Sarebbe bello, ai fini della narrazione, affidare i pensieri qui raccolti ad un lembo di brughiera baciato dal mare, o riporli in un giardino inglese ancora intinto di rugiada, di quelli incantevoli che si leggono nei diari della Woolf, con tanto di veranda immersa nel verde ad inghiottire la luce. Ma la verità, il cuore concreto del vissuto da cui sgorgano queste parole, è ben altra. Per anni ho osservato, attraverso il vetro sporco di una metropolitana in corsa, un tripudio di lapidi fare capolino dal nulla, nel mezzo di un viaggio ormai diventato anonimo, compiuto centinaia di volte. Un pezzo di vita quotidiana così logoro e banale, così intriso di oscenità, che ci vuole fegato a pensare di scriverci qualcosa. Eppure, il guizzo di lapidi riusciva quasi sempre a corrodere l’abitudine, catturando la mia attenzione prima dell’ultima fermata. Finché un giorno, interrompendo la routine, sono scesa ad incontrare i morti.
Per chi si addentra in questo squallido rettangolo di metropoli ai margini dell’East End londinese, che nulla ha da spartire con la perfezione stucchevole della City, l’apertura del cimitero è un punto di tregua dal disagio e dalla fatica che gocciolano dai muri del quartiere, alcuni dei quali recano la più mortifera delle epigrafi: ‘Children must not play here’. Varcata la soglia del cimitero, mentre cammino tra ciò che non è più, ho la sensazione di trovarmi, paradossalmente, in un luogo di vita. Il pensiero, mimando le spirali dei rampicanti verdi attorcigliati alle lastre, s’incammina nei sentieri del vissuto e immagina, à la Edgar Lee Masters, parole sepolcrali ad interrogare il vuoto. Quale volto dietro questi nomi? Di chi erano figli? Quante volte il loro cuore si sarà spezzato e per che cosa avranno lottato?
Capisco forse solo ora, a distanza di anni e vagando tra le tombe, alcune parole di Henri Lefebvre. Il cimitero, spazio di rappresentazione ricco di simboli ed immagini, è un ‘luogo del vissuto’, più vissuto che pensato, come scriveva ne La produzione dello spazio (Moizzi, 1976). Il vissuto non è schiacciato: mi avvolge con una potenza inaudita, facendo pesare in ogni angolo la sua presenza. Attraverso la gestualità dei corpi, si fa spazio la domanda sulla vita. Mi trovo nel luogo di un domandare infinito, che non fa sconti nemmeno a chi riconosce, nei nomi e nei simboli, l’immagine dei propri cari. Vengono a cercarli nella rappresentazione.
Quanto la faceva facile Mefistofele, mi viene da pensare guardando i volti di chi cerca l’impossibile, con la sua lectio magistralis sull’eterno abisso. Dilettarsi di ciò che non è più. E come si fa? Come dirlo a quella madre che piange il figlio? Gliel’hanno ammazzato a coltellate, davanti agli occhi, come succede a tanti da queste parti. Come può il pensiero spaccare la crosta del vissuto e non lasciarsi soffocare dalla miseria rigurgitante? Eppure, il brivido della vita – il potenziale metamorfico che ci salva dall’agognato irrigidimento e dalle paludi del pensiero, e ci spinge verso il fondo inesistente dell’immenso – è racchiuso in questo abbandono, come aveva intuito Faust.
La gestualità di cui pullula il vissuto corporale e di cui scrive Lefebvre è ovunque. Le Madonne, con le loro mani giunte, vegliano sui resti ed implorano pietà. Altre, invece, sono raffigurate a braccia aperte: pare abbiano gettato la spugna e si siano arrese all’impossibilità di comprendere. Caro mio, perché non vivi più? Chiedono le labbra che baciano la tomba. Travolte dall’abisso della domanda, le Madonne dalle braccia aperte si sono forse accorte che il desiderio di comprendere, per essere tale, deve restare eternamente inappagato, insoddisfatto. Che cosa farsene della soddisfazione d’aver compreso se poi il desiderio muore e non resta nulla da dire, tantomeno da vivere? Perché ci possa essere ancora da dire e da vivere è necessario che qualcosa rimanga indecifrabile e incomprensibile, occorre avere fede nell’insondabile e nell’indicibile: è necessario che le braccia siano aperte.
