Il 17 febbraio 2020, quando già in molti paesi si discuteva della necessità di misure per contrastare l’epidemia di Covid-19, Gerhard Richter cominciava una serie di disegni che avrebbe proseguito per tutta la primavera. Nel suo studio di Colonia, immerso nel verde, l’artista di quasi novant’anni ha prodotto una nuova serie di lavori di formato orizzontale che possono ricordare i dipinti dell’artista perché, come quelli, sono opere stratificate. I pastelli a olio, dai colori brillanti, creano un’immagine di fondo e su questo primo strato l’artista disegna alcune linee a matita di grafite. La carta liscia, bianchissima, crea uno spazio neutro per questo gioco tra linea e colore. Come nei dipinti, il lavoro a strati costruisce un luogo di visione che richiede a chi guarda, innanzitutto, tempo. Richiede cioè la creazione di uno spazio del pensiero.
Benché si possa trovare nell’arte fragile del disegno una continuità con il processo di pittura, ci si accorge di un dettaglio che non può essere reso con il pennello: la firma e la data tratteggiate a grafite nell’angolo in basso del foglio, 17.02.2020. Come Jacques Derrida ha suggerito in occasione di una mostra di opere su carta che ha curato nel 1990 al Louvre, disegnare significa far muovere una linea in uno spazio vuoto, come un cieco che cammina senza sapere dove si trova. Disegnare è per Derrida un’operazione paradossale che mette in discussione la possibilità stessa di percepire e ritracciare la propria visione. La traccia del disegno – la linea – è debole rispetto alla scrittura e a tutte le altre forme di rappresentazione. Seguendo questa logica, le date precise che Richter ha messo nell’angolo in basso a destra dei suoi disegni, funzionano come ultimo strato del lavoro che cerca di fissare un momento del lavoro artistico e quindi assicura la visibilità del disegno stesso. Una scritta leggibile permette a Richter di porre fine all’opera e, per differenza, mostrare il disegno astratto in quanto tale.

Questa serie di disegni pandemici è riunita in una mostra organizzata dalla Staatliche Graphische Sammlung di Monaco di Baviera accanto ad altre opere (come recita il titolo: 53 Zeichungen, 3 Graue Spiegel und 1 Kugel). Il gruppo più consistente di opere in mostra sono disegni, ma Richter rifugge la specificità del mezzo e aggiunge altri lavori: la sfera, che per l’artista è legata al concetto di disegno in quanto oggetto perfetto con cui il disegnatore può confrontarsi, e gli specchi grigi, che sono da oltre trent’anni luoghi altrettanto perfetti di riflessione concettuale. Tra i disegni, oltre al gruppo più importante di disegni colorati con i pastelli a olio, un altro gruppo di lavori ad acquerello realizzato sempre del 2020 copre il perimetro delle sale.
Questo secondo gruppo ricorda la serie November degli anni ‘90 che riprendeva a sua volta l’idea di immagini create per caso – un topos dell’arte concettuale degli anni Sessanta (per esempio l’adorato John Cage) ma che ha radici profonde nella teoria dell’arte rinascimentale. Anche qui Richter lavora per fasi. Una macchia nera bagna il foglio di carta spessa; ore dopo, l’artista disegna sulla superficie ormai asciutta, da entrambi i lati. Il foglio diventa un oggetto a tre dimensioni, e l’acqua il mezzo per creare due superfici di lavoro distinte. Linee dritte e precise fendono queste forme organiche, tonde. Forse, con i soli disegni alle pareti, la mostra sarebbe sembrata quasi un invito ad un’osservazione attenta dei fogli. Ma Richter detesta che si riduca il suo lavoro ad una sorta di espressionismo astratto, ed ha cerca di evitare che le opere su carta fossero viste come lavori importanti: “È solo dal 1976 che mi sono concesso di realizzare queste piccole opere. Prima ero convinto che dovessi giustificare sul piano teorico tutto quello che facevo. Questa convinzione non era del tutto corretta, ma ci credevo” (da un’intervista di Anna Tilroe, 1987). La carta, anche usata come palinsesto, non lascia scampo perché è un mezzo superficiale che permette un’analisi diretta del processo di lavoro attraverso l’osservazione.

