Come in letteratura ci sono opere che fondano il codice della propria disciplina, il senso profondo e ultimativo che associamo allo scrivere e al leggere – vengono subito in mente la Commedia e la Recherche –, così nel repertorio del cinema brillano certi film che – senza essere necessariamente “i più belli” – quintessenziali insieme riflettono l’universo tecnico delle loro modalità di produzione e l’universo psichico che sospinge a concepirli, a realizzarli, soprattutto, a guardarli. Questi film sono le tavole della legge del cinema.
Nel libro gemello di questo suo ultimo, La follia che viene dalle ninfe, una quindicina di anni fa Roberto Calasso ricordava come per gli antichi greci quella simboleggiata dalla ninfa fosse «una conoscenza attraverso la possessione». Questo il «segreto palese» che di un libro di Vladimir Nabokov, non “più bello” di altri suoi, a differenza degli altri ha fatto un mito: Lolita è uno dei «nomi cifrati della materia mentale», e l’apologo di Humbert Humbert (e Quilty) insegna come il segreto più umiliante e sublime sia che «possedere significa essere posseduti». Se ossessione del romanzo è quella faustiana di fermare il tempo in un’immagine-feticcio (non c’è finale più doloroso di quello in cui appare Lola sfiorita dal proprio essere viva: a dispetto degli sforzi, da parte dei suoi posseduti, di eternarla in un simulacro perverso), non sorprende che lo stesso Nabokov si sia indotto a trarne una sceneggiatura, e che per suo conto Stanley Kubrick ne fece poi un film non meno epocale: che alla follia che viene dalle immagini, in un giro di vite vertiginoso, associava i paesaggi di quell’Aldilà che per l’iper-europeo Nabokov era l’America. La terra della possessione e dell’allucinazione, cioè del cinema.
Anche Giorgio Agamben, nel saggio che alle Ninfe s’intitolò un paio di anni dopo, associava queste antiche figure anancastiche alla magnifica ossessione del cinema. Se quella della ninfa è Pathosformel per eccellenza, nell’atlante Mnemosyne di Aby Warburg, è perché vi si concentra il paradosso che avvince due potenze avverse quali l’immagine e il movimento: il cinema trattiene il movimento reale della vita imprigionandolo in un’immagine fissa ma après coup, in virtù di un’illusione (indotta dal fenomeno ottico della persistenza retinica), quei foto-grammi – le sue lettere di luce – ce lo restituiscono in un contro-movimento illusorio – un falso movimento – che Agamben assimila al Nachleben di Warburg, «vita postuma (o sopravvivenza)». Se questo è vero, però, è perché quanto si fissa nell’immagine tecnica è costitutivamente morto, sottratto al movimento e dunque alla vita. Come diceva Roland Barthes, è già-stato: la fotografia (scrisse Giorgio Manganelli recensendo La camera chiara all’indomani della morte del suo autore) è l’«arte di produrre epitaffi a macchina». E allora, se all’improvviso quelle immagini cominciano a muoversi, non possono che ammaliarci e insieme turbarci: come il movimento, spettrale, di un morto che cammina.
Alla fine di questo piccolo e voraginoso atlante delle sue ossessioni, addensatosi lento e inesorabile (come avverte il suo autore in abbrivo) «in vari momenti, separati anche da qualche decina di anni», Calasso ricorda «il libro più disperato di Kafka» (al di là delle apparenze): quello da lui intitolato Il disperso e che, dopo la sua morte, Max Brod ribattezzò Amerika. Un libro, secondo Calasso, imbevuto della sostanza magica del cinema: non a caso proiettato nell’Altrove-America che, per Kafka che non vi era mai stato, era pura sostanza allucinatoria. (Allucinazioni americane s’intitola appunto quest’ultima suite di frammenti, più che capitolo, che dà il titolo al libro.) Di tutta la scrittura di Kafka, in effetti, si può dire quanto dice Calasso di Amerika: che, come il cinema, è una «compresenza di allucinazione e iperrealtà, intesa come fisicità eccessiva».
Ma, come illustra una ricca aneddotica, a Kafka il cinema non piaceva proprio (disdoro questo, per fortuna, non contraccambiato). All’amico Gustav Janouch, una volta, provò a spiegarne il motivo: «forse perché sono troppo visivo. Io vivo con gli occhi, e il cinema mi impedisce di guardare, la velocità dei movimenti e il rapido mutare delle immagini mi costringono continuamente a passar oltre. Lo sguardo non s’impadronisce delle immagini, ma queste si impadroniscono dello sguardo, e allagano la coscienza». Anche per lui, dunque, di fronte alle immagini possedere significa essere posseduti. E il movimento di quelle icone venerate gli dà un senso di vertigine.

