Avatars. Il desiderio di essere femmina

04/07/2021

I.

Un episodio del serial Black Mirror mi ha particolarmente colpito. Striking Vipers è sceneggiato dal creatore della serie, Charlie Brooker, per la regia di Owen Harris. La serie appartiene a un genere di fantascienza minore: immagina effetti delle innovazioni tecnologiche sulla scia di quelle che già abbiamo. Questo episodio riprende un tema già da tempo sfruttato dal cinema, quello dell’avatar.

Tutti i personaggi nel film (tranne quelli “virtuali”) sono neri afro-americani, si vede qualche bianco solo di sfuggita, sullo sfondo. Alcuni registi afro-americani girano film in cui gli attori sono solo neri, come se gli Stati Uniti fossero abitati unicamente da neri; ma sceneggiatore e regista di Striking Vipers non sono neri.

I protagonisti sono due vecchi amici, Danny e Karl, i quali si rincontrano quando entrambi vanno verso la quarantina. A giudicare dalle loro abitazioni, sembrano appartenere al ceto medio-alto. Entrambi sono appassionati di video-giochi di combattimento, chiamati Striking Vipers. Ora Karl regala a Danny una nuova versione di questo gioco che ne fa una realtà virtuale. I due giocatori, ognuno nella propria casa, applicano un chip su una tempia e cadono in una sorta di catalessi: solo i loro cervelli “agiscono”[1]. Mentre nel passato i due lottatori venivano manovrati a distanza, ora i due giocatori diventano i lottatori, si reincarnano in essi, e quindi percepiscono anche le botte e gli altri effetti fisici della lotta. Tra le tante opzioni possibili, come per caso Karl sceglie Roxette, una lottatrice donna, e Danny sceglie un lottatore giapponese, Lance. L’ambientazione del fight è nipponica, ma Roxette è una florida biondona platinata secondo il cliché “donna bianca occidentale”. Il tutto è molto kitsch. Le voci dei lottatori sono maschile e femminile, ma con intonazioni e cadenze dei reali Danny e Karl.

Dopo una prima lotta in cui Roxette-Karl ha la meglio, d’un tratto accade che, invece di lottare, i due personaggi si baciano… Fanno l’amore… Più volte i due giocano, ma anziché lottare amoreggiano. La cosa li sconvolge. Il più turbato è Danny: ama Roxette, una parvenza di donna bianca, sente quindi di tradire sua moglie, nera. Ma non si sente gay, anche se “dietro” Roxette c’è l’amico Karl. Questi invece è entusiasta e vorrebbe continuare all’infinito. Ha scoperto di essere gay? Niente affatto. Quando a un certo punto Danny e Karl reali si dicono “baciamoci e vediamo cosa sentiamo”, non sentono nulla. Non si attraggono l’un l’altro. Karl ama il Lance-Danny, e Danny ama il Roxette-Karl.

Danny-Lance chiede a Roxette-Karl, nella realtà virtuale, che cosa si provi a essere femmina nel rapporto sessuale. Roxette-Karl dice che è una cosa straordinaria: essere maschio è come suonare un certo pezzo in un assolo di chitarra, mentre essere femmina è lo stesso pezzo suonato da un’intera orchestra. Il piacere femminile è moltiplicazione di quello maschile.

Ma allora, Karl e Danny amano solo gli avatar virtuali dell’altro? Nemmeno questo si può dire, perché dopo che Danny interrompe definitivamente il gioco con Karl, questi cerca di trovare altri giocatori che invece di lottare si amino, ma nulla è come quando dietro Lance c’era Danny! Sembra che entrambi siano sessualmente attratti dagli eroi virtuali perché dietro c’è l’amico.

Da notare: Karl non diventa gay, non va ora alla ricerca di uomini per farsi sodomizzare. Gli piace solo essere donna nel rapporto amoroso. Il che è ben diverso.

I due uomini neri per la prima volta amano esseri bianchi, cosa che aggrava il loro disorientamento. È come se la differenza razziale doppiasse la differenza sessuale, come se l’invisibile trasgressione della separazione tra le razze amplificasse l’implicita trasgressione nel rapporto sessuale stesso.