Lefebvre aveva intuito la fragilità del non-detto e del non-visto nello spazio sociale moderno, emblema del potere politico, dove la predilezione per il leggibile e il visibile finisce per schiacciare il vissuto, la sua concretezza – e non la sua immediatezza, precisava Lefebvre -, nell’illusione che tutto possa essere manifesto, detto, scritto, che tutta la vita possa ridursi agli ordini del percepito e del pensato. Ma il vissuto, la sua opacità, non è riducibile né all’immediatezza del percepito (pratica dello spazio) né all’ordine del concetto (rappresentazioni dello spazio). Lo spazio astratto prodotto dal tardo capitalismo, tessuto sociale dal carattere contraddittorio, imbevuto di ideologia e fautore di omologazione, non è altro che il sistematico tentativo di reprimere il vissuto, la sua sporca materia, i nodi affettivi, il reale dei corpi, il concreto della vita. Se da una parte si coltiva l’illusione che tutto possa essere decifrato e trasparente, venerando l’onnipresenza del significato, tale delirio ‘rimanda ad una sovra-significazione che sfugge al senso’ (p. 69), svuotando la vita quotidiana del suo residuo concreto. Nell’astrazione complessa di tale spazio, perdere di vista l’indicibile, il non-visto, l’insondabile, vuol dire perdere la vita: ‘c’è poco da dire, e ancor meno da vivere. Il vissuto è schiacciato, il pensato sovrasta’ (p. 70). Ma come può il pensato schiacciare il vissuto, mi domandavo.
La risposta, tardiva, è arrivata tra quelle mura che pensavo, ingenuamente, fossero erette a difesa dell’insondabile: quelle dell’università. Mi è capitato, in uno dei tanti convegni che popolano il diario accademico, di sognare ad occhi aperti, fissando una finestra. Là fuori c’era un cielo che cambiava continuamente colore, e le forme fugaci tracciate dal vento del nord, incalzato dalle nuvole, si dissolvevano senza paura, andavano e venivano, in un incessante rito di passaggio che solleticava l’immaginazione. All’interno di quell’aula, invece, nulla accennava al minimo slancio, nessuna idea si mostrava propensa a barcollare. Non uno stormo di dubbi ad attaccare la fissità degli arguments, non una carta che non fosse stata scoperta dall’inizio, nessun cenno di onestà, nemmeno un sorriso spontaneo. Ecco che a volte, tra queste mura, il pensato schiacciava il vissuto. Ecco la palude, l’irrigidimento senza brivido. Le resistenze soccombono alla sovranità della coerenza, regina spietata che, se lasciata al comando, ignora il rischio, la passione, la curiosità. Frutto di quella volizione senza tempo che ci accomuna e contro cui Rimbaud protestava – ‘L’uomo vuol tutto sondare – e sapere!’. L’insondabile non era solo fuggito dall’aula, ma dai corpi che la occupavano.
Per cambiare la vita bisogna cambiare lo spazio, diceva Lefebvre. Fuori dall’aula, tra le tombe, giunge chiara la percezione che il ‘possibile immediato’, pur nella sua inconciliabilità con il ‘lontano e impossibile’, non si dissocia affatto da esso, da ciò che sfugge continuamente alla volontà di sondare. Questo trasognato stare al mondo, volto ora in lontananza a domandare l’impossibile – dove siete voi che una volta avete vissuto? – non è forse tanto reale, e tanto immaginario, quanto la possibilità immediata del corpo che si regge su un sottosuolo di ceneri e fantasmi? C’è distanza, ed inconciliabilità, ma non siamo affatto dissociati, io e loro. Non c’è né io né loro, a dirla tutta, ma un comune sostare, un orientamento verso qualcos’altro nella concretezza di un vissuto che si apre, come le braccia delle Madonne, invece che dileguarsi come neve al sole, come quando lo si vuole afferrare unicamente con la presa sicura del concetto. Un orientamento, scriveva Lefebvre, ovvero un senso – ‘un organo che percepisce, una direzione pensata, un movimento vissuto che si apre un varco verso l’orizzonte’ (p. 401).
Nella percezione di una piega che non dissocia ma evidenzia, solamente, il volto eterogeneo della coesistenza, in questa fossa del sentire e del pensare, nel concreto del vissuto, si apre uno spazio che accoglie l’annuncio, non l’imminenza, distingueva Lefebvre, di un’altra vita possibile. Quanta verità in queste sue parole: l’annuncio non è imminenza, così come il concreto non è immediatezza. Con la sua improvvisa apparizione, l’arcangelo Gabriele annunciava la grazia di una nuova vita, porgendo un ramo fiorito. ‘Come è possibile?’, chiedeva stupefatta Maria. Ecco, dovremmo forse fermarci qui ed aggrapparci a questa domanda, portarcela ovunque come un talismano scaccia significati, senza tacerla con il trucco della risposta. Bisognerebbe dire all’angelo di non spifferare nulla, di non spiegare la vita che verrà ma di mostrarla solamente: il fiore deve bastare. Fuori dalla parola, sulla superficie dell’immagine, basta il gesto a meravigliare e spaventare. Scegliere il fiore nella mano, il saluto imprevisto, la venuta improvvisa, talvolta sottolineata dal panneggio scompigliato delle vesti. Guardare quel corpo chino, pieno di grazia, quella mano che porge il fiore, e sentirli, sentire l’annuncio di una vita possibile.
