«Un altro vivissimo desiderio sarebbe quello di avere con me una macchina fotografica […] Io la desidero molto perché comprendo che è questo, della mia vita, il momento più interessante, per così dire, e mi piacerà averne dei ricordi visibili», scrive Gadda alla madre il 23 giugno 1916: giorno che si potrebbe indicare quale data di inizio dell’esperienza visiva della guerra di Gadda, cui La guerra di Gadda è in larga parte dedicato. Meglio ancora, forse, quella data si potrebbe spostare al 15 luglio dello stesso anno, allorché il sottotenente Carlo Emilio Gadda, in quel momento schierato con il suo reparto sull’Altopiano dei Sette Comuni, scrive alla sorella Clara di avere finalmente ricevuto la tanto agognata macchina fotografica, per poi ribadire tre giorni dopo, stavolta alla madre che gliela aveva acquistata a Milano, «splendido il West-pocket e relativo necéssaire». Si trattava in realtà di una Kodak Vest, apparecchio con il quale scatterà alcune delle foto contenute nella ricca sezione fotografica del volume.
Se volessimo avvalerci della classificazione che dell’esperienza dei poeti italiani nella Grande Guerra ci ha fornito ormai parecchi anni fa Andrea Cortellessa, potremmo rubricare la vicenda di Gadda sia nella guerra-percezione sia nella guerra ricordata. Quest’ultima costituirà infatti uno dei nuclei germinativi della scrittura degli anni successivi – un solo esempio per tutti, Il castello di Udine –, ove il ricordo dell’avventura bellica finirà col legarsi in maniera indissolubile al ricordo di Enrico, il fratello perduto. Quando Gadda scrive «è questo, della mia vita, il momento più interessante», sembra quasi presago di un futuro che non sarà verso di lui particolarmente generoso. Alla guerra-percezione si può ascrivere invece quella prevalenza del visivo – circostanza, lo sappiamo, non comunissima nella vita di trincea, dove letteralmente non si vede nulla e il senso predominante diventa piuttosto l’udito – che si fa avanti proprio nel desiderio di possedere e utilizzare una macchina fotografica, per trarne appunto dei «ricordi visibili».
Perché la guerra di Gadda è soprattutto una guerra “vista”, per lo più da lontano, come attesta forse la lettera più bella dell’intero volume, quella già citata che il futuro scrittore indirizza alla sorella Clara nel luglio 1916, da Treschè Conca (è la stessa missiva nella quale dichiara l’avvenuta consegna del pacco contenente la Kodak). Prima di fornire un’accuratissima descrizione della Val d’Assa, osservata con perizia topografica, Gadda rassicura i familiari: «io sono in un punto bellicamente morto, sui margini della Val d’Assa; le azioni vivacissime dell’Altopiano, a cui allude il Bollettino, si svolgono sulla nostra destra e noi le ammiriamo da lontano». A differenza del fratello, dunque, più che protagonista Carlo Emilio è uno spettatore munito di binocolo e macchina fotografica, un testimone della guerra; testimone partecipe, certo, eppure sempre segnato dal rimpianto per non aver fatto di più, per non recare addosso i segni dell’azione: «te lo dico sinceramente, una ferita che testimoniasse i momenti vissuti, non mi sarebbe affatto dispiaciuta», scrive alla madre Adele il 31 agosto 1917, di ritorno dalla prima linea, sul Dosso Faiti (peraltro quell’azione gli varrà una medaglia di bronzo). Siamo a due mesi dalla disfatta di Caporetto, cioè dal momento in cui verrà catturato e l’eroismo anelato si tramuterà in vergogna, come scrive alla madre da Rastatt, il primo campo di prigionia in cui viene inviato, il 24 gennaio 1918: «qui si chiude la mia milizia e la mia gioventù; questo è il premio concessomi». Gadda si ritrova dunque improvvisamente e definitivamente adulto, mentre il fratello, che tre mesi dopo troverà la morte, resterà eternamente giovane.
La medesima lettera a Clara del 15 luglio 1916 – che di questo libro costituisce in qualche misura il cuore – è interessante anche perché contiene un passaggio che sta a metà tra il grado zero, per così dire, della descrizione “fotografica” e il grado cento dell’enumerazione caotica, in particolare dove si parla della «tana» in cui dorme il sottotenente: «Qui dentro in breve spazio, c’è tanto disordine quanto basta per farmi morire d’itterizia: moschetto, rivoltella, canocchiale, fucile austriaco, caricatori nostri e austriaci, libri, carte, carta, pagnotte sbriciolate, bottiglia del caffè, bottiglia vuota da rimandare indietro, biancheria sporca, cofano, coperte bagnate». La stessa esattezza dello sguardo si ritrova in una lettera di pochi giorni prima, sempre indirizzata a Clara – alla quale, nel tentativo di alleviarle la pena, Gadda si rivolge con un tono più ironico – e addirittura corredata di uno spaccato delle baracche in cui dormono, si fa per dire, gli ufficiali. Vi si legge una scena degna del Gadda successivo, soprattutto nelle notazioni specialmente auditive, stavolta: «In questo spazio ristretto, bagnato, oscuro, afoso, ingombro, intricato, tutti i dialetti, tutti gli accenti d’Italia si mescolano nelle più divertenti imprecazioni contro il tempo, la montagna, il gelo, la neve e i colleghi».