Per chi fa psicoanalisi questo film la dice lunga: in un certo senso, quando amiamo qualcuno e facciamo sesso con lei/lui, non abbiamo a che fare sempre, in qualche modo, con l’avatar dell’altro?

II.

Questo filmetto sarà piaciuto ai filosofi queer che oggi prosperano nel mondo anglo-americano. Però faccio notare che il duello tra un uomo e una donna, che si risolve in abbraccio amoroso, non è idea nuova. Tasso, nella Gerusalemme liberata (XII, 48-70), ci canta il duello all’ultimo sangue tra il crociato Tancredi e la guerriera islamica Clorinda, che si scioglie in un abbraccio battesimale finale. Tancredi e Clorinda, quando si incontrano, non fanno all’amore ma alla guerra.

Quanto all’enigma “nel rapporto sessuale gode di più l’uomo o la donna?”, esso emerge agli albori della cultura occidentale. I greci antichi erano convinti che la donna dal coito traesse un piacere ben superiore a quello dell’uomo. Non a caso la dea dell’atto sessuale era femminile, Afrodite; afrodisiazein era termine comune per dire “scopare”. Questa convinzione si basava sul mito di Tiresia, l’unico essere che fosse vissuto sia da uomo che da donna. Un giorno gli dei dell’Olimpo discutevano chi dei due, il maschio o la femmina, godesse di più nell’amplesso, così Zeus chiamò Tiresia. Tiresia disse che la donna gode nove volte di più dell’uomo. A Era non piacque affatto questa risposta – cosa per noi alquanto sorprendente – e accecò Tiresia per vendetta. Questa quantificazione della differenza tra piacere maschile e femminile è abbastanza vicina alla bella metafora di Striking Vipers, l’assolo maschile di contro all’orchestra femminile.

Ma per i greci godere troppo non era onorevole. L’ideale maschile era la sophrosyne, la temperanza. E la donna, che godeva troppo nel coito perché era intemperante, non era affatto idealizzata all’epoca. Da un millennio siamo intrisi di amor cortese, inventato da trovatori e menestrelli dell’Alto Medio Evo, che dà un’immagine sostanzialmente sublime della donna; solo da pochi decenni, credo, stiamo uscendo da questo “film” millenario. Per i greci invece la donna era incline a tutti i piaceri sensuali, a cominciare dal sesso. Se un uomo le si proponeva, non poteva resistere alla tentazione. E difatti, quando un greco veniva cornificato dalla moglie o dalla concubina, veniva punito il seduttore, non la donna: si dava per scontata la “natura” di lei, il suo non sapersi controllare. Così, Aristofane descrive le donne come ubriacone e lascive, più vicine ai borgatari di Pasolini che alle Madonne medievali.

Oggi invece il godimento femminile – che molti uomini considerano superiore al proprio – è segno della superiorità femminile. Siamo ormai già ben oltre il femminismo, che insiste sull’eguaglianza tra uomini e donne, eguaglianza di diritti, ma anche eguaglianza di capacità.  Oggi si sparge sempre più una teoria che pochi osano esplicitare, secondo cui esiste una superiorità femminile sul maschio. Le donne non possono esprimere questa teoria – anche se molte la suggeriscono tra le righe – perché verrebbe presa come un sessismo a parti invertite. Quanto agli uomini, non possono teorizzarla chiaro e tondo perché la political correctness non ammette diseguaglianze tra i sessi, come non ammette diseguaglianze in generale. Eppure la tesi si fa avanti lo stesso.

Nel Medio Evo certe beghine, in particolare Marguerite Porete nello Specchio delle anime semplici e annullate, avevano messo nero su bianco la superiorità della donna sull’uomo. Ma erano in odore di eresia, e Marguerite venne bruciata come eretica nel 1310. Oggi non si brucia più nessuno.

Negli ultimi decenni è fiorito tutto un motivo – letterario, cinematografico, politico – della donna guerriera, come Roxette e Clorinda. Il film fondamentale in questo senso, una vera svolta epocale nella sensibilità di massa, è Kill Bill di Tarantino (2003-2004) (Roberto Saviano scrisse in Gomorra che Kill Bill era il film cult della camorra napoletana).

