De rerum natura. Due mostre parigine

Nel video Deathwish  (2021) presentato alla mostra Carte Blanche à Anne Imhof, Natures Mortes al Palais de Tokyo (fino al 24 ottobre), l’artista e musicista Eliza Douglas compie movimenti di danza su un palcoscenico totalmente buio, dietro una cortina di gigli gialli. Quei movimenti appaiono come il gesto “ultimo” di un corpo – androgino e dalla carnagione bianchissima – pronto a essere risucchiato dalle tenebre, ma che resta ancorato allo splendore di quei fiori in primo piano, in piena luce. Il pannello nella sala, però, ci spiega: «che si tratti di quadri vivi o di nature morte la vita traspare in tutta la storia della pittura. In inglese natura morta si traduce infatti still life».

Eliza Douglas durante le prove per Anne Imhof, Natures Mortes, 2021; ph. Nadine Fraczkowski; courtesy of the artist and Palais de Tokyo, Paris

Al di là di questo chiarimento schematico, teso a ribadire un principio molto caro alla critica di questi anni[1], il titolo Natures mortes sembra comunque esser stato scelto in relazione al memento mori che ciascuna delle opere – siano queste raffiguranti esseri umani viventi, animali o oggetti ‘immobili’ – racchiude. Il tutto si dipana nel costante richiamo all’urgenza di un presente cupo, già “celebrato” da Imhof, seppure in forma solo performativa, con il lavoro che vinse il Leone d’Oro alla Biennale del 2017, Faust.

Anne Imhof, Nature I, 2021; A destra: Eliza Douglas, Untitled, 2020; ph. Andrea Rossetti

Quando giungiamo a Deathwish abbiamo già incontrato il corpo di Eliza in altri video o in dipinti e disegni di Anne Imhof, ma insieme alle sue opere ci sono anche quadri, sculture, disegni, video e fotografie di artisti diversi, disseminati negli spazi del Palais de Tokyo in una scenografia e percorsi anche musicali creati da Douglas. La mostra fa infatti parte del ciclo Carte blanche à…, che vede l’intero spazio del Palais affidato ad un artista nelle vesti anche di curatore, secondo una formula ormai sperimentata in diverse istituzioni, per l’Italia ad esempio la Fondazione Prada. Sulla struttura di quell’edificio, riportato già nel 2002, sotto la direzione di Nicolas Bourriaud e Jérôme Sans, al suo scheletro essenziale dagli architetti Anne Lacaton et Jean-Philippe Vassal (intervenuti nuovamente nel 2012), Imhof opera ulteriori dissezioni, come si fa sulle membra di uomini o animali nei disegni anatomici, tra cui quelli di Théodore Géricault esposti (avendo lei una passione per la Zattera della medusa).  

Alvin Baltrop, The Piers (Man in Warehouse), (s.d. 1975-1986])

Imhof accentua di quegli spazi il carattere di rovina piranesiana, ma anche un po’ di passages parigini (quelli di Baudelaire, cari a Benjamin) o dei Piers newyorchesi (gli scatti di Alvin Baltrop), con tratti funerei, ossessivi (il secchio di metallo calciato dal clochard ad Harlem di David Hammons in Phat free), grotteschi (i pupazzi di Mike Kelley, il frigorifero in cui tutto è marcio di Adrían Villar Rojas) ma anche con squarci poetici (i rami di Wolfgang Tillmans o Achille e Patroclo di Cy Twombly) e di illuminazioni improvvise, quasi mistiche.

Cy Twombly, Achilles Mourning The Death Of Patroclus, 1962 © Cy Twombly Foundation; photo © Centre Pompidou

Al piano inferiore, al centro di un labirinto buio, è infatti uno spazio inondato di luce nel quale sono calati i dipinti del ciclo Axial age di Sigmar Polke. Grandi quadri dalla superficie translucida, densi di citazioni frammentarie dal passato, di rimandi al simbolismo alchemico, che spingono lo spettatore verso una sorta di stato ipnotico e possono anche essere visti a rovescio, cioè stando al di fuori di quello spazio, mentre attraversiamo i passaggi oscuri, intervallati dai pannelli di vetro dipinti da Imhof [2]. Per inciso, il ciclo fa parte della collezione Pinault, che proprio ora ha inaugurato una sede parigina nell’edificio della Bourse de commerce, ristrutturato da Tadao Ando, dove è allestita anche una mostra dedicata a David Hammons con lo stesso video del clochard scelto al Tokyo.

