A coloro i quali si interrogassero su che cosa facesse Dio prima di creare il cielo e la terra, ovvero su come fosse nato il tempo, Sant’Agostino (Confessioni, XI, 12) riteneva che andasse risposto ch’Egli preparava la Gheenna per quanti si proponessero di scrutare misteri tanto profondi. Da allora non pochi sforzi, e nei più dispari campi del sapere, sono stati compiuti per tentare di comprendere l’origine e la natura del tempo. Si è così potuta dispiegare una storia che è stata, ed è tutt’ora, un nugolo di esperienze, idee, convinzioni atee e religiose, fantasie filosofiche, congetture fisiche, le quali – come pure dimostra il recente saggio di Joseph Mazur, Storia del tempo. Misurare il tempo da Zenone alla fisica quantistica (il Saggiatore 2021) – sono ben lungi dal trovare un ordine, se non una soluzione.
Maggiore fortuna hanno avuto i tentativi di proporre, del tempo, una tanatografia. Quanto più ci si avanza nell’età contemporanea e tanto più appare poco soddisfacente, forse, ritenere che il tempo sia un apriori del tutto indipendente dall’esperienza. All’opposto, complice pure la ricerca fisica di ispirazione einsteiniana, si è andata sempre più affermando l’idea che, del tempo, possa aversi percezione: se non del suo sorgere, almeno del suo trapassare. Come ricorda nell’Ordine del tempo (Adelphi 2016) Carlo Rovelli: «il tempo non è una linea con due direzioni eguali: è una freccia con estremità diverse. È questo che ci sta a cuore del tempo, più che la velocità a cui passa. È questo il cuore del tempo. Questo scivolare che sentiamo bruciare sulla pelle, nell’ansia del futuro, nel mistero della memoria».
Il senso di questo fluire, della sua potenza divoratrice, era già sembrato a Hegel, forse poco avvezzo a valersi d’un rigoroso metodo scientifico e proprio per questo uso a «strutture concettuali mitiche» e a «oscure anticipazioni metafisiche», potersi comprendere nei termini di una disputa fra due divinità olimpiche: Kronos e Zeus. Quest’ultimo – si legge nelle Lezioni sulla filosofia della storia – ha messo sì fine alla potenza del padre Kronos, e tuttavia «è stato anch’egli divorato con tutto il suo regno, e proprio dal principio del pensiero, dal generatore della conoscenza, del ragionamento, della convinzione basata su ragioni e dalla esigenza di trovare ragioni». Con la sua prosa dinamica, frutto dell’iterazione più stringente fra pensiero e linguaggio, Hegel parrebbe voler segnalare la necessità d’un accostamento fra la stabilità incarnata da Zeus e il tempo originario impersonato da Kronos, quale «elemento negativo del sensibile», che «mette fuori gioco tutto ciò che è limitato». All’opinione che sia nel tempo che nasce e perisce ogni cosa, Hegel contrappone l’idea che sia il tempo stesso questo nascere e perire: esso – si afferma nell’Enciclopedia – alla medesima stregua di Kronos, di tutto generatore e distruttore, è «eternità che contiene ogni momento in lei stessa».
È stato osservato che nell’affermazione d’una durata infinita dell’eternità, nella quale la temporalità del contingente è superata, conservata ed insieme livellata, sussisterebbe però una mancanza: l’aver risolto l’eternità nello spirito, ossia in ciò che sopravvive allo svanire di quanto è empirico-mortale, senza perciò ammettere la possibilità che il consummatum est si riferisca al tempo stesso. A questo alluderebbe il mito di Kronos, se spogliato d’ogni callopismatismo, e quindi ridotto a fungere da figurazione d’un brutale atto di cannibalismo.
A una tale ipotesi, se si assume «il mestiere di sondare i misteri delle cose, come se fossimo spie degli dei» (Re Lear, atto V), parrebbe possibile pervenire attraverso il Saturno dipinto da Francisco Goya fra il 1820 e il 1823:

Se in Goya l’idea nasce sempre a partire dall’immagine, nella più cupa e drammatica fra le Pinturas negras troverebbe infatti illustrazione lo scarnificarsi del tempo a opera di sé medesimo, secondando – osserva Umberto Curi nella sua raffinata ekphrasis dell’opera – l’impulso forsennato a rincorrere la propria stessa fine. Il senso del Saturno era d’altronde apparso, già al tentativo di Yves Bonnefoy (Goya, le pitture nere, Donzelli 2006) di diradarne il mistero, interamente raccolto nell’esigenza della vita, del suo scorrere, di sbranarsi o di fuggirsi. Non a caso fin dallo studio di Charles Yriarte, Goya, sa biographie, pubblicato nel 1867, il Saturno è visto come la raffigurazione d’un colosso senza alcuna affinità col «caro duce sotto / cui giacque ogne malizia morta» (Paradiso, XXI, 26-27) e neppure col «Mangiabambini» dell’omonima leggenda ebraica di cui è vestigia l’inquietante Kindlifresserbrunnen di Berna.