La protagonista del film non ha nome, è the Bride, la sposa, ed è incarnata da Uma Thurman: costei, malgrado il suo essere Sposa, è una killer, una macchina da guerra praticamente invincibile. La sposa uccide tutti i suoi rivali, uomini e donne, in duelli unicamente all’arma bianca (il film è del genere arti marziali orientali), e alla fine uccide Bill, il padre della sua bambina che gliela aveva sottratta. Nella Gerusalemme liberata nel duello tra Tancredi e Clorinda alla fine vince il cristiano e la donna muore, ma oggi sarebbe Clorinda a far fuori Tancredi. Il film dà evidenza spettacolare a un nuovo ideale femminile: la donna come potenza bellica. Ma il fatto che la lottatrice sia la Sposa, e che il film finisca con un tenero tu per tu tra madre e figlia, grida come un manifesto: la donna-guerriera non rinuncia affatto al sesso (non è pulzella come Giovanna d’Arco) né alla maternità.

Questa epopea della donna-guerriera ha fatto sì che gli eserciti dei paesi occidentali si aprano sempre più alla coscrizione femminile. E nutre la grande popolarità di donne combattenti, anche se pacificamente, come Rosa Luxemburg, Sophie Scholl, Benazir Bhutto, Aung San Suu Kyi, fino a Greta Thunberg, la bambina che si batte contro il Goliath dell’industria inquinante.

Ma questa epopea della donna combattente può essere interpretata come un semplice contrappeso alla tradizione patriarcale: guerrieri valorosi non sono solo uomini, ma anche donne. La tesi della superiorità femminile emerge quindi in modo più sottile. La Sposa di Kill Bill è superiore a tutti i suoi avversari non solo perché è una killer insuperabile, ma anche perché ha saputo rinunciare a essere un’assassina professionista e a scegliere l’amore materno. In termini psicoanalitici, diremmo che la donna ha una valenza fallica, anzi super-fallica, non da meno dell’uomo, ma ha anche una valenza opposta, non fallica. Chiamerei questa valenza con i termini dei mistici renani, Gelassenheit, l’abbandono, il lasciar andare, il lasciar essere. La donna si rivela più vincente, più aggressiva dell’uomo, ma ha la marcia in più di questo abbandono al materno e al femminile, nella misura in cui nel coito ogni donna per certi versi “si lascia fare”.

Si sogna quindi una società salvata dalle donne. Se le donne governassero, si dice, ci sarebbero meno guerre, meno violenza, meno competizione sfrenata, più compassione per l’altro… È evidente però che queste qualità femminili sono quelle che la tradizione patriarcale attribuiva alla donna, le quali vengono riprese oggi come virtù politiche. Evidentemente questo crea un corto circuito ideologico: da una parte la donna viene esaltata come miglior guerriera, come più fallica, dell’uomo, dall’altra invece come chi porta l’amore e non la guerra. Questo è il nodo del moderno Encomio della donna.

III.

Questo senso della superiorità femminile però si evidenzia trasversalmente, ad esempio nell’esperienza negli studi psicoanalitici, oltre che nel cambiamento del costume. È un fatto che tra i transessuali l’80% sono uomini che vogliono diventare donne, e solo il 20% l’inverso. Segno che il sesso più ambito, nel transessualismo, è quello femminile.

La psicoanalisi sin dall’inizio ha messo in evidenza l’invidia per l’altro sesso. In verità Freud aveva visto soprattutto il desiderio femminile per il maschile, il Penisneid, l’invidia del pene. Eppure nel caso clinico dell’Uomo dei Lupi, scritto da Freud, è evidente che il paziente aderisce a una profonda identificazione femminile. Da decenni gli analisti insistono piuttosto sull’invidia della femminilità da parte degli uomini.

Ho incontrato vari uomini molto simili al Karl di Striking Vipers. Sono uomini eterosessuali, talvolta anche donnaioli, che di tanto in tanto hanno quel che uno chiamava “attacchi di femminilità”: devono farsi sodomizzare da un uomo. Non sono sensibili al fascino maschile, sono sensibili solo al pene. Il più famoso psicotico del XX secolo, il presidente di Corte d’Appello Daniel Paul Schreber, autore di una celebre autobiografia, incominciò a delirare quando si pose la domanda “che sensazione ha una donna durante il coito?” Questi attacchi di femminilità rispondono alla stessa domanda. Quella che doveva porsi Giulio Cesare, di cui si diceva “è il marito di tutte le donne di Roma, è la moglie di tutti gli uomini di Roma”[2]. La bisessualità appare, oggi come allora, segno di un’assoluta e imperiale sovranità.