Nell’ipervisibilità di cui è satura la nostra vita quotidiana, l’orientamento suggerito da Lefebvre assume un valore ancora più significativo. E’ ormai evidente quanto la trilogia del percepito-pensato-vissuto sia sbilanciata a favore del primo termine: un organo che percepisce, i nostri occhi di fronte alla realtà-schermo. Il vissuto non è più solo schiacciato dal pensato, ma viene assimilato al percepito, ad una pratica dello spazio che riduce la vita all’immediatezza dell’immagine. Come trovare, allora, l’annuncio di una vita possibile? Come sentirlo? Se per cambiare la vita bisogna cambiare lo spazio, si dovrà forse partire dallo spazio della vista per potersi orientare verso un’altra vita, un altro mondo possibile. Si dovrà forse cercare, nei nostri occhi, una dimensione differenziale in cui sentire lo ‘splendore effimero’ del fiore, guardarlo per cercare la vita possibile e non immediata, sentirne lo splendore e, attraverso questa visione, aprirsi alla voragine della domanda che segue l’apparizione, senza irrigidire il vissuto nell’imbastitura del già noto. La parola che nasce da questa mistura di splendori potrà forse trattenerne i succhi, mostrando la propria riverenza per l’insondabile che trova spazio nel concreto del vissuto. Lasciare spazio ad una piega in cui il vissuto possa aprirsi un varco, senza l’appoggio dell’oltre. Non è fuori dal reale che Lefebvre immaginava la creazione di nuovi spazi attraverso cui mostrare che tutto è ancora da dire, e tutto è ancora da vivere, ma nell’abbraccio ritrovato tra il percepito, il pensato e il vissuto, senza che vi sia assimilazione né oppressione. Nell’interstizio della piega che non dissocia.
Mi chiedo se tutta la forza dell’insegnamento di Lefebvre non sia racchiusa nell’invito a sognare ad occhi aperti. Tutto è ancora da dire, e da vivere. C’è chi ancora se lo fila Sigismondo, con le sue meravigliose paranoie sull’impermanenza di vita e sogno, c’è ancora qualcuno che dubita fortemente, per dirla con Rimbaud, che la voce del pensiero sia più di un sogno. Non lo è. Vale la pena coltivare uno sguardo trasognato per ritrovare un pensiero sognante, all’altezza del compito: trasformare la vita, partendo dagli occhi che la guardano.
Sognando ad occhi aperti non si esce dalla vita e non si sbattono le porte in faccia alla realtà, come vuole il luogo comune. Casomai, si accoglie l’annuncio dell’impossibile all’interno della vita stessa, nel più quotidiano dei gesti, nelle abitudini più familiari. Gli occhi restano aperti, ma una distanza li attraversa. L’assentarsi che richiede il sogno ad occhi aperti non è semplice assenza o negazione, ma un movimento del vissuto, del pensato e del percepito. E’ la possibilità di lasciarsi attraversare dal colpo di grazia, senza morire. Attraverso uno sguardo trasognato si può fare spazio per cogliere l’indecifrabile apparizione senza schiacciarla. Si può osservare l’accadimento miracoloso che intensifica l’ordine del reale, senza nasconderne lo squallore, la banalità, l’insensatezza – quale sentore di verità può coprire il tanfo di marcio? Ciò vuol dire, in altre parole, trasformare la vita, come scriverà Lefebvre in quella gemma di pensiero e meraviglia che è ‘Note scritte una domenica nella campagna francese’, nella Critica della vita quotidiana (Dedalo, 1977). Sognando ad occhi aperti, spettatori meravigliati e frequentatori del vuoto senza nome condividono il desiderio di andare verso il fondo inesistente dell’immenso, nel concreto del vissuto, lontano dall’irrigidimento e oltre la descrizione. In questo attraversamento privo di segnaletica si celebra un eterno rito di passaggio senza alcun approdo – si attraversa solamente e ci si lascia attraversare, senza mai raggiungere, senza mai concludere. Non c’è fondo, ma solo verso – senso, orientamento. La potenza dell’immaginario, e del reale, non è altro che l’esperienza di questo infinito attraversamento.
Mentre ripenso alla grazia del giglio e del ramo d’ulivo nelle grandi Annunciazioni della storia dell’arte, qualcuno, in lontananza, adagia un fiore fresco sulla tomba. Il giglio pensato e il fiore percepito, l’annuncio della vita che verrà e l’evidenza della morte, per un istante, vengono ad abbracciarsi nelle fitte trame del vissuto, nel movimento di quel corpo che lascia cadere la sua offerta. Osservo il fiore adagiato, nella sua incantevole indifferenza al problema della morte umana, e penso: a nulla può quel gesto, colmo di carità. A nulla può il mio domandare, attraverso questa immagine. Sulla scia inesistente del Faust – la via non c’è, diceva Mefistofele -, non resta che tenere accesa la speranza di trovare, in questo nulla, il tutto.
In copertina: un’immagine di repertorio del Woodland Cemetery di Dayton, Ohio