È appena uscito per l’editore inglese MACK (pp. 152, € 55, con testi di Corrado Benigni. Antonello Frongia e Roberta Valtorta) Cinque viaggi 1990-1998 di Guido Guidi, a cura di Corrado Benigni, catalogo della mostra omonima in corso al Complesso Monumentale di Astino a Bergamo (visitabile sino al 30 settembre). Dal volume proponiamo, per la cortesia degli autori e dell’editore, il testo critico del curatore e una scelta delle immagini in mostra e riprodotte nel libro. Nei prossimi giorni proporremo anche una conversazione di Guidi con Sabrina Ragucci.
“Il disordine della città è sacro. Ogni cosa è correlata alle altre. Sopra come sotto.
Siamo frammenti di un tutto inesprimibile. Il significato è sempre in cerca di se stesso.
Rivelazioni impensate ci attendono dietro l’angolo.”
Charles Simic, Il cacciatore di immagini[1]
La città di Guido Guidi è un universo realistico e fantastico al tempo stesso, uno spazio dai confini sfrangiati e mutevoli, teatro per eccellenza della tentacolare sconnessione contemporanea.
«Non diamo dunque particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi; e, frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell’insieme somigliava a una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche»[2].
Così scrive Musil all’inizio dell’Uomo senza qualità. La città senza nome è Vienna, ma potrebbe essere una qualsiasi metropoli occidentale di oggi. Come la Milano vista con gli occhi di Guido Guidi, dove la sua topografia è quasi una Tac della psiche del nuovo “uomo senza qualità”. Fedele al suo stile di testimone di “luoghi imprecisi” o, per dirla con Lewis Baltz, endsites[3], Guidi rappresenta Milano e i suoi dintorni cercando un’attenzione diversa alle forme della città, che non fa più affidamento sul potere evocativo dei nomi delle strade, delle piazze, delle architetture, come se questi fossero di per sé risolutivi, come se bastasse nominare un luogo per evocarne e rappresentarne i caratteri, l’essenza, lo spirito. Cerca piuttosto di lavorare con uno sguardo che presuppone i nomi e dunque la storia della città, descrivendone le forme in una percezione più individuale: come la consistenza della luce, la densità dei colori e della materia, la concentrazione e rarefazione della traiettoria, il fluidificarsi o congelarsi delle linee di movimento. E soprattutto un’essenziale relazione con gli oggetti. «Io sono quello che fotografo nel momento in cui lo sto fotografando», precisa l’artista[4].

Autore seminale che ha aperto in Italia, in particolare per le ultime generazioni, una nuova dimensione della fotografia, con la sua opera ha segnato lo spartiacque della rinnovata consapevolezza concettuale ed estetica, come dimostrano anche queste immagini realizzate negli anni Novanta, alcune inedite, riunite per la prima volta in un volume organico.[5] Qui la visività rappresenta soprattutto una possibilità di percepire l’esterno in una relazione pura con l’interiorità, reinventato in forme nuove, misurate al proprio sguardo. Del resto la metropoli – come è stato più volte osservato in grandi saggi, a cominciare da quelli di Simmel – cambia la sensibilità e la percezione dell’individuo, diviene una sua pelle sensibilissima che reagisce, anche e soprattutto subliminalmente, al continuo bombardamento di stimoli veloci ed effimeri[6].
Guidi non parte dalla realtà, ma alla realtà cerca di arrivare, lavorando non tanto su un’idea di spirito del luogo ma di spirito nel luogo. Come il flâneur di Baudelaire, il fotografo è un viandante che si muove ozioso per la città come in una foresta del postmoderno, osservando le crepe della storia e le tracce della contemporaneità, mettendo a fuoco i segni di un paesaggio disorganico e polimorfo. Con queste immagini legge – racconta, interpreta, scava, vive – Milano così come si vive un corpo umano (ora desiderabile ora scostante ora ributtante) che nella sua carne, nei suoi lineamenti, nelle sue cicatrici reca incisi i graffiti della sua storia, dei suoi eccessi e delle sue ferite, della sua passione. La lettura e il racconto di quei graffiti trasformano la città in un romanzo per immagini, quello che si vive ogni giorno, spesso inconsapevolmente.

