L’antica fiamma brucia ancora

Prosegue il nostro «Ritratto» a più voci di T.S. Eliot. È di turno la penultima traduttrice italiana di The Waste Land, Aimara Garlaschelli, la cui fatica è stata pubblicata da ETS, con introduzione di Anthony L. Johnson, nel 2018.

The Waste Land è acqua e fuoco, insieme. Un sigillo dualistico per un testo potentemente evocativo, labirintico, tellurico, che si può percorrere verso l’alto, nella sua simbologia religiosa, iniziatica, mitica o, verso il basso, seguendo le radici di una terra spaccata dalla siccità, tra resti pietrosi dell’umanità in rovina, nell’apocalittico paesaggio del giorno precedente il Giudizio.

L’intreccio di simbolismo, strutture mitiche, metalinguaggio e realtà annodati in squisita nevrosi, ha generato la lingua del poemetto, il quale, ancora oggi, non ha perduto il suo tratto sorprendente e sconvolgente. Se si accetta The Waste Land come pulsione evocativa, satura di reminiscenze, prima ancora che pura creazione, scrittura rammemorante e non immaginativa, si può comprendere il perché di infinite interpretazioni, letture, commenti nei cento anni trascorsi dalla prima edizione.  Come le fiamme ardono ininterrottamente nella cascata di Chestnut Ridge, anche The Waste Land può essere spiegata senza intaccare la leggenda. Il fuoco tra le acque americane è dovuto al fatto che la fiamma, alta trenta centimetri, si trova sopra una sacca di metano, a una profondità di quattrocento metri dalle rocce percorse dall’acqua. In The Waste Land, la combustione avviene ai versi 307-311 ed è alimentata dal cadavere dell’autore, seppellito nella propria opera. Ma questa scoperta deve essere rivelata con esperto uso di pale, picconi e picconcini, zappe, carriole, secchi, palette, scopette, spazzole e cazzuole oppure, con le unghie (vv. 70-76):

That corpse you planted last year in your garden,
Has it begun to sprout? Will it bloom this year?
Or has the sudden frost disturbed its bed?
O keep the Dog far hence, that’s friend to men,
Or with his nails he’ll dig it up again!
You! hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!
Quel corpo che piantasti l’altr’anno nel tuo campo
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
O il gelo d’un tratto ha turbato il suo letto?
Oh tieni il cane lontano, egli è amico dell’uomo,
O di nuovo, con le unghie lo scoprirà!
Tu! hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!

Scavare è una scelta, e la preferenza di Eliot per il lettore ipocrita, il simile, il fratello rispetto al primo tipo, l’archeologo, è nota ed emerge dagli interventi e dai commenti in risposta alle interpretazioni che il poemetto provocò fin dalla sua pubblicazione, fino a assumere i contorni di una vera e propria ribellione dell’autore contro i critici letterari. La dichiarazione decisiva appare quella riferita proprio alle note di The Waste Land, in The Frontiers of Criticism, durante una conferenza alla University of Minnesota nel 1956, quando Eliot dichiarò:

Devo ammettere che, in una circostanza assai conosciuta, non fui senza colpa, poiché indussi i critici in tentazione. Le glosse a The Waste Land! Inizialmente, volevo solo annotare i riferimenti delle citazioni, per spuntare le armi ai miei primi critici, che mi avevano accusato di plagio. Poi, quando si arrivò alla stampa di The Waste Land in forma di piccolo libro – poiché il poema pubblicato su «The Dial» e «Criterion» non aveva annotazioni – il testo risultò eccessivamente breve, così mi misi al lavoro per guadagnare un maggior numero di pagine stampate espandendo le note, con il risultato che queste ultime finirono con il diventare un enorme sfoggio di borse di studio, piene di stupidaggini. A volte, ho pensato di liberarmi delle note, tuttavia queste non possono più essere scollate dal testo, poiché hanno avuto quasi più popolarità del poema stesso. Chiunque comprasse il mio libro e scoprisse che le note al poema non sono state incluse, vorrebbe indietro i suoi soldi….