Si tratterebbe soltanto d’un assassino, di un essere mostruoso, colto nell’atto di fare a brani un corpo, in un crescendo teratico reso ancor più spaventevole dal buio d’uno spazio illimitato, dal quale emerge un corpo ponderoso, colto dal punto di osservazione posto in basso. Il primissimo piano restituisce la figura d’un Saturno scevro d’ogni possibile spiegazione razionale, facendo sì che ogni carattere mitologico venga meno, onde dare luogo ad una pura visione orrorifica, nella quale «si carcera la notte / in turbinante vuota dismisura» (Ungaretti, Ultimi cori per la terra promessa).
Contrariamente al Saturno di Rubens (1636-67), che pure la critica ha indicato come possibile modello di Goya,

nell’omonima Pittura Nera non si ravvisa più alcun connotato allegorico, quali la falce e gli astri. Tutto si concentra su un momento atroce: sulle mani che afferrano convulsamente la schiena insanguinata della vittima. Come in larga parte dell’opera di Goya si assiste ad un ritorno all’origine, a un regresso verso una tetra «tohù vabohù» (Gn. 1, 2), una informe desolazione primordiale. In Goya «l’oscuro – ha scritto Jean Starobinski in 1789. I sogni e gli incubi della ragione (Abscondita 2010) – ha preso un’evidenza rugosa e massiccia, che non è più possibile restituire al nulla». E tuttavia è ancora possibile nominare nella sua frenesia mortale, ricorrendo alla forza dell’emblema o d’una descrizione diretta. Viene così scoprendosi la possibilità, non già di assicurare all’interpretazione ciò che inevitabilmente le sfugge, non potendo le Pitture Nere essere avvicinate attraverso l’esame dei soggetti e delle intenzioni, quanto di accedere, senza resistenza, alla percezione della Fine.

Curi a questo riguardo suggerisce un paragone del Saturno con l’acquaforte di William Hogarth, The Bathos (1764), nella quale ad un corteo di simboli del tempo si accompagnano una serie di cartigli: finis, the world’s end, nature bankrupt, i quali rinviano alla caducità di tutte le cose come del tempo stesso. Ma, con Guido Ceronetti (La carta è stanca, Adelphi 2000), occorrerebbe rilevare la «grande bontà» di questa morte del tempo hogartiana: la vera tenebra è al di là del brivido leggero che suscita l’immagine di un Tempo incanutito e inagrito, che «si polverizza nel mortaio del raffinato gioco del bathos», dell’anticlimax. L’emiplegia del Tempo non conduce, in Hogarth, ad una seria apocalisse: non diversamente da un qualsiasi Bertie Wooster, egli è raffigurato nel momento in cui, nominato esecutore testamentario del «Caos illustrabile», esala un ultimo respiro che lo consegna all’eternità della sua stessa infinitezza.
Al contrario il tempus edax effigiato nel Saturno di Goya (sempre che sua sia la mano; qualcuno ha cominciato a dubitarne) inghiotte ogni cosa, fino a esaurire le proprie capacità vitali, al punto da consumare se stesso in un’autofagia senza ritorno. Da questo punto di vista, il Saturno dovrebbe annoverarsi fra le opere capaci di tradurre in immagine la “fine di ogni tempo”, intesa «come una grandezza […] di cui non ci si potrebbe formare alcun concetto» – come appunta Kant all’inizio della Fine di tutte le cose (Bollati Boringhieri 2006) – e di fronte alla quale la stessa immaginazione si troverebbe impossibilitata a produrre altro che metafore terrificanti. La natura intera infatti nel momento in cui cessasse ogni mutamento e con esso il tempo stesso, non potrebbe che pietrificarsi in una totale assenza di qualsivoglia variazione.
Nell’Apocalisse (10, 5-6) si legge: «un angelo levò la mano destra verso il cielo, e giurò […] che non vi sarà più il tempo». Che quest’annunzio sia proferito da un angelo deve forse spiegarsi, seguendo il De Caelo et de Inferno dell’arcivisionario Emanuel Swedenborg, in ragione del fatto che questa creatura celeste non conosce il concetto di tempo, ma solo quello di stato. Proseguendo quanto già sapeva la teologia greca del sesto secolo, essere angeli e demoni consimili, consistendo la loro unica differenza nella taxis, nell’ordinamento, e non nella physis, nella natura, la cabala ebraica fu solita identificare le divinità mitologiche con le gerarchie celesti. Ecco quindi che Zachariel venne fatto coincidere con Giove, Zamaël con Marte, Michaël col Sole, Anaël con Venere, Raphaël con Mercurio, Gabriel con la Luna e Orifiel con Saturno. Nel terzo libro della Steganografia (1499) di Johannes Trithemius si legge che quest’ultimo angelo si invoca raffigurandolo su un pezzo di carta nuova o in una statuetta di cera; l’immagine deve quindi essere serbata in casa, ed entro un giorno il messaggio verrà trasmesso. Il Saturno era stato collocato al piano terra della Quinta del sordo, la piccola dimora appena fuori Madrid che Goya, anziano e malato, abitò fra il 1819 e il 1823, ritrovandovi le emozioni dell’infanzia, la paura notturna delle ombre proiettate dal fuoco.
Umberto Curi
La morte del tempo
il Mulino, 2021, pp. 130, € 12
In copertina: Francisco de Goya, Saturno devorando a su hijo, 1821-1823