Proprio Amerika, il libro sulla Terra-Cinema per antonomasia, ci dice qualcosa in più. Ricorda Calasso come, in un certo momento del 1914, Kafka scrivesse in parallelo questo libro e Il processo: due testi in apparenza opposti, colla fine ingloriosa e ineluttabile di Josef K. a rovesciare la “salvezza” finale di Karl Rossmann: che, dopo tante umiliazioni e traversie, perviene a una terra promessa chiamata Teatro Naturale di Oklahoma. Questo, dice Calasso, è davvero «il rovescio degli altri luoghi romanzeschi di Kafka»: perché se alla Trascendenza del Castello e alla Giustizia del Processo nessuno potrà mai avere accesso, nel Teatro di Amerika «tutti non possono non essere accolti». Singolare formulazione, quest’ultima in forma di litote, che ci fa notare come il rovesciamento sia piuttosto un chiasmo: una simmetria, anche se appunto rovesciata. Nel Diario annota Kafka di aver sognato in gioventù «un romanzo in cui due fratelli lottavano fra loro, uno andava in America, mentre l’altro rimaneva in una prigione europea»: tanto dall’Inferno del Processo che dal Paradiso di Amerika (come già da quelli danteschi, del resto), in effetti, non si può uscire: in quanto luoghi entrambi allucinatori. Allucinazioni delle quali Karl Rossmann non si libererà mai, perché se le porta negli occhi da sempre. Le centinaia di donne vestite da angelo che alla fine del romanzo vede suonare trombe d’oro sono davvero, come dice Calasso, una scena da musical à la Busby Berkeley: col suo sublime posticcio e accettato come tale (la qualifica di «Naturale», di questo Teatro, andrebbe allora letta come l’ironia più tremenda di Kafka); ma sono anche l’illusorio travestimento dello scenario dell’Apocalisse. Se alla fine del Processo il protagonista prende almeno coscienza della sua sorte, alla fine di Amerika – fine davvero disperata, se così fosse – il protagonista scambia la propria condanna definitiva per un’assoluzione celestiale.

Dall’illusione metafisica che chiamiamo cinema non c’è via d’uscita in quanto, spiega Calasso, i suoi simulacri non sono fermi come statue: sono «mobili, girano per le strade» perché, come l’Amerika di Kafka, sono nascosti in fondo ai nostri occhi. Li portiamo sempre nel «teatro di posa della mente» («il cervello è lo schermo», diceva Gilles Deleuze): per questo li paragona ai fosfeni, quei lampeggiamenti che vediamo stringendo gli occhi chiusi (ma, in certe situazioni, anche a occhi aperti), ai quali Andrea Zanzotto intitolò il suo libro più metafisico e paradisiaco (nonché, verso la fine, un po’ kafkiano): in quelle «punte di lume» lampeggia il «Logos», nientemeno, in cui si racchiude il mistero del tempo.

Tra i film-tavole della legge, a interrogarsi sulle allucinazioni del tempo è quello intitolato all’abbagliarsi della visione, al quale l’atlante ossessivo di Calasso è dedicato: Vertigo di Hitchcock. Film su un’ossessione destinato a farsi a sua volta ossessione, non c’è forse opera del cinema più magnetica, ed è senz’altro quella più talmudicamente postillata. Quello passato alla storia della tecnica del cinema come effetto Vertigo (di cui Hitchcock si compiace conversando con Truffaut: uno zoom in avanti combinato con una carrellata all’indietro, entrambi alla massima velocità) deforma ovviamente lo Spazio, ma allude pure alla natura reversibile del Tempo. Un altro malato di Vertigo come Chris Marker (che a questa sua ossessione ha dedicato un episodio del suo Sans soleil, 1983) ha detto una volta che il bacio-vortice fra Scottie e Madeleine, alla fatale Missione di San Juan Bautista, è «la scena d’amore» per antonomasia: se è vero che «l’amore è l’unica vittoria possibile sul tempo». Più in generale sono fatti di sostanza affettiva, patica, gli Archetipi che al Tempo sopravvivono, le Pathosformeln di Warburg. (Giustamente osserva Calasso che non è solo Scottie «un emotivo», come disse Hitchcock a Truffaut per spiegare il ritmo lentissimo di questa storia intitolata alle vertigini: «tutto il film è il regno del pathos. Non c’è un solo istante che ne sia privo, sino all’insostenibile». L’orgia post-wagneriana del memorabile score di Bernard Herrmann è lì per questo.)