Sigmar Polke, Axial Age, 2005-2007

Anche la mostra di Imhof, dunque, pur nel suo aspetto trasgressivo, è fortemente ‘museale’, parte di un sistema di mercato ben definito. E questo senza nulla togliere all’interesse per il suo lavoro, ma a farci considerare che in fondo, in tanto dibattito su uguaglianza e parità di generi e diritti civili, l’unico campo in cui davvero, visivamente, la parità esiste (ma la verità, vera o presunta, sappiamo risiedere ormai nelle immagini) è il mondo della pubblicità, dove uomini, donne, vecchi, giovani e persone di etnie diverse convivono sorridenti in famiglie miste, di diverso orientamento sessuale, e benestanti. Tale inclusione non è quindi il riflesso di una società dove la povertà non permette l’inclusione, ma di un’uguaglianza in qualità di ‘consumatori’. Siamo in fin dei conti ancora in una situazione ottocentesca che assorbiva tutte le disarmonie in un «prescritto circolo»[3].

Anne Imhof, Natures Mortes, 2021, exhibition view, Palais de Tokyo, Paris; ph. Andrea Rossetti

In un’intervista, Vittoria Matarrese, co-curatrice della mostra assieme a Emma Lavigne, ribadisce la volontà di vita che, pur nella presenza della morte, la mostra vuole trasmettere, perché anche nelle installazioni più funeree c’è sempre un contraltare visivo o fisico di ‘riscatto’. Una tensione binaria che comprende e confonde la distinzione tra morte e vita, notte e giorno, maschile e femminile come anche nel video (già presentato al Castello di Rivoli), girato da Imhof nel cuore della vecchia centrale elettrica londinese trasformata poi in Tate Modern. Eppure quella deflagrante manifestazione di contemporaneità che sfida a ogni passo il visitatore alternando sciatteria, choc e bellezza, reca molte tracce del secolo diciannovesimo, non foss’altro che per certe iconografie, ad esempio quella del video con Elisa, munita di frusta, che colpisce il mare. Non sarà allora del tutto una coincidenza scoprire che la stessa Eliza ha posato per una serie di scatti di Olivier Haim su «Purple Magazine» nel 2020, dal titolo Huysmans Syndrom… Tout se tient.

Arnold Böcklin, Lotta di centauri, 1873

E visto che di Ottocento si parla, sempre di ‘natura’ morta, viva, impagliata, dipinta, scolpita, filmata, si tratta nella mostra al Museo d’Orsay Les origines du monde, che ha come sottotitolo L’invention de la nature au XIX siècle (fino al 18 luglio), curata da Laura Bossi, neurologa e storica della scienza: una mostra diversissima, certo, da quella del Palais de Tokyo, date le istituzioni, gli intenti e il pubblico che le visita, ma che pure ha in comune con Natures mortes l’alternarsi di luci e tenebre.

La luce sta nella scoperta della ‘natura’ e della sua varietà fin dal Cinquecento, dopo le prime grandi spedizioni oltreoceano, nella ricerca di tradurre nei microcosmi delle wunderkammern la ricchezza dell’universo, e nello sforzo di classificare tutto, con l’Arca di Noé, nel dipinto di Filippo Palizzi, insuperabile esempio di ‘collezione’. E soprattutto – essendo la mostra incentrata proprio sul XIX secolo – la luce sta nella ‘fede’ per la scienza instillata dal Positivismo, con le teorie sull’evoluzione della specie, Charles Darwin e i suoi adepti, pur nell’imbarazzo che la scoperta di discendere dalle scimmie comporta. In arte, le scimmie sono infatti rese più umane, gentili e amiche, con mazzi di violette tra le zampe o con l’aria malinconica come la scimmietta ritratta da Gabriel von Max (che forse ha attratto la mia simpatia perché si chiama Laura).

Gabriel von Max, Gruss, ca.1901-1915

Lo studio dei fossili porta al fortissimo interesse per la Preistoria, che diviene – per citare il titolo della mostra al Centre Pompidou del 2019 – Une énigme moderne. E l’uomo primitivo: come rappresentarlo, quando la mente e la mano sono solo esercitate a creare forme tendenti alla perfezione secondo un’estetica occidentale? Sono allora gli uomini che corrono nella neve inseguiti dal mammouth dipinti da Paul Jamin, oppure la famiglia preistorica con la donna dalla carnagione candida, i seni fiorenti e il figlioletto in grembo, uscita da un quadro ‘pompier’, accanto agli uomini rudi e dalle carnagioni bruciate dal sole nel quadro di René Rousseau-Decelle.