Da più di mezzo secolo l’autore di Varianti fotografa i modesti luoghi periferici dell’Italia contemporanea, documentando gli spazi transitori tra le città. Con questo progetto si concentra per la prima volta quasi interamente sul paesaggio urbano, cogliendone però, attraverso i dettagli, i luoghi marginali dentro la città e allo stesso tempo includendo nell’immagine il limite dello sguardo, il suo punto di fuga paradossale. La mutazione dei processi urbani, dove la conformazione degli spazi si mostra sempre più disomogenea, assumendo l’aspetto di un corpo discontinuo, è qui esperienza estrema e queste fotografie testimoniano l’impossibilità di darne una visione unitaria, ordinata, razionale. Così la metropoli rappresentata è una vasta, oceanica periferia, che diviene un intero mondo, una città nella città; la sua aura è la seduzione del sensibile e del presente, ma le sue case, le sue strade e i volti dei suoi passanti hanno delle crepe che, sebbene dissimulate, annunciano come le rughe su un viso, lo sgretolarsi della vita e della storia, il suo franare e precipitare nel cumulo di rovine del tempo, le stesse che l’autore registra nelle fotografie realizzate all’interno delle ex Officine Falk. Milano è l’antitesi della città eterna: è la città delle macerie e delle rinascite, appartiene alla razza delle città distrutte.
Guidi fotografa il capoluogo lombardo un attimo prima della sua grande trasformazione, avvenuta negli anni Duemila, con interventi che nell’arco di un decennio ridefiniranno completamente lo skyline cittadino, trasformando Milano in una delle metropoli più moderne d’Europa. La sua visione della città, poco prima del nuovo millennio, si mostra dunque attraverso scenari in dissolvenza; una città ancora sospesa e anche irrisolta, «pronta a cambiare ma non ancora cambiata»[7].

Non è certamente un caso che, a differenza dello sviluppo orizzontale tipico del paesaggio, abbia scelto per molte di queste fotografie inquadrature verticali. Milano, come ogni metropoli, è fatta di grandi edifici e grattacieli che si protendono verso l’alto. Ma la verticalità di queste immagini non è legata solo alla forma della città, che contagia la definizione stessa della visione. Guidi sembra rifarsi alla zona più oscura e profonda dell’anima milanese e lombarda dell’ultimo secolo, quella che in letteratura – dagli Inni sacri di Manzoni alla Scapigliatura, dal Romanticismo fino a Gadda e Testori – sceglie di esplorare i luoghi poetici inafferrabili da qualsiasi razionalismo e protèsi a scendere in verticale nei grandi temi del tempo, della morte, del destino. Questi autori visionari non guardano la realtà ma la loro proiezione sulla realtà. Come è visionario Manzoni quando racconta Milano sfregiata dalla peste. Spiega il fotografo: «Sono cresciuto in una famiglia di falegnami. In casa mia c’erano pochi libri, tra i quali la Bibbia e I Promessi Sposi. Dalle pagine del Manzoni, che mi hanno segnato fin da ragazzo, ho conosciuto per la prima volta Milano e i suoi dintorni. Attraverso queste fotografie ho voluto in qualche modo ripercorrere il cammino di Renzo Tramaglino in fuga da Milano verso Bergamo, lungo il naviglio della Martesana».

Anche dal Manzoni, dalla sua visionarietà, Guidi sembra avere imparato a osservare il paesaggio con un occhio diverso, senza il peso dell’abitudine. È proprio il personaggio inventato dal Manzoni che costeggiando le mura di Milano ci mostra i fossatelli e le stradine tortuose coperte di polvere, «una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso», con uno sguardo rasoterra che anticipa le visioni laterali care ai fotografi contemporanei. Guidi, come il Manzoni dei Promessi sposi (un romanzo senza idillio, lo ha definito Ezio Raimondi, e senza idillio è anche la rappresentazione di Milano in queste immagini), rinuncia alla visione a volo d’uccello, alla prospettiva aerea marcata dalle coordinate di una visione ideologicamente stabile.
