Antichi Arsenali, Amalfi, 4-6 ottobre 1968), a cura di Germano Celant, Rumma editore, Salerno 1969, pp. 69-72.
[9] L. Alloway, Network: The Art WorId Described as a System, in “Artforum International”, 11, 1, 1972, pp. 28-32; poi in Id., Network. Art and the Complex Present, UMI Research Press, Ann Arbor 1984, pp. 3-15.
[10] S. Chiodi, Memoria del dimenticare (a memoria). Conversazione con Achille Bonito Oliva, in A. Bonito Oliva, Il territorio magico [1971], Firenze, fuoriformato Le Lettere, 2009, p. 266.