L’invio (rimbalzi)

Pubblichiamo qui di seguito, per gentile concessione delle Éditions du Seuil, un capitolo dell’ultimo libro di Jean-Christophe Bailly, L’imagement (2020), nella traduzione di Matteo Martelli.

L’oggetto si presenta come un sottile albero di metallo alto venticinque centimetri, lungo il quale sono fissate sei pinzette che permettono d’appendere alcune immagini, in particolare cartoline, come se galleggiassero nello spazio. Ricordo di averlo riportato dalla boutique dell’Art Insitute di Chicago più di dieci anni fa, e da allora è appoggiato nello stesso luogo, sopra un tavolino posto di fronte alla finestra che dà sulla strada, davanti alla scrivania dove lavoro. Le cinque o sei cartoline che vi appendo cambiano nel tempo, ma piuttosto lentamente: le immagini si sostituiscono una dopo l’altra, oppure possono restare là per mesi, o anche di più. Non ricordo le immagini che scompaiono poiché queste ritornano semplicemente nella riserva, o nel dimenticatoio: alcune scatole da scarpe in cui conservo le cartoline che riporto sistematicamente dai musei. Le cinque immagini appese in questo momento sul piccolo espositore sono lì da molto tempo. C’è il fregio delle teste di cervi di Lascaux, una foto in bianco e nero di un gatto nero visto frontalmente, una coppia di danzatrici Tang che si inchinano con grazia (la cartolina proviene dal museo Guimet), La coupe bleue di Léon Spilliaert, che proviene da Bruxelles e, infine, una vista dei tetti di Napoli di Thomas Jones acquistata all’Ashmolean Museum di Oxford.

Questo piccolo allestimento d’immagini d’origini così diverse mi incanta, e tanto più forse per il fatto che non corrisponde a un gesto intenzionale (alla base non c’è stato alcun desiderio di creare un montaggio significativo). Si tratta di una pura e semplice giustapposizione. Né i colori, né la provenienza, né la volontà di costruire un contrasto hanno contato nella loro elezione. Potrei certo spiegare la presenza di ognuna di queste immagini: Thomas Jones perché è un grande pittore misconosciuto che mi ossessiona e perché rinvio da anni un lavoro su di lui; il gatto nero perché mi ricorda Toto, la nostra gatta che amiamo tanto; i cervi di Lascaux per l’estrema delicatezza dei loro cinque profili che porta con sé l’intero canto dell’origine dell’arte (e anche, senza dubbio, perché si tratta, come per il gatto anonimo, di animali); la