L’oggetto letterario deve essere indenne da qualsiasi presupposto di esteriorità e regolato da leggi interne che appartengono alla sola testualità, cioè al “sapere del testo”, in quanto motivazione della parola, prima o al di là del sapere del Soggetto che lo ha scritto. Tuttavia, a volte, l’esposizione protratta con la materia incandescente dell’opera può determinare una sorta di trasporto in chi commenta il testo, o lo traduce.Un esempio, nel mio caso, si trova nei versi 307-311, prima citati:

 To Carthage then I came
  
 Burning           burning           burning           burning
 O  Lord Thou pluckiest me out
 O Lord Thou pluckiest
  
 burning
 A Cartagine quindi venni
  
 Bruciando       bruciando        bruciando       bruciando
 O Signore tu mi chiami a Te
 O Signore Tu chiami
  
 e io brucio 

Ho inteso il verbo frasale pluck… out – essere strappati fuori da sé – come «essere chiamati» tornando all’espressione latina originaria, ēvòco: più precisamente: ‘chiamare fuori’, ‘fare uscire’, con riferimento all’uscita dal peccato, e di utilizzare perciò lo stesso verbo che si ritrova nelle Confessioni di Agostino, testo citato in nota dallo stesso Eliot – proprio in riferimento al v.  307, «A Cartagine quindi venni».

A Irene Santori, recensendo la traduzione (su «Poesia», 348, maggio 2019), non è sfuggito il tizzone testuale fuoriuscito e scrive: «Non “ardere”, come traducono Praz e Sanesi, ma il più cruento “bruciando” vuole Garlaschelli, che nell’ultimo rintocco di quel “burning” prende fuoco e traduce “e io brucio”. Va bene. Va bene così, anche se la parola reiterata gode dello statuto speciale di formula rituale cui si affida l’intenzione dell’autore. Ma lei brucia. E noi con lei».

Ciò che segue non è un’interpretazione, bensì la mia personale introduzione alla lettura di The Waste Land.

 Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
 tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
 è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
 mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
 è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
 una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
 dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
 non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
 ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
 e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
 ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
  
 Amelia Rosselli, Variazioni Belliche, 1964 

Un’apparente assenza di strutture metriche e ritmiche riconoscibili; per il lettore un’emozione di sorpresa e uno shock per il dettato vaticinante, sottolineato dalla potente azione dell’anafora; in sottotraccia risuona il Sonetto 9, v. 5: «The world will be thy widow» («Il mondo sarà la tua vedova») di Shakespeare.

 April is the cruellest month, breeding
 Lilacs out of the dead land, mixing
 Memory and desire, stirring
 Dull roots with spring rain.
 Winter kept us warm, covering
 Earth in forgetful snow, feeding
 A little life with dried tubers.
 Aprile è il mese più crudele:
 Genera lillà dalla terra sterile,
 Confonde memoria e desiderio,
 Risveglia radici torpide
 Con pioggia primaverile.
 Ci tenne caldi il freddo inverno:
 Velato il suolo in oblio di neve,
 Nutriva un filo di vita   
 Con tuberi secchi.

Un’apparente assenza di strutture metriche e ritmiche riconoscibili; per il lettore un’emozione di sorpresa e uno shock per il dettato vaticinante, sottolineato dalla potente azione del present continuous a fine verso; sottotraccia risuona il Tonio Kröger di Thomas Mann: «La primavera è la più atroce delle stagioni […] fa diventare nervoso anche me, anch’io sono sconvolto dalla dolce trivialità dei ricordi e delle sensazioni che essa ridesta».

The Waste Land inizia con una dichiarazione: l’impossibilità, per l’io poetico, di specchiarsi e riconoscersi nella realtà del mondo. Dove c’è rinascita, c’è deserto emozionale (Eliot), dove c’è vita, vedovanza (Rosselli).