Il caso più comune è quello di uomini eterosessuali che si innamorano di trans non operati. Un mio analizzante la cui pratica sessuale si limitava ad andare da escort specializzate in masochisti (mistress) accarezzava la fantasia erotica di farsi sodomizzare da trans androgini; mai di farsi sodomizzare da uomini normali. Questi uomini vivono una sessualità logicamente temeraria: sono attratti dalle donne, ma da donne con pene. Per loro, quel che li eccita di più nella donna… è il pene. Vogliono una donna che faccia loro da specchio.

Uno psicoanalista americano transessuale, Griffin Hansbury[3] – fu prima donna, e oggi è uomo – ha ipotizzato la presenza della Vagina, per lo più fantasticata, in tutti gli esseri umani, non solo nei transgender. Ogni essere umano ha una Vagina, che tende spesso a “usare” se non altro immaginariamente. Alcuni omosessuali passivi vivono in effetti il loro ano come vagina; sono interessati esclusivamente a rapporti passivi con uomini. Hansbury vuole correggere la visione di Freud, ripresa da Lacan, secondo cui sia gli uomini che le donne sono “fallici”, nel senso che l’uomo ha il fallo e la donna lo vuole ricevere, ma al centro è sempre il fallo. Secondo Hansbury ci sarebbe una sorta di vaginalità originaria. Così parlò Tiresia lo Psicoanalista.

Ho incontrato vari uomini che frequentano, con la loro compagna, luoghi scambisti. Il mondo è punteggiato da un arcipelago di hotel, locali, resorts, dove ci si scambiano i partner tra due coppie. In America gli scambisti si chiamano swingers. In realtà, molti di questi uomini non vogliono scambiare: ciò che li fa godere è osservare la loro compagna che fa sesso con un altro uomo e ne trae diletto. È ciò che ho chiamato “gelosia negativa”, come opposta alla gelosia positiva, quella propriamente detta[4]: desiderare ardentemente che la propria donna vada con altri. La gelosia negativa di fatto non esclude affatto quella positiva, anzi: se la propria donna ha una relazione con un altro uomo senza che lui, il soggetto, possa parteciparvi né saperne nulla, il soggetto farà scenate di gelosia del tutto convenzionali, per dir così. L’importante è il proprio controllo teorico (dal greco thea, spettacolo, e horan osservare) sul godimento ‘altrui’ della donna, se questo controllo manca l’uomo si sente tradito. Credo che possiamo spiegare questo godimento teorico (assimilato al masochismo) con un’identificazione dell’uomo con la donna: lui non si fa penetrare direttamente dall’uomo, come Cesare, ma la sua donna diventa il proprio sostituto narcisistico. La propria donna diventa il proprio avatar. L’importante è che la donna, ovvero se stessi, goda di un pene il più possibile massiccio. Diciamo che così il soggetto, come Karl di Black Mirror, gode dell’uomo fallico per interposta persona, pur restando il corpo femminile il suo oggetto di attrazione.

Molte forme di masochismo e di feticismo (le due cose di solito si implicano) sono comprensibili solo attraverso l’identificazione dell’uomo alla donna: in entrambi i casi, si vuol dare alla donna una potenza straordinaria. Il classico masochista che va da una mistress per farsi fustigare e umiliare, vuole restituire alla donna un’eccedente potenza fallica. E Freud vide giusto quando interpretò il feticcio del feticista – di solito, le scarpe che calza una donna, o i suoi piedi – come un pene surrogato, come se il feticcio fallicizzasse la donna.