Se Allucinazioni americane si ricollega alla Follia che viene dalle ninfe non è solo perché nel saggio del 2005 veniva anticipata la lettura «vedantica» della Finestra sul cortile (film «gemello inverso» di Vertigo) ma perché entrambi i libri sono dedicati, sin dal titolo, a quelle che a tutti gli effetti sono patologie. E perché queste malattie dello spirito hanno la caratteristica di trasmettersi implacabili attraverso il tempo. Proprio come le Figure dell’Atlante di Warburg, sono la traccia sensibile di una sostanza inconsutile che gli antropologi chiamano mito, e che Calasso con junghiano ottimismo definisce una «grandiosa migrazione degli dèi». La potenza mitopoetica del cinema – tale da eclissare quella della letteratura e delle altre arti visive – consente tale sopravvivenza, tormento ed estasi: «Se tutta la nostra civiltà sparisse nel nulla e soli restassero i film fatti a Hollywood negli anni Trenta o Quaranta, un alieno visitatore del nostro pianeta potrebbe – al di là del l’Arte e del Bello e del Brutto, ovviamente – ricostruire in gran parte il tracciato della mitologia dell’Occidente». In tanti condividono questa stessa impostazione, secondo il quale la potenza magnetica del cinema detto “classico” consiste proprio nell’essere un repertorio chiuso e inalterabile (come quello, poniamo, del melodramma o del romanzo del pari “classico”), che non tollera addendi ulteriori. Personalmente sono meno conservatore, in questo caso più ingenuamente ottimista: un altro aspetto delle Pathosformeln è la cangiante, ovidiana mutevolezza degli Archetipi, i quali non potrebbero sopravvivere nel tempo se non in nome della loro oltraggiosa capacità di rinnovarsi. Il cinema sarà pure morto o moribondo, nella forma in cui lo hanno conosciuto la generazione di Calasso e la mia. Ma la sua forza virale, la sua malia radioattiva, s’irradia e continuerà a irradiarsi altrove.

È comunque davvero il mito la dimensione in cui il tempo, che crediamo di possedere, si rivela come quanto ci possiede: la sostanza stessa «quasi inesistente, indefinibile e inappropriabile» che secondo Calasso fa del cinema il luogo in cui si manifesta il carattere feticistico non solo delle «merci», come voleva Marx, ma «di tutto» (è delizioso che proprio questo sul cinema sia, al di là delle intenzioni, il libro più perversamente marxista di Calasso). Basti pensare al rilievo innaturale, magato e persecutorio – frutto dell’eredità simbolista e surrealista di Hithcock –, che hanno nel suo cinema certi oggetti-vertigine: dal bicchiere di latte del Sospetto alla chiave di Notorius, dall’accendino di Delitto per delitto allo chignon-vortice, appunto, di Vertigo (su questo c’è un bel libro di Antonio Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock, Einaudi 2014). Se è costitutivamente feticistica, la macchina-cinema, non può essere che Hitch il suo profeta: «il sogno più antico e più efferato del mondo in cui viviamo», dice Calasso, «è quello di rendere cosa il fantasma. Ebbene, il cinema permette di avvicinarsi come mai prima, e con temibile immediatezza, a questo sogno».

Per questo, indipendentemente se sia il suo “più bello”, è Vertigo il film di Hithcock nonché, direi, il film in generale. Non solo per i suoi esibiti aspetti metafilmici; ma perché la sua storia, la sua hybris e la sua dannazione, è appunto il sogno antichissimo (come ha mostrato Victor Stoichita nel suo Effetto Pigmalione, il Saggiatore 2006) di chi – l’investigatore traumatizzato Scottie – vuole a tutti i costi plasmare Judy, l’attricetta volgarotta che gli pare replicare le fattezze che lo ossessionano, nel venerato fantasma di Madeleine. Questo simulacro mobile è la «sostanza mentale» del cinema: tela di serici fili lucenti che ci irretiscono e ci ammaliano, «materia pericolosa» le cui ossessioni si trasmettono per via virale (si veda Che cos’è l’immaginario, cioè The Plague of Fantasies, di Slavoj Žižek, il Saggiatore 2016). Questo filtro-filamento Calasso lo chiama, alla maniera medievale, figmentum (il cui «nome psicoanalitico», annota con ostentata sufficienza, è «feticcio»): un simulacro che, prima di essere ri-composto da Scottie (personaggio che è la vittima del contagio, lo spettatore della Rappresentazione) è stato composto dal cattivo demiurgo Elster, l’amico di gioventù che contagia Scottie come nella Recherche fa Elstir, il pittore simbolista che indica al narratore di Proust – proiettandola sullo schermo della sua mente – la sua magnifica ossessione, Albertine: il simulacro di Hithcock non poteva chiamarsi che Madeleine. (Se per caso Calasso vi induce a cliccare nervosamente sulla Treccani, pregevolmente verrete rinviati al IV canto dell’Orlando Furioso: dove esempio del «figmento», dell’artificio del «mago», è proprio quello da coiffeur di trasformare in «pel rosso il giallo»… ma in generale il Castello di Atlante è ovvia prefigurazione del cinema.)