Ho scelto di abbandonarmi a The Waste Land, bordeggiando (vv. 279-290):

 Elizabeth and Leicester 
 Beating oars 
 The stern was formed 
 A gilded shell 
 Red and gold 
 The brisk swell 
 Rippled both shores 
 Southwest wind 
 Carried down stream 
 The peal of bells 
 White towers 
 Weialala leia 
 Elizabeth e Leicester 
 Battere di remi 
 Poppa creata 
 In guscio dorato 
 Rosso e oro 
 La rapida ondata 
 Batte le due rotte 
 Vento di sud ovest 
 Giù per la corrente 
 Note di campane 
 Torri bianche. 
 Weialala leia.

E, ora, «il naufragar m’è dolce in questo mare», tra reminiscenze, relitti di memoria, nella vastità dell’opera dove, a volte, si può intravedere il Soggetto incagliatosi sul fondale, perché in un’opera-capolavoro è sempre l’autore che muore, e muore ogni volta nel testo che si scrive solo se il rito della morte dell’io (del Soggetto) è compiuto. L’«infinitamente morto» del personale dell’autore crea valori «impersonali» che il lettore è chiamato a riconoscere e assumere su di sé, accogliendo il testo. Versi 25-30:

                                                                    Only
 There is shadow under this red rock,
 (Come in under the shadow of this red rock),
 And I will show you something different from either
 Your shadow at morning striding behind you
 Or your shadow at evening rising to meet you;
 I will show you fear in a handful of dust.
   
                                                                   Solo
 Ombra sotto questa roccia rossa,
 (Entra nell’ombra di questa roccia rossa), 
 E io ti mostrerò qualcosa di diverso
 Dalla tua ombra che t’incalza la mattina 
 O dalla tua ombra che ti sorge incontro la sera: 
 Ti mostrerò il terrore, dentro un pugno di polvere.  

Per riconoscere l’ombra sul fondo si deve rileggere The Death of Saint Narcissus, poesia del 1915, contenuta nei fogli miscellanei del manoscritto e che doveva essere inclusa, inizialmente, nel poemetto.

 Come under the shadow of this gray rock –
 Come in under the shadow of this gray rock,
 And I will show you something different from either
 Your shadow sprawling over the sand at daybreak, or
 Your shadow leaping behind the fire against the red rock:
 I will show you his bloody cloth and limbs
 And the gray shadow on his lips. 
 Entra all’ombra di questa grigia roccia –
 Entra nell’ombra di questa grigia roccia,
 E io ti mostrerò qualcosa di diverso
 Dalla tua ombra che si espande all’alba sulla sabbia
 O dalla tua ombra che balza sulla rossa roccia oltre il fuoco
 Ti mostrerò le sue vesti insanguinate e le sue membra
 E l’ombra grigia sulle sue labbra. 

Il tema del martirio e del sacrificio, che culminerà con la passione di Cristo in apertura della quinta parte, e la trasmutazione dei valori personali dell’autore nell’impersonalità del simbolo sono compiute. Compare, nella poesia originaria, un cadavere insanguinato. Si tratta di una prima rappresentazione del corpo della morte. Il San Narciso di Eliot si sottrae alla sensualità dell’esistenza, per rifugiarsi nella vita spirituale e medicare le ferite inflitte alla propria vita interiore, divenendo «un danzatore davanti a Dio» (v. 17).