Questa fallicizzazione della donna, è oggi sostenuta e rispettata dagli uomini, soprattutto nei ceti più colti e urbanizzati. Ciò appare in modo più evidente attraverso romanzi, film e video che attraverso i libri di psicologia sociale o di psicoanalisi. Oggi, se, in un film o in un romanzo, la donna tradisce il proprio compagno, quasi sempre viene ipso facto perdonata. Anzi, l’uomo dice “È tutta colpa mia!”, come se si fosse meritato la cornificazione. Un uomo che facesse una piazzata d’altri tempi, cacciando la donna di casa o picchiandola, verrebbe rappresentato come un buzzurro, un arretrato, un caso morboso. Da notare che l’inverso non si dà: se in un film o in un romanzo di un certo livello un uomo ha una scappatella con un’altra, la compagna si adirerà e magari caccerà il marito di casa, insomma, la sua gelosia ci viene mostrata come del tutto legittima. È il rovesciamento della morale tradizionale (che vigeva fino a qualche decennio fa), secondo cui invece i tradimenti maschili erano per lo più irrilevanti, mentre l’infedeltà della donna era atto grave. È come se fossimo tornati alla morale dei greci antichi, quando la donna infedele veniva sempre perdonata – anche se ora per ragioni inverse. Allora la donna fraschetta non veniva punita perché era considerata irresponsabile come una bambina, oggi invece è perdonata perché è un suo diritto, direi un suo privilegio, essere infedele.

Mi si dirà che però la cronaca è piena di femminicidi per gelosia, insomma, la possessività maschile è quella di un tempo, se non peggio. Francamente ho seri dubbi sul fatto che oggi si uccidano più donne per motivi passionali rispetto al passato, bisognerebbe fare un’accurata analisi statistica non tendenziosa. Ma anche se i delitti maschili per gelosia aumentassero, almeno in Italia, ciò proverebbe una crescente fragilità maschile: è come se un’area maschile backwarded, rimasta indietro con i tempi, non sapesse adattarsi al nuovo potere femminile e reagisse in modo distruttivo al cambiamento.

IV.

Ora, tutte queste figure della donna fallicizzata – la Sposa guerriera, la donna che gode con altri uomini, la donna sado-maso o feticizzata, la donna sovrana – paiono smentire tutta una linea di pensiero femminista che insiste invece sui valori femminili non fallici, su quella che ho chiamato Gelassenheit[5].  In effetti, il processo di egualitarizzazione di genere che è andato avanti negli ultimi cinquant’anni si è diretto sempre più verso una mascolinizzazione della donna, non veramente verso una convergente femminilizzazione dell’uomo. Si trova ancora del tutto normale che una moglie non lavori e faccia la massaia, mentre l’uomo porta i soldi a casa; non viene affatto apprezzato il caso inverso. Conosco casi di uomini mantenuti dalle loro donne: vengono considerati alla stregua di magnaccia. Le donne tendono a fare lavori un tempo considerati maschili (professori universitari, militari, imprenditori, artisti, taxisti, politici, magistrati, giornalisti…), ma non possiamo affatto dire che gli uomini si accalchino a fare lavori classicamente femminili (insegnanti elementari, sarte, prostitute, domestiche, segretarie, infermiere). Non basta che i ragazzi si mettano un orecchino (ma uno solo, mai due simmetrici) o che uomini collaborino ai lavori domestici per considerarli femminilizzati. Le donne possono mettersi i pantaloni, gli uomini non possono indossare gonne, nemmeno se sono scozzesi. La donna ha socialmente due sessi, l’uomo uno solo. I valori fondamentali della nostra società restano maschili nel senso tradizionale: competitività, produttività, lavoro intenso, aggressività… È stata la donna moderna a eguagliarsi all’uomo, non viceversa. È come se la superiorità femminile consistesse allora nell’essere bi-gender, così come è il suo apparato sessuale, vaginale e clitorideo.

