Ogni movimento presuppone una stasi interrotta, ogni stasi l’interruzione di un movimento (una «dialettica in stato di arresto»: Giorgio Agamben, 2007). La presenza nella memoria di un luogo, di un tempo, di un gesto presuppone la sua materiale assenza nel presente (Yves Bonnefoy, 1953; Francesco Targhetta, 2012). Ogni immagine riprodotta è un «è stato»: l’attestazione di qualcosa in un passato, e insieme il suo non essere più (Roland Barthes, 1980). Ogni immagine riprodotta è un «estratto» dal tempo e dallo spazio, cioè dalla vita, e ogni «fermo immagine» un documento tanto necessario quanto insufficiente (Susan Sontag e Georges Didi-Huberman, 2003; Elio Mazzacane, oggi). Se non proprio, forse, una «falsificazione»: Massimo Palma, oggi.
È appena uscito Movimento e stasi (con prefazione di Gennaro Carillo, nella collana «Poetica» diretta da Nicolò Scaffai e Gabriel Del Sarto per Industria & Letteratura, pp. 85, € 15). Agli eventi consumatisi a Genova nel luglio del 2001 Massimo Palma aveva già dedicato Happy Diaz (Arcana 2015; ora riproposto da Castelvecchi: pp. 144, € 11,50). Lui, che fisicamente non c’era, è ossessionato da fatti che – come la maggior parte di noi – ha potuto considerare solo a partire dalla loro documentazione mediatica. Anche se – come la maggior parte di noi – è consapevole della sua deformazione. Mille Zapruder non dicono una cosa mille volte più “vera” di quella mostrata dall’unico operatore che filmò la morte di Kennedy, a Dallas nel ’63. Invece di uno, producono mille «estratti»: ciascuno dei quali opinabile come, del resto, i punti di vista di chi nella folla c’era (e vivendo l’evento al tempo stesso lo guarda, perfetta sineddoche dell’esistenza, «come se il mondo esterno scorresse su una tavola tridimensionale»: Guido Mazzoni, Genova, in La pura superficie, 2017).
Il G8 anticipa l’11 settembre, destinato a eclissarlo, soprattutto in questo: il primo fatto storico documentato da una molteplicità di fonti visive diverse, il primo avvenimento “cubista” della storia (come sottolineato già, “a caldo”, dai primi film che gli vennero dedicati: Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini e Solo limoni del compianto Giacomo Verde). La molteplicità delle interpretazioni, delle strumentalizzazioni, delle falsificazioni produce un effetto-nebbia, o un effetto-lacrimogeno piuttosto, una distanza dalla realtà che si accresce in misura della volontà di inseguirla (così pure in quello che forse è il più bel racconto di Christian Raimo, Tutte queste domande: a sua volta scritto “a caldo” ma ora incluso nell’autoantologia appena uscita, La vita che verrà).
Tutti questi concetti non possono non abitare la scrittura di Palma, che sa di filosofia quanto di letteratura (l’«inquietudine» insita nella parola stasi – parola double-face come Unheimliche o Ospite – «pone enormi problemi nell’uso dei ricordi», annota in conclusione). Ma a dominarvi è piuttosto il senso di una vita “parallela” che per caso non è stata la sua. Quel giorno d’estate, ha raccontato Heidi Giuliani, suo figlio Carlo sotto i pantaloni aveva il costume da bagno: incerto fino all’ultimo se partecipare all’«evento» o andarsene al mare. Quel giorno d’estate Massimo, suo perfetto coetaneo, non se la sentì di rinunciare a un concerto che aspettava da anni. La sua stasi di allora, per un paradosso uguale e contrario a quello che ci immobilizza da vent’anni, è quanto lo muove ora.
Andrea Cortellessa

momento scelto
di quel film abbiamo estratto
falsificato
di una scena un fermo immagine
in cui la perdita del controllo
è più evidente.
Chi l’ha detto che dei morti non si ride.
Ogni umano quando passa ha negli occhi
la domanda
non morirmi dentro.
Dalla morte degli altri uscire mossi.
Momento scelto è la poesia che chiude Movimento e stasi. Il titolo traduce un brano dei New Order, il quarto del loro primo album.
Nel mio percorso di elaborazione della memoria di Genova 2001, la traccia musicale ha cominciato a lavorare sin da subito. Fu poco dopo Genova che cominciai ad ascoltare davvero i Joy Division. E notai in ritardo che i New Order erano i Joy Division meno uno. Nel 2007 uscì Control di Anton Corbijn, che raccontava la storia di quel gruppo fino alla morte di Ian Curtis. Il film finiva con un fumo acre dai tetti di Manchester – «non andartene via in silenzio», recitava Atmosphere. Mi colpì molto che i tre, gli altri tre, i sopravvissuti, nel film ridevano sempre. Sembravano, di fronte alla tragedia del protagonista, dei perfetti idioti. Era disturbante, ma forse Corbijn operò à la Kafka: li faceva ridere per dirne lo statuto di “aiutanti”, l’avere in mano una via di fuga, il loro potere rispetto al morto. I tre sapevano di poter sopravvivere a Curtis. Se l’album finale dei Joy Division si chiamò Still, chiamarono Movement il primo dei New Order.