Dal sacrificio del sé vengono alimentate le fiamme di «un’emozione poetica».  Come intendere questa espressione lo spiega l’autore ed è una precisazione che vale la pena riportare poiché, troppo spesso, soprattutto in ambito scolastico, The Waste Land viene proposto come un poemetto incomprensibile, difficilissimo per l’enormità di rimandi testuali e note necessarie ad una sua presunta comprensione. La citazione è tratta dal saggio Dante, 1929:

L’esperienza della poesia è il risultato di un momento e di una vita intera. È molto simile all’esperienza più intensa mai avuta dalla conoscenza di altri esseri umani. C’è un primo momento iniziale che è unico, di shock e sorpresa, perfino terrore (Ego Dominus tuus); un momento che non può essere dimenticato, ma che non può essere rievocato nella sua completezza, e che sarebbe destituito di significato se non sopravvivesse in un alveo più ampio d’esperienza; e di fatto sopravvive entro un’emozione di più serena profondità.

The Waste Land inizia con il sacrificio di San Narciso e culmina con la passione di Cristo. Tra le due morti si compie un viaggio di espiazione attraverso la terra desolata, l’attraversamento del deserto umano, un cammino puntellato da miraggi, visioni, allucinazioni, vale a dire un percorso per immagini. Ancora il Dante:

Dobbiamo considerare quel tipo di intelletto che, attraverso la natura e l’esperienza, tende ad esprimere se stesso attraverso allegorie: e, per un bravo poeta, allegoria significa creare immagini visive nitide. Le immagini visive nitide sono tanto più intense quanto dotate di un significato. Non importa quale, non abbiamo bisogno di sapere quale sia quel significato, ma nella nostra conoscenza dell’immagine dobbiamo essere consapevoli che anche il significato sia parte dell’immagine.

Dall’ampio orizzonte allegorico, come relitti della coscienza, emergono resti, connessioni mnemoniche che si impongono al lettore, lapsus della reticenza, forse. L’esperienza del dolore. I versi 35-41:

‘You gave me hyacinths first a year ago;
 They called me the hyacinth girl’.
 – Yet when we came back, late, from the hyacinth garden,
 Your arms full, and your hair wet, I could not
 Speak, and my eyes failed, I was neither
 Living nor dead, and I knew nothing,
 Looking into the heart of light, the silence.
«Tu mi donasti dei giacinti per la prima volta un anno fa: 
 Mi chiamavano la fanciulla dei giacinti». 
 – Ma quando ritornammo, era tardi, dal giardino dei giacinti,
 Le tue braccia colme, e i tuoi capelli fradici, io non potei 
 Parlare e i miei occhi si velarono, non ero
 Né vivo, né morto, non sapevo nulla, 
 Guardavo nel cuore della luce il silenzio.

Ci fu un tempo in cui il paese desolato del Re Pescatore era florido e fertile, ci fu una primavera dell’anima che fu rovinata da un tradimento; da allora si attende l’eroe, il cavaliere mandato dalla Grazia per risanare le terre e guarire il re con la sua purezza morale, un bell’esempio di sacrificio di sé, di una vita condotta nell’Ideale. Proprio come Lancillotto, l’io poetico ha avuto un’opportunità, ma ha fallito la prova: «… io non potei / Parlare e i miei occhi si velarono,» ed è condannato a una morte in vita, come il vecchio marinaio della ballata di Coleridge, costretto ad espiare raccontando la sua dannazione. In Dante, Eliot riporta Purgatorio, XXX, vv. 34-48:

 E lo spirito mio, che già cotanto
 tempo era stato ch’a la sua presenza
 non era di stupor, tremando, affranto,
  
 sanza de li occhi aver più conoscenza,
 per occulta virtù che da lei mosse,
 d’antico amor sentì la gran potenza. 
  
 Tosto che ne la vista mi percosse
 l’alta virtù che già m’avea trafitto
 prima ch’io fuor di püerizia fosse,
  
 volsimi a la sinistra col respitto
 col quale il fantolin corre a la mamma
 quando ha paura o quand’elli è afflitto,
  
 per dicere a Virgilio: «Men che dramma
 di sangue m’è rimaso che non tremi:
 conosco i segni de l’antica fiamma». 