Come videro per primi i ragazzi (allora) dei Cahiers du cinéma, le storie del cattolico inglese Hithcock sono intrise di Colpa e Punizione. Non è un caso allora che Calasso abbia finito per associarlo all’autore del Processo. Colpa specifica del cinema è per lui il culto degli Idoli, condannato dalla tradizione giudeo-cristiana, e la credenza nelle Copie, condannata dalla filosofia platonica. Scottie, e con lui Hitchcock, si macchiano di entrambe le Colpe. Alla fine del film, l’ascesa-hybris – tanto più colpevole in quanto Copia, replica di una già traumatica prima ascesa – alla Torre Campanaria di San Juan Bautista si conclude con l’apparizione terrorizzante di un’ombra: una suora, si rivelerà, che dice solo «Ho sentito delle voci». Dice Calasso che «è l’emissaria funesta della necessità» – una Moira. Ma è anche emblema della Legge che punisce la Colpa (nonché davvero spettrale après-coup dell’ipotesto remoto, ma non illeggibile, del monnezzone di Boileau e Narcejac cui s’ispirò la sceneggiatura di Vertigo: Bruges-la-Morte di Georges Rodenbach, storia di Immagini e di Doppi sulla quale Torri e Suore incombono schiaccianti). La Copia è condannata pure dalla Cristianità, perché la sua «pluralità insopprimibile» è frutto della geminazione del Cattivo Demiurgo: alla lettera il Diavolo, Colui Che Divide. Pare che Hitchcock abbia voluto sottolineare questo aspetto facendo doppiare la voce della Suora, nell’originale, a Kim Novak: cioè colei che impersonava tanto Judy che Madeleine. Fatto sta che, allo scoccare di questo rintocco mortifero del Tempo, insieme a Judy Madeleine Carlotta e Kim precipitano nel vuoto l’Amore, la Speranza, il Destino di Scottie – e di tutti noi.

Ma questo Destino di Morte, com’è ovvio in questo apologo sul Tempo che Rincorre Se Stesso, era già annunciato. Dice Calasso che quel certo romanzo di Kafka era «“schizzato su tutto il cielo” e senza confini come il cielo, ma scritto a partire dal corridoio di una prigione. Fu questa la sua America». Anche l’America di Hitchcock, europeo prigioniero di quell’Aperto, è la San Francisco in cui si aggira sonnambulico il figmentum, la «sostanza mentale»: «musei e cimiteri senza visitatori, un albergo con le serrande abbassate o quasi, ovunque erba ben rasata. Tutto nitido, intatto, lustro. È il mondo di Madeleine: una bolla d’aria alta come il cielo, appena respirabile». Poi, all’avvento di Judy, «la città riprende la sua vita formicolante, accidentale, i locali tornano a riempirsi, i magazzini lavorano». Ma a San Juan Bautista i conti verranno regolati una volta per tutte.
Anche Vertigo, in effetti, annuncia il Male nel suo titolo; e cos’è Scottie se non un Ammalato che si crede Convalescente? Anche a noi – oggi che la Città, con tutte le sue forze, vuol convincersi della Vita che Ritorna – si pone, tormentosa, la domanda di Sigismondo nella Vida es sueño: qual è l’Allucinazione, quale la Realtà?
Roberto Calasso
Allucinazioni americane
Adelphi 2021, pp. 133, € 14
Una versione più breve di questo articolo è uscita il 20 giugno 2021 sul «Sole 24 ore»
In copertina: Bubsy Berkeley, Dames, 1934