Le fotografie di questi “viaggi” – dove ancora una volta predominano forme, geometria, neutralità – rappresentano spazi quasi sempre non abitati da presenze; luoghi densi di assenze e silenzi. Ed è proprio questa densità il fattore che contraddistingue le sue vedute: non c’è l’uomo, ma tutto è impregnato del suo corpo, del suo respiro, dei suoi sguardi. Difficile immaginare città italiana più vissuta di questa, nonostante si presenti sempre quasi deserta. Ed è difficile immaginare città più monumentale di questa che pur non indugia mai a svelare i suoi monumenti, perché ci mostra solo grandi muraglioni, strade, capannoni, palazzi, insegne pubblicitarie. Eppure da questo squallore meccanico della città, l’artista riesce a trarre una bellezza e una grandiosità nuove, facendo emergere la profonda crepa che si crea fra il degrado dell’evoluzione tecnologia e l’ambiente. E in tutto questo, preponderante e dominante è il fascino della solitudine e dell’incanto del silenzio e dell’immobilità.
A parlare sono talvolta le ombre proiettate sulle facciate degli edifici, il loro ingrandirsi o rimpicciolirsi, che Guidi coglie con la pazienza dello sguardo. Luci e ombre disegnano sulle pareti ruvide dei muri un alfabeto di segni che si modifica con il passare delle ore, dei giorni e delle stagioni. E utilizza la forma della sequenza per scandire questo processo, mettendo in fila immagini che funzionano come il quadrante di un orologio. Il tempo scorre, in fotografia, così mentre la proiezione di una figura si modifica secondo il momento in cui viene ripresa, le pareti degli edifici si scrostano, si scuriscono, vengono attaccate dalla vegetazione circostante. L’oggetto raffigurato acquisisce una monumentalità e immortalità uniche. Ancora una volta queste fotografie possono essere lette come esempi della profonda comprensione per l’interazione tra passato e presente, tra fragile transitorietà e monumentale eternità.
L’osservazione paziente delle ombre, del loro impercettibile movimento, diviene allora una riflessione sul tempo, il “grande scultore” di queste immagini. E il tempo che preme sull’autore è quello di una storia che si sfalda; ed è il tempo del suo camminare, guardare, introiettare i luoghi, dove il paesaggio acquista una corposità magica e spesso irreale: le diagonali inflessibili degli edifici e le rovine sono tutt’uno, così come la superficie dura, impenetrabile dei capannoni industriali e l’asfalto rovente che tutto sembra risucchiare. La sua è una temporalità allentata sino a sospenderla non nella liturgia della ripresa fotografica, non nella costruzione artificiosa dell’immagine, ma nell’idea di “sguardo lento”. Uno sguardo che mette a fuoco le apparenze, che s’impossessa e rende protagonista lo spazio; così l’occhio diventa una cosa sola con il medium fotografico, neutrale e senza pregiudizi, che pur vincolato al presente ci ricorda la nostra transitorietà, mentre registra l’esistenza plurima, multispaziale, multicentrata e, al tempo stesso, monadica del vivere contemporaneo.

Con questo lavoro su Milano e la sua area metropolitana Guidi, che negli anni ha disegnato un percorso tanto coeso quanto aperto a svolgimenti nuovi, prosegue il progetto di proporre un alfabeto del paesaggio italiano indagato nei suoi elementi primari grazie a un approccio privo di retorica e stereotipi, elaborando un linguaggio visivo che riflette il nostro processo di cognizione attraverso il mezzo della fotografia e mettendo in discussione la mutevolezza e la sensibilità della nostra stessa percezione.