E così li commenta:

Nel dialogo che segue vediamo il conflitto tra antiche e nuove passioni, lo sforzo e il trionfo di una nuova rinuncia, più grave di quella che avviene nel momento della morte, in quanto è rinuncia a sentimenti che continuano oltre la tomba.

Dopo la rinuncia a sentimenti che continuano oltre la tomba, la vita è morte. Londra appare come un girone dantesco, ma non uno qualsiasi, bensì quello riservato agli ignavi, coloro che per mancanza di forza d’animo rifiutarono un’esistenza in cui gli ideali devono valere più della vita stessa. È una nevrosi moderna l’abulia: una mancanza, o insufficienza, di volontà che impedisce di prendere decisioni.

Di seguito Dante, Inferno, III, vv. 43-60 e The Waste Land,vv. 60-69:

 E io: «Maestro, che è tanto greve 
 a lor, che lamentar li fa sì forte?». 
 Rispuose: «Dicerolti molto breve.
  
 Questi non hanno speranza di morte 
 e la lor cieca vita è tanto bassa, 
 che’ nvidiosi son d’ogne altra sorte. 
  
 Fama di loro il mondo esser non lassa; 
 misericordia e giustizia li sdegna: 
 non ragioniam di lor, ma guarda e passa». 
  
 E io, che riguardai, vidi una ’nsegna 
 che girando correva tanto ratta, 
 che d’ogne posa mi parea indegna;        
  
 e dietro le venìa sì lunga tratta 
 di gente, ch’i’ non averei creduto 
 che morte tanta n’avesse disfatta.     
  
 Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, 
 vidi e conobbi l’ombra di colui 
 che fece per viltade il gran rifiuto. 
 Unreal City,
 Under the brown fog of a winter dawn,
 A crowd flowed over London Bridge, so many,
 I had not thought death had undone so many.
 Sighs, short and infrequent, were exhaled,
 And each man fixed his eyes before his feet.
 Flowed up the hill and down King William Street,
 To where Saint Mary Woolnoth kept the hours
 With a dead sound on the final stroke of nine.
 There I saw one I knew, and stopped him, crying: ‘Stetson! […]’
  
 Città irreale,
 Nella nebbia bruna di un’alba invernale,
 Fluiva una folla sul London Bridge, sì lunga
 Ch’i’ non averei creduto, che morte tanta n’avesse disfatta. 
 Sospiri, brevi e radi, erano esalati,
 E ogni uomo fissava gli occhi avanti a sé.                
 Scorrevano su per il colle e giù in King William Street, 
 Fin dove Saint Mary Woolnoth conserva l’ora
 Con un suono a morto sul tocco finale della nona. 
 Là ne riconobbi uno, e lo fermai gridando: «Stetson![…]»

Nelle note al poemetto Eliot indica solo il calco al v. 62, «I had not thought death had undone so many», ma è rileggendo l’intero passo di Dante che si può comprendere l’ampiezza del riferimento. I commentatori contemporanei interpretarono Stetson come un’allusione a Pound (Stetson è la marca del famoso cappello da cowboy), soprannominato nei circoli Buffalo Bill. Tuttavia, Eliot dichiarò che con questo nome non aveva voluto riferirsi a nessuno in particolare, ma piuttosto a un impiegato di banca con bombetta, giacca nera e pantaloni a righe (cfr. L. Rainey, The (Annotated) Waste Land with Eliots Contemporary Prose, Yale University Press 2006). Seguendo “alla lettera” le indicazioni di Eliot, Stetson non è nessuno, se non il poeta stesso, che sembra giocare con il proprio nome, T. S., la propria origine americana e il suo status di impiegato della City.  Il collegamento tra il «gran rifiuto» del giardino dei giacinti e il senso di colpa per aver mancato la propria esistenza è compiuto, e così è da intendersi il prelievo dall’hypocrite lecteur di Baudelaire con il quale la prima parte si chiude.