L’occupazione da parte di donne di posizioni di potere di fatto non porta a un vero cambiamento del potere. Il governo di Lady Thatcher fu particolarmente ferreo, come è noto, e la Prime Minister condusse vittoriosamente una guerra, quella delle Falkland/Malvinas del 1982. Quanto al lungo governo Merkel, non vedo differenze clamorose con un altro governo conservatore a guida maschile; anzi, fu particolarmente dura la sua gestione della crisi economica greca nel 2016. In Italia abbiamo una sola vera leader politica donna: Giorgia Meloni, una fascista. Stessa cosa in Francia, con Marine Le Pen. Non mi pare che i segretari di stato americani Madeleine Albright e Hillary Clinton abbiano dato un tocco tipicamente femminile al loro ruolo. Né credo che l’attuale presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen dia uno stile specialmente femminile alla sua funzione, a differenza di Romano Prodi e di Jean-Claude Juncker. La verità è che la crescente partecipazione femminile alla ricerca scientifica, alla riflessione filosofica, all’attività imprenditoriale, alle tecniche di governo… non ha cambiato affatto i paradigmi di questi campi. Questo non perché le donne si troverebbero a operare in un mondo “maschilizzato”, ma perché ogni ruolo implica certi giochi, e le regole dei giochi sono quelle, indipendentemente dal gender dei giocatori. Se una donna vuole giocare a scacchi, le regole sono le stesse che per un uomo. Se un paese deve fare una guerra, la farà anche se il leader è donna. Mi dispiace deludere chi crede che “le donne ci salveranno”, non credo che la salvezza sia una questione di genere. Anche se sarebbe bello se fosse vero.

In linea generale, quindi, sembriamo andare verso una società unigender, ovvero iper-fallica. E la donna oggi viene particolarmente encomiata e invidiata per la sua iper-fallicità.

Uno psicoanalista russo mi raccontò una barzelletta. Due bambini della stessa età, un maschio e una femmina, giocano spesso in cortile. Solo che il maschio è povero e ha ben pochi giocattoli, mentre la femmina è ricca e ha tanti giocattoli che esibisce fiera al suo amichetto. Questi a un certo punto, per rivalsa, tira fuori il pene e le dice: “E tu invece questo ce l’hai?” La bimba è colpita, piange, e scappa via. Ma torna poco dopo raggiante: “Ho chiesto a mia madre perché non ce l’ho. E lei mi ha detto: Non ti preoccupare, quando diventerai più grande ne avrai a centinaia, quanti te ne pare”.

Battuta istruttiva, perché spiega gran parte della supposizione di superiorità delle donne: costoro sono più falliche degli uomini. È come l’orchestra di Roxette comparata all’assolo. Ma allora, questa teoria mezzo-detta, strisciante, sulla superiorità femminile, è solo una superiorità fallica? O, malgrado tutto, si profila un in-più femminile che non sia semplicemente un plus-fallico? Questo è il punto essenziale.

V.

Da dove viene quindi questa crescente considerazione della superiorità femminile? La voglio vedere soprattutto da parte maschile. Sarebbe troppo facile ridurre questo encomio della donna a una nuova forma di “cavalleria”, a cascamortismo intellettuale. Questa esaltazione della superiorità femminile è sincera, e si accompagna a una certa auto-decantazione di tanti uomini come “femminili nell’intimo”. In questo modo, molti uomini affermano trasversalmente la propria superiorità proprio proclamandosi femminili, ovvero appartenenti al sesso superiore…

Tempo fa mi chiamò telefonicamente un uomo dedito a pratiche masochiste classiche per chiedermi un incontro. Dal tono della sua voce mi parve una donna e lo apostrofai come tale, ma lui mi corresse. In effetti, mi disse poi, l’essere scambiato per una donna lo aveva gratificato, perché, disse, lui si sentiva femminile. Il punto è che di fatto è un uomo radicalmente misogino, per lui le donne sono tutte “zoccole”… Come poteva convivere la sua identificazione alla donna e il profondo rancore che nel fondo nutriva nei confronti delle donne? Credo che questa combinazione sia tipica nei maso-feticisti, come li chiamo io.

Le pratiche masochiste di vario tipo mi sembrano rispondere a una sorta di risarcimento della donna. La donna viene considerata una vittima, un essere inerme che va tutelato, e quindi il soggetto maschio le deve restituire una potenza fallica che le manca. Ma d’altro canto egli si identifica alla donna, nel senso che anche lui si sente vittima, inerme, rispetto a un super-maschio che può dominarlo. Da una parte ripara la mancanza nella donna offrendo se stesso come oggetto di rigetto e umiliazione, dall’altra rigetto e umiliazione gli sembrano la metafora di quella femminilità di cui vorrebbe partecipare. In altre parole, rinunciando alla propria padronanza fallica sulla donna, dando questa padronanza alla donna stessa, egli rinuncia alla padronanza e accede a una dimensione di godimento della signorilità.