Richter disegnatore resta quindi un pittore, nel senso che il suo lavoro non trova con la carta la stessa soddisfazione del processo fisico del dipingere, dalla meticolosa preparazione dei colori alla fatica richiesta dalle enormi spatole applicate sulle sue grandi tele. La fotografia, un mezzo che ha utilizzato per la costruzione del suo Atlas, Richter l’ha scoperta nel 1955 quando, in visita a Berlino a 23 anni, vide la mostra The Family of Men curata da Edward Steichen. Da allora la sua pittura figurativa parte dalle fotografie, scattate e sviluppate da Richter stesso o tagliate da giornali e riviste. L’artista ha paragonato il disegno al momento in cui l’immagine latente in fotografia diventa visibile, cosa che spiega in parte la sua resistenza a considerare il disegno come un fine.
La sua pittura astratta parte invece dal colore nel senso materiale, dopo giorni di preparazione. Con i disegni del 2020 siamo in questa zona di ricerca della materia colorata. La prima retrospettiva sui suoi disegni, curata da Dieter Schwarz nel 1999 a Winterthur, rivelava già una ricerca materiale che dalla tela si sposta sulla superficie della carta. La gomma cancella aree sfumate a grafite, la punta di altri strumenti graffia via il fondo come le spatole e le punte del pennello spalmano la pittura e incidono i dipinti. La scoperta del negativo, sulla carta, è una pratica antica di molti artisti che cercavano uno spazio di pensiero, una profondità dell’immagine (i francesi la chiamano réserve). Nel parlare della sua riluttanza ha detto: “Disegnare o dipingere su carta è più istintivo che dipingere su tela. Non richiede altrettanto sforzo, e puoi buttare via facilmente ciò che non ti piace, mentre le tele di grandi dimensioni richiedono più tempo e energie. Pensavo che l’immediatezza dei lavori su carta portasse solo a risultati aleatori e virtuosi. Questo non mi interessava” (intervista con A. Tilroe). In questo senso l’arte di Richter è senza tempo, una sorta di opera universale che si confronta con le istanze sperimentali stratificate nei secoli. Si è parlato per lui di una forma di idealismo concettuale che può ricordare la ricerca del sublime dei romantici. In questo contesto, il disegno non è un mezzo specifico, ma un modo di attivare la dialettica tra opera e sguardo, tra superficie e strumento, tra intenzione e casualità, tra azione e percezione.

Cancellature, sfumature, ripensamenti, astr-azioni, segnano anche l’opera di un collega di Richter, Georg Baselitz. Alla Fondazione Vedova di Venezia e a Palazzo Grimani in questi mesi si possono visitare due mostre con le opere fatte nel 2020 da quest’altro artista della Germania del novecento, il cui lavoro ha incarnato il tentativo di superamento del trauma della Storia. Anche le sue nuove tele, enormi e processuali, sono caratterizzate da colori vivaci e accostamenti gioiosi (alcune tele inedite sono intitolate Speiseeis, “gelato”). Le figure capovolte della moglie dell’artista si stagliano contro un fondo bianco, omogeneo. Sembrerebbe che Richter e Baselitz, due artisti ormai anziani ma ancora decisamente attivi, abbiano vissuto momenti di ottimismo nel 2020, come suggerisce anche lo stesso Richter in un’intervista a Hans Ulrich Obrist. Sembrerebbe che la gloriosa primavera che faceva splendere le giornate del primo lockdown mentre tutti eravamo chiusi in casa sia entrata nel lavoro di entrambi per illuminarlo.
In copertina: Gerhard Richter, 21.2.2020, Grafite e pastelli a olio, 270 x 400 mm © Gerhard Richter 2021 (08022021)