La seconda parte, A game of Chess / Una partita a scacchi, aveva un sottotitolo In the Cage / Nella gabbia e conteneva un riferimento all’ampolla della Sibilla, ora in epigrafe. La sorte di un condannato a una “morte in vita”, imprigionato nel proprio corpo ridotto a Dull roots / radici torpide, è di ridursi a decrepito veggente: «Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi / in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent:  / Σίβυλλα τί θέλεις; respondebat illa: ἀποθανεῖν θέλω» («Io stesso vidi, con questi occhi, a Cuma, la Sibilla penzolare in un’ampolla e poiché attorno a lei dei fanciulli le chiedevano: ‘Sibilla, che cosa vuoi?’ lei rispondeva: ‘Voglio morire’»).  Dopo il sacrificio di sé per «viltade» si è puniti, come moderni Tiresias, costretti ad assistere alla quotidiana violenza delle relazioni umane, qui soprattutto intese come relazioni sentimentali (vv. 99-103):

The change of Philomel, by the barbarous king
 So rudely forced; yet there the nightingale
 Filled all the desert with inviolable voice
 And still she cried, and still the world pursues,
 ‘Jug Jug’  to dirty ears.
 Il mutamento di Filomena, dal barbarico re
 Presa con la forza; l’usignolo proprio lì    
 Colmava quel deserto con voce inviolabile
 E lei ancora grida, e ancora così è il mondo, 
 «Ciac Ciac» a orecchie lerce.

(vv. 142-146)

 Now Albert’s coming back, make yourself a bit smart.
 He’ll want to know what you done with that money he gave you
 To get yourself some teeth. He did, I was there.
 You have them all out, Lil, and get a nice set,
 He said, I swear, I can’t bear to look at you.
 Ora torna Albert, e datti una bella sistemata. 
 Vorrà sapere cosa ne hai fatto dei suoi soldi 
 Cioè, erano per i denti. Erano per te, io c’ero. 
 Fatteli cavare tutti, Lil, fatti una bella dentiera 
 Ti dico, ti ha detto, così non ti posso vedere 

Poi è il fuoco, le fiamme infernali, tutto brucia. L’incendio divampato nel boudoir, dove tra candle-flames (fiamme filiformi di candele), nel firelight (fuoco) si consumavano le assi infitte di rame di un relitto e persino i capelli della dama spread out in fiery points (fiammeggiavano in punte acuminate), nella terza parte si propaga in un enorme rogo. Le fiamme possono, come l’acqua, essere un elemento di purificazione che precede un secondo sacrificio, diverso, altruista, generoso, non determinato dalla paura. Phlebas. Ma, prima, la terza parte.

Il titolo, The Fire Sermon / Il sermone del fuoco, si riferisce a un sermone del Budda, tradotto e curato da H. C. Warren (1854-1899) nell’opera Buddhism in Translations; ne ripropongo, nella traduzione di Enzo Alfano, l’inizio e la conclusione:

Così ho sentito. Una volta l’Illuminato soggiornava presso Gaya, sul colle Gayasisa, insieme a mille monaci. Ivi rivolgendosi ai monaci disse: «Monaci, tutto brucia! E cosa brucia, o monaci?  La vista brucia, o monaci, le forme ed i colori bruciano, la coscienza visiva brucia, il contatto visivo brucia, e qualsiasi sensazione sorga in dipendenza dal contatto dell’occhio con i suoi oggetti – sia essa percepita come piacevole, spiacevole o neutra – anche questa brucia. Mediante cosa brucia? Brucia mediante il fuoco dell’attaccamento, il fuoco dell’avversione, il fuoco della confusione. Brucia, vi dico, a causa della nascita, della vecchiaia e della morte, della pena, del lamento, del disagio, dell’angoscia e dello scoramento». […] Così insegnò il Beato e i monaci, rallegrati, furono felici di ascoltare le sue parole. Mentre tale spiegazione veniva impartita, le menti dei mille furono liberate dagli influssi impuri grazie al non attaccamento.

vv. 233-246

(And I Tiresias have foresuffered all
 Enacted on this same divan or bed;
 I who have sat by Thebes below the wall
 And walked among the lowest of the dead.)
 (E io Tiresia pre-soffersi tutto
 Quanto fu recitato, su questo stesso sofà-letto;
 Io che sedetti sotto le mura di Tebe
 E camminai tra i più infimi dei morti.)