Indubbiamente il carteggio di guerra costituisce un fiume che corre parallelo con l’altro fiume della scrittura bellica gaddiana, il Giornale di guerra e di prigionia, e spesso le loro acque si mescolano, in un processo di «ampliamento e drammatizzazione» che, osserva Arnaldo Liberati, fa talvolta del Giornale il palinsesto delle lettere. A ricostruire la fittissima tela di rimandi con il Giornale e con le opere successive di Gadda contribuiscono le oltre cento pagine di documentatissimo commento a cura di Giulia Fanfani e Alessia Vezzosi, le quali danno peraltro brevemente conto dell’«improbo» lavoro di trascrizione delle carte alluvionate provenienti dal Fondo Bonsanti di Firenze; il resto dei materiali proviene invece dal Fondo Liberati di Villafranca di Verona.
Se, come rileva ancora Liberati, la famiglia Gadda è un «quartetto d’archi» alla ricerca di «una seppur difficile armonia», il ruolo di primo piano spetta ai due fratelli al fronte, Carlo Emilio ed Enrico. Sono loro le due voci più interessanti, senza tuttavia trascurare le altre, soprattutto Adele, che cerca di tenere insieme la famiglia, magari rivolgendo ai due figli parole inclini alla retorica patriottica di stampo risorgimentale. A lei e a Clara spetterà l’ingrato onere di nascondere a Carlo Emilio prigioniero la terribile notizia della morte del fratello minore, cercando invece il più possibile di sostenerlo materialmente con l’invio di numerosi pacchi, in una specie di gara di solidarietà a cui contribuirà la rete di parentele e amicizie dei Gadda (a chi vorrà interessarsene il volume offre delle comode tavole genealogiche).
Della diversità di carattere che divide Enrico e Carlo Emilio si è detto molte volte: niente potrebbe illustrarla meglio di un paio di fotografie scattate a marzo del 1917, a Roma. Nella prima il fratello maggiore, in tenuta da alpino e con il consueto sguardo tra dolente e attonito davanti all’obiettivo, tiene con la mano destra inguantata il minore, che gli sta un passo avanti, nella più brillante divisa da aviatore, ed è appoggiato alla sciabola d’ordinanza. È un gesto ambiguo che da un lato sembra spingere avanti orgogliosamente il cadetto – è un gesto quasi paterno, di chi presenta il proprio figlio al mondo – e dall’altro trattiene lo scapestrato Enrico. Nella seconda foto il carattere dei due viene alla luce ancora meglio: Carlo Emilio è rigido, con le mani lungo i fianchi e la stessa espressione della foto precedente, mentre Enrico, che ha un viso spavaldamente infantile, ha una posa più naturale, non fissa l’obiettivo e rivolge invece uno sguardo quasi sorridente verso il fratello maggiore.
Enrico è spensierato e, come si evince dalle lettere che scrive, dotato a sua volta di una penna carica di verve, Carlo Emilio è il suo contrario. E questa opposizione si riscontra anche nella guerra che si trovano a combattere: Gadda sogna la «guerra verticale», secondo l’espressione di Diego Leoni, e fa di tutto per entrare negli alpini, ma invece delle creste e dei ghiacciai gli tocca la «vita da talpe» delle trincee. E non a caso gli unici momenti di serenità li vive nei rari combattimenti sul fronte di montagna. La sua è, in sostanza, una guerra orizzontale, fatta di continui andirivieni per l’Italia del nord, di insoddisfazione per la propria sorte, «sempre poco lieta nelle cose militari», in particolare per il ritardo nella promozione al grado di tenente. A tale proposito, per tracciare gli spostamenti di Gadda, è di grande utilità la cronologia posta all’inizio del volume e curata da Francesco Cutolo e Giulia Fanfani. Sembra quasi la prefigurazione di quel destino errabondo che contraddistinguerà Gadda, affetto dalla «malattia della deambulazione», nei decenni successivi.
Verticale, e fatale, sarà invece la guerra di Enrico, che deciderà a un certo punto di entrare nell’aviazione, ma vi troverà appunto la morte. Carlo Emilio si assume sovente il compito di fare qualche benevola reprimenda al fratello, un po’ sbadato nelle spese e audace nelle azioni (non a caso si troverà agli arresti per una manovra spericolata con l’aereo). Ma c’è nel carteggio tra i due una lettera per alcuni aspetti struggente, se letta con il senno di poi. È quella che Carlo Emilio indirizza a Enrico il 25 settembre 1917, nella quale si duole di un loro mancato incontro. A gennaio del 1919 saprà di avere mancato l’incontro con quello era ormai diventato un fantasma. E noi lettori sappiamo quanto quel fantasma abbia abitato la scrittura di Gadda da quel momento in poi.

La guerra di Gadda. Lettere e immagini (1915-1919)
a cura di Giulia Fanfani, Arnaldo Liberati, Alessia Vezzoni
Adelphi, 2021, pp. 424 con 96 tavole f.t., € 30
Immagine di copertina: Carlo Emilio Gadda (a destra) col fratello Enrico, 1917 © Archivio di Fondi gaddiani di Arnaldo Liberati, Villafranca di Verona