All’epoca di Control lavoravo in una società di produzione. Ho cominciato a selezionare immagini di Genova 2001, io che non c’ero stato, in vista di alcuni documentari che non si fecero più. Per mesi ho visionato i volti di persone vicine alle vittime, per un film che non si fece più.
C’erano sin dall’inizio, dall’autunno 2001 – in edicola, nelle librerie, nei siti indipendenti –, tanti video su Genova, documentari scaricabili o comunque reperibili. Molti anni più tardi è venuto Diaz di Daniele Vicari, costruito con un’aderenza perturbante ai fatti e alle loro letture in tribunale. Nell’immediato, per il risalto che ebbe, funzionò quasi come prova-regina per l’ultimo grado di giudizio.
Quando vidi quel film, pensai al lavoro enorme che c’era stato prima. Non solo la ricostruzione, ma l’esclusione di alcuni aspetti. Di alcune storie. Le scelte di sceneggiatura, di regia di montaggio. I momenti scelti per rappresentare e rendere politica, comune, la tortura subita da novanta persone.
Quando si ricorda e si rappresenta il ricordo il “momento scelto” è quello che pesa.
Di questa poesia in chiusura di libro conta, nel primo verso, la parola estratto. Nel cinema si usa molto, nella promozione, la parola inglese per estratto – il termine still. Still è la fotografia presa sulla scena. Può essere un fotogramma inserito nel montaggio, oppure escluso, purché funzioni. La finalità dello still nel marketing cinematografico è restituire una cifra che faccia pensare a chi la guarda di avere un’idea di tutto il film. Lo still serve a prendere possesso di un film partendo da un suo tratto infinitesimale. Lo still può esibire la smorfia di un attore che si rilassa, che si tende mentre non è ripreso. “Ferma” un momento dentro la storia, ma anche appena fuori, quando non si recita.
Di Genova, forse perché non c’ero, mi interessa il fuori.
Il fine delle confuse operazioni di Genova fu il controllo. Prendere il controllo della piazza, del movimento, di una generazione. Fermare, gestire. Appropriarsi, fermare.
Anche nei ricordi o nei sogni funziona così – si operano selezioni, strategie di controllo.
Ogni estratto sposta il contesto e lo mette di lato. L’estratto è animato, è muto, e poi tutti ne parlano. Il fermo-immagine astrae da ogni contesto, isola e sputa fuori una nuova verità. Che sta lì ferma. La storia di Genova è anche quella di immagini false fermate come vere. Carlo Giuliani attaccato a un blindato, quando è a quattro metri, a fingere di proteggersi. Una foto d’agenzia che lo ritrae come aggressore e tale resta per vent’anni. E infinite serie di immagini di fuochi, di fumo nero. Tutte uguali, senza contesto.
La prima strofa di Momento scelto vuole concludere il percorso del libro sottolineando l’efficacia e l’ambiguità dell’immagine “fermata”. Fermare il morto in un’immagine sola lo estetizza lo falsifica. Gli fa perdere ogni moto che aveva.
La stasi dunque: una delle memorie più diffuse e ripetute di Genova 2001 è metaforica ed è la prigione. Per migliaia di persone, nei momenti più drammatici, stare a Genova coincise con l’essere fermi in un posto da cui non puoi fuggire, se non per caso (lo scampato che trova una via non ha merito alcuno). Era prigione Bolzaneto, dove furono rinchiusi i fermati. Fu prigione la Diaz, dove a cento persone fu inflitta la “lezione”. Soprattutto fu prigione la strada. Via Tolemaide, da subito narrata – perché lo fu – come un budello. Polizia davanti, la salita dietro. I lacrimogeni in aria, il muro a destra. Fu prigione il lungomare e Punta Vagno sabato 21 luglio. Polizia davanti, le siepi in mezzo, il mare al fianco. Ovunque, zona rossa o meno, a Genova la stasi prese un volto carcerario. Delle prigioni di Genova non abbiamo quasi immagini. Non abbiamo fotografie in cui riprendere il controllo della memoria.
Non avere il controllo sui ricordi è la condizione spaesante che i greci chiamavano stasis. Sedizione, rivolta – la stasis è incomponibile. Può preludere a, a volte è una guerra civile. Passata la stasis, ad Atene l’obiettivo politico comune era l’amnistia. Che era un’amnesia indotta: giurarsi di dimenticare i torti reciproci, i movimenti gli uni contro gli altri. Questo dopo Genova non è mai accaduto – siamo ancora dentro la stasis e ricordiamo le cose da fermi.
Il trittico di versi prima della fine ripete una domanda senza interrogazione. Inventa l’ultima parola di chi muore, di chi muore in una piazza, come domanda aperta. Che chiede a chi ricorda, a chi guarda, di non morire assieme, ma di interrogare i gesti di una lotta, i motivi.