Siamo alla quarta parte: Death by Water / Morte per acqua;è un’elegia. È acqua in opposizione al fuoco, un’immagine di grande intensità visiva, un’allegoria, l’eco di altri naufragi, Coleridge, Shakespeare. È la possibilità di una purificazione dal peccato dell’ignavia, dell’abulia; il sacrificio di una morte per acqua può essere l’inizio di una nuova vita. Ma chi è Phlebas il Fenicio, il cadavere che rose and fell / affiorava e affondava e dove è naufragato?

 Phlebas the Phoenician, a fortnight dead,
 Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell
 And the profit and loss.
 A current under sea
 Picked his bones in whispers. As he rose and fell
 He passed the stages of his age and youth
 Entering the whirlpool.
 Gentile or Jew
 O you who turn the wheel and look to windward,
 Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you.
 Phlebas il Fenicio, morto da due settimane,
 Dimenticò il grido dei gabbiani e l’onda lunga del mare
 Il profitto e la perdita.
 Una corrente sottomarina
 Gorgogliando spogliò le sue ossa. Mentre affiorava e affondava 
 Ripassò tutte le età della vita
 Entrando nel vortice.
 Gentile o Giudeo
 O tu che tieni il timone e guardi dove soffia il vento,
 Pensa a Phlebas, che un tempo fu alto e bello come te.

Phlebas il Fenicio compare negli ultimi versi di una poesia composta da Eliot in francese, Dans le restaurant, nel 1918: «Phlebas, le Phénicien, pendant quinze jours noyé, / Oubliait les cris des mouettes et la houle de Cornouaille, / Et les profits et les pertes, et la cargaison d’étain: / Un courant de sous-mer l’emporta très loin, / Le repassant aux étapes de sa vie antérieure. / Figurez-vous donc, c’était un sort pénible; / Cependant, ce fut jadis un bel homme, de haute taille» («Phlebas, il Fenicio, annegato da due settimane, / dimenticò il verso dei gabbiani e il crescere dei mari di Cornovaglia, / e il profitto e la perdita, e il carico di latta: / una corrente sotto al mare lo portò lontano / ripassò le tappe della sua vita intera. / Immaginate dunque – una fine terribile per un uomo; / che un tempo fu alto e bello»). In The Waste Land è stato omesso il luogo del naufragio. La connessione alla Cornovaglia poneva Phlebas in relazione all’intero ciclo arturiano, non solo alla Ricerca del Graal, oltre a contenere un riferimento al Tristano e Isotta di Wagner.

Senza l’indicazione della Cornovaglia il naufragio rimane sospeso e il lettore può ricordarsi del riferimento, v. 70, alla battaglia navale di Milazzo (260 a. C., prima guerra punica) e collegarla alla disfatta di Gallipoli, dove il 2 maggio 1915 morì Jean Verdenal, ufficiale medico francese, una figura centrale nella vicenda personale ma anche poetica di Eliot, che condivise con lui gli anni parigini, dal 1910 al 1911. Una sua proiezione nella figura di Phlebas il Fenicio è oggi accettata dalla maggioranza degli studiosi e non è più considerato un azzardo associare il tema elegiaco al ricordo – trasfigurato poeticamente – di Verdenal. Qui mi interessa sottolineare il tema del martirio, di un sacrificio, la morte di un eroe. Nel dispaccio del 30 aprile 1915, due soli giorni prima della scomparsa di Verdenal, si legge: «a malapena guarito dalla pleurite, non esitò a passare la maggior parte della notte immerso nell’acqua fino alla vita, per aiutare ad evacuare i feriti, dando così un bell’esempio di sacrificio di sé» (The Letters of T.S. Eliot, a cura di V. Eliot, vol. I, 1998).