Le tenebre stanno invece nei risvolti di tutto questo: la scoperta di culture ritenute primitive e quindi sfruttabili, l’elaborazione di un mito di razza pura e superiore che porterà alle persecuzioni naziste, la paura dell’altro, del diverso, che tutt’oggi più che mai, ci governa, senza più la scusa, almeno dello ‘sconosciuto’. E soprattutto il fallimento della fede nella scienza, con il risvegliarsi, dal 1870 circa, di inquietudini, incertezze, dissonanze.

John Brett, ll ghiacciaio di Rosenlaui, 1856 (dettaglio)

La natura nell’ultimo quarto del secolo non susciterà più il sentimento del sublime, presente nelle tele di William Turner, e non sarà più rigorosamente indagata e tradotta, grazie all’ausilio delle fotografia, come ad esempio nel ghiacciaio dipinto da John Brett. La natura diverrà a sua volta artista, secondo quanto ispirano gli studi di Ernst Haeckel (Kunstformen der Natur) e il fascino per le origini della vita non porterà a vedere l’uomo come culmine di un processo evolutivo, ma come parte di ciò che oggi chiameremmo ‘ecosistema’, col fiorire degli studi sull’ontogenesi e della filogenesi. La natura diverrà misteriosa, popolata di centauri, sirene e mostri, brulicante di forme strane e antropormorfe, specchio del dialogo che intratteniamo con noi stessi, come nei pastelli o nelle incisioni di Odillon Redon (che scrisse À soi-même). Verso la fine della mostra una parete presenta insieme due opere emblematiche, rese analoghe per significato: il sesso femminile de L’origine du monde di Gustave Courbet, e una conchiglia, dalla forma molta esplicita, di Redon.

Odilon Redon, Oannès, 1908

Sullo scorcio del secolo luci e tenebre si confrontano proprio intorno al tema delle nostre origini: la natura è vista come insidiosa e matrigna, capace di produrre mostruosità e di punire l’uomo (la madre sifilitica col suo bambino in grembo, o la Madonna il cui figlio è già teschio, nelle opere di Edward Munch), oppure invece ispirare slanci mistici, che incitano a una diversa evoluzione, non quella della specie, ma quella di uno spirito che si libera della materia: nell’ultima sala sono infatti  Evoluzione  di Piet Mondrian, 1911 e un Wassily Kandinsky degli anni de Lo spirituale nell’arte.  Subito dopo, tuttavia, un dipinto minaccioso Potere cieco (1932-37) di Rudolf Schlichter, ci ricorda cosa avverrà di lì a pochi anni. L’ultimo pannello in mostra spiega che un simile progetto deve farci riflettere sulla conservazione del nostro pianeta offeso, e sulle disuguaglianze. Siamo insomma tutti felici e rassicurati nel politically correct.  


[1] Rimando qui al mio: Contro la natura morta sempre su «Antinomie» (21-05-2021).

[2] Il titolo Axial Age rimanda al “periodo assiale” teorizzato dal filosofo Karl Jaspers nell’opera del 1949 Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (Origine e senso della Storia).

[3] Giunio Carbone, Storia fiorentina dai tempi etruschi fino all’epoca presente, Firenze 1840, vol.1, 2, p. 280.

In copertina: Sturtevant, Dreams Money Can Buy / Duchamp Nu Descendant Un Escalier, 1967, Video ; 2 min 59 s276, Courtesy Estate Sturtevant (Paris) and Galerie Thaddaeus Ropac (London, Paris, Salzburg), ph. Aurélien Mole

Insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee all'Accademia di Belle Arti di Brera. Si è occupata di argomenti di arte e di critica d’arte dal XIX secolo ad oggi (con particolare attenzione all’arte dell’età unitaria, al simbolismo tra Francia e Italia, all’Orientalismo e ai rapporti tra parola e immagine), pubblicando saggi e monografie e collaborando a diverse mostre. Membro della SISCA (Società Italiana di Storia della Critica d’Arte), scrive da molti anni per il mensile “Il Giornale dell’arte” (Allemandi). Tra le sue ultime pubblicazioni “Un sogno fatto a Milano, Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo”, Johan&Levi, Milano 2018; “The gentle art of fake. Arti, teorie e dibattiti sul falso”, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2019.

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