Sono immagini in cui non accade nulla, non si verifica alcun evento e dove non ci sono elementi forti che catturano la nostra attenzione. Un piccolo spostamento all’interno della quotidianità, un microevento si trasforma nella mutazione vera e propria di un ambiente e conseguentemente anche della percezione che di esso si può avere. Questo modo di guardare il paesaggio, lontano dal sensazionalistico e dall’eccezionale, è la cifra dell’intera opera di Guidi, per il quale la contemplazione rappresenta una precisa scelta di campo, una forma di resistenza contro l’omologazione e l’appiattimento dello sguardo; vicino ai cosiddetti «nuovi topografi» americani, che hanno lavorato alla rifondazione estetica di un paesaggio esteticamente povero, sconnesso, incoerente, consapevoli che forse le loro immagini del disordine non entreranno a far parte di alcun sistema di significati. Tra questi fotografi, l’autore al quale il lavoro e il pensiero di Guidi è più prossimo è senz’altro Lewis Baltz, secondo il quale: «Conoscere una città significa conoscerla anzitutto attraverso la rappresentazione; dedicarsi a una città in termini artistici significa accettare le rappresentazioni che di essa sono state date, sfruttandole magari, se si ha fortuna, per estrarne un pizzico (l’ultimo?) di significato originale»[8].

Per il maestro cesenate lo spazio è stato e continua a essere un’esperienza insostituibile dello sguardo per costruire l’immagine che lo interpreta e lo rappresenta, scegliendo negli elementi fondamentali della visione quei soli dettagli che sono al tempo stesso comuni a tutti i luoghi, a tutte le figure, a tutte le situazioni eppure irriducibilmente loro al punto tale che bastano come elementi di minimo ingombro e di massima forza, a sopportare il peso, il volume e il senso dell’intera descrizione. Guidi percepisce l’esterno nella sua natura almeno doppia, come è quella della luce, di forma perfettamente definita e di forza diffusa. Si tratta dunque di rappresentare attraverso il massimo della precisione ciò che è indefinitamente in movimento, ancora di più in una metropoli; di arrivare, attraverso la descrizione, a un’immagine di forma fluente: rappresentazione dell’interno e dell’esterno.
In questo modo la sua visione del mondo ha contribuito negli anni a produrre un nuovo alfabeto visivo che s’incrocia perfettamente con i temi del cambiamento. Mediante un processo di sottrazione (degli elementi, del colore, della composizione stessa della scena), Guidi aggiunge complessità alla lettura dell’immagine, dentro la quale l’osservatore si muove riflettendo e immaginando senza sosta, ricordandoci di continuo che la città e il paesaggio sono anzitutto lo sguardo che li osserva.
[1] Charles Simic, Il cacciatore di immagini, Adelphi, 2005, p. 111.
[2] Robert Musil, L’uomo senza qualità, a cura di Adolf Frisé, Einaudi, 2014, vol. 1, p. 6.
[3] Lewis Baltz, (Non simulacri), in Marisa Galbiati (a cura di), Lo sguardo discreto. Habitat e fotografia, Tranchida Editore, 1996, p. 150.
[4] Antonello Frongia, Laura Moro (a cura di), Topografie del paesaggio e dell’archivio. Una conversazione con Guido Guidi, in Guido Guidi, Cinque Paesaggi, Postcart, 2013, p. 191.
[5] Molte delle immagini riunite in questo volume fanno parte dei fondi: Archivio dello Spazio e Milano senza confini, di proprietà della Provincia di Milano (che ne è stata la committente) e dal 2015 della Città metropolitana di Milano, custoditi presso MUFOCO – Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (MI). Si veda: www.mufoco.org/collezioni/archivio-dello-spazio; e www.mufoco.org/collezioni/fondo-milano-senza-confini.
[6] Per Simmel la questione del paesaggio si inserisce nell’analisi del rapporto individuo-società. «Nelle osservazioni sul paesaggio tale analisi è chiamata in causa perché l’esperienza del paesaggio presuppone […] un carattere fondamentale della modernità sociologica, ossia l’individualizzazione»: M. Sassatelli, in Georg Simmel, Filosofia del paesaggio,Armando, 2006, p. 11.
[7] Roberta Valtorta, Committenze sul territorio al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo: dall’Archivio dello Spazio ai progetti di arte pubblica in Malvina Bolgherini e Monique Sicard (a cura di), Photopaysage. Il paesaggio inventato dalla fotografia, Quodlibet Studio, 2020, p. 180.
[8] Lewis Baltz, Scritti, a cura di Antonello Frongia, Johan & Levi, 2014, p. 138.