L’appellativo di Phlebas, «il Fenicio», conduce il lettore, passando per Gallipoli, fino alla Palestina, dove, all’inizio della quinta e ultima parte, viene rappresentata la Passione di Cristo, l’orrore della crocifissione (vv. 322-330):

 After the torchlight red on sweaty faces
 After the frosty silence in the gardens
 After the agony in stony places
 The shouting and the crying
 Prison and palace and reverberation
 Of thunder of spring over distant mountains
 He who was living is now dead
 We who were living are now dying
 With a little patience
 Dopo la luce rossa delle torce sui volti sudati 
 Dopo il gelido silenzio nell’Orto
 Dopo l’agonia nei luoghi rocciosi
 Le grida e i pianti 
 La prigione il palazzo e i rimbombi
 Di tuoni di primavera su montagne distanti 
 Lui che era vivo ora è morto
 Noi che eravamo vivi ora moriamo 
 Con un po’ di pazienza 

Come la triplice anafora di apertura del verse paragraph, dopo tre morti, San Narciso, Phlebas e Cristo, un cadavere giace sul fondo, al termine di una catastrofe personale, collettiva e universale tra i resti e le rovine delle grandi città dell’Occidente, le cui anime ci sono apparse nel dantesco inferno eliotiano: Marie (Vienna), Antonio e Cleopatra (Alessandria), Elizabeth e Leicester (Londra), Cristo (Gerusalemme), Tiresias (Tebe/Atene).

Il processo di purificazione, allegoricamente espresso con il percorso personale lungo la terra desolata è diventato collettivo con il sacrificio di Cristo. Nella quinta parte, Quello che disse il Tuono / What the Thunder said, è racchiuso l’ultimo dei tre insegnamenti – incontrati nell’attraversamento del dolore (vv. 417-422):

 Da
 Damyata: The boat responded
 Gaily, to the hand expert with sail and oar
 The sea was calm, your heart would have responded
 Gaily, when invited, beating obedient
 To controlling hands
 Da
 Damyata: la barca rispose
 Con gioia, alla mano esperta di vela e remo
 Il mare era fermo, il tuo cuore avrebbe risposto
 Con gioia, al richiamo, seguendo docilmente
 Mani capaci di condurre

L’oceano ora è calmo. Dopo la tempesta che ha causato il naufragio di Phlebas, l’orizzonte si distende: bava di vento, onde lunghe, solo acqua e il fuoco delle stelle. È quasi l’alba della conversione all’anglicanesimo dell’autore. L’elegia si risolve in preghiera (Paradiso, III, v. 85-87):

 E ’n la sua volontade è nostra pace:
 ell’è quel mare al qual tutto si move
 ciò ch’ella crïa o che natura face». 
          
  
 Shantih   shantih  shantih 

In copertina: Eternal Flame Fall, Chestnut Ridge Park, NY

Aimara Garlaschelli

ha pubblicato la raccolta “Figure di silenzio” (LietoColle 2016, nota di Maurizio Cucchi), e la drammaturgia in versi “Il rito delle ore” (ETS 2019, postfazione di Stefano Agosti), e nel 2022 esordirà nella “Bianca” Einaudi con “Nel nome della madre”. Sul versante critico, ha tradotto e curato “La terra desolata” di T. S. Eliot (ETS 2018) e il saggio “Ezra Pound il ‘sage homme’ di The Waste Land” («Poesia», ottobre 2017). Su «Estroverso» è apparsa di recente l’intervista «Desolata o devastata?»

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