Per capire la differenza tra padronanza e signorilità basti pensare al tipo di piacere che ci danno le opere tragiche, a quelle in particolare che si concludono con la sconfitta dell’eroe o dell’eroina. Da secoli ci si chiede: “Che cosa ci fa godere negli spettacoli tragici? Perché piangere la triste sorte degli eroi a cui ci identifichiamo ci dà un piacere struggente? Che cosa è questa misteriosa catharsis, di cui parlava Aristotele, ovvero il godimento finale che ci dà l’opera tragica?” È comunque un godimento connesso proprio alla rinuncia alla padronanza, al potere, che nel caso del “sesso tragico” è rinuncia al potere fallico[6]. Ma questa rinuncia al potere fallico – che il maso-feticista mette platealmente in scena – segna l’accesso all’Aufhebung, elevazione, a una padronanza di ordine superiore, che chiamerei signorilità. È il piacere che ci danno le visioni pessimiste, ad esempio, come quella di Leopardi: accettare una visione scettica, disincantata, del mondo, è atto di padronanza suprema. Al piacere della padronanza si sostituisce il godimento della signorilità.

In questo senso, l’esaltazione della donna super-fallica di oggi è l’altra faccia di una compassione per la donna, una compassione per il suo esser-oltre la prestazione fallica. Da una parte si dice “la donna deve essere eguale all’uomo, cioè fallica”, ma d’altra parte l’uomo invidia nella donna qualcosa che all’uomo appare, se non precluso, ben più difficile da raggiungere: quella Gelassenheit nel lasciar essere il mondo. Dietro la fulgida e invincibile donna combattente, è il suo (di lei? di lui?) desiderio di essere semplicemente una donna ciò che attrae.


[1] La fonte di ispirazione è certamente il famoso argomento del «cervello in una vasca» di Hilary Putnam, a sua volta modernizzazione del dubbio cartesiano (cfr. H. Putnam, Brains in a Vat, in Id., Reason, Truth, and History, 1981; tr. it. Ragione, verità e storia, il Saggiatore, Milano 1985).

[2] Svetonio, De vita Caesarum, Divus Iulius 49-54. Ricordiamo che all’epoca non c’era nulla di più degradante per un uomo che l’essere penetrato. Mentre un uomo poteva vantarsi di aver penetrato un altro uomo.

[3] G. Hansbury, L’uomo vaginale: lavorare con la corporeità di uomini queer al confine del transgender, in «Psicoterapia e Scienze Umane», 55, 2021, 1.

[4] S. Benvenuto, Gelosia, il Mulino, Bologna 2011.

[5] È la tesi portata avanti dalla psicoanalista Cristiana Cimino in Tra la vita e la morte. La psicoanalisi scomoda, manifestolibri, Roma 2021.

[6] Ho sviluppato questa analisi del piacere tragico in Il godimento tragico. Tra Aristotele e Freud, in «Allegoria», XVII, 2005, 50-51, 2005, pp. 95-118.

Tutte le immagini sono tratte dall’episodio Strilking Vipers della serie “Black Mirror” (episodio 1 della quinta serie, trasmesso su Netflix 5 giugno 2019)

Sergio Benvenuto

già ricercatore del CNR a Roma, esercita come psicoanalista e scrive da filosofo. È stato Visiting Researcher alla New School for Social Sciences di New York, insegna psicoanalisi in vari istituti in Russia, Ucraina e Italia. È presidente dell'Istituto psicoanalitico Elvio Fachinelli. Ha fondato nel 1995 l’”European Journal of Psychoanalysis”. È redattore delle riviste di psicoanalisi “American Imago”, “Psychoanalytic Discourse” e della rivista filosofica franco-indiana “Philosophy World Democracy”. Ha collaborato e collabora a varie riviste culturali sparse per il mondo, di varie lingue. Ha pubblicato vari libri in italiano e in molte altre lingue. Tra i più recenti: “Perversioni” (Bollati-Boringhieri), “Accidia” (il Mulino), “La gelosia” (il Mulino), “Godere senza limiti” (Mimesis), “Conversations with Lacan” (Routledge), "La ballata del mangiatore di cervella" (Orthotes 2020), “Il teatro di Oklahoma. Miti e limiti della filosofia politica di oggi” (Castelvecchi).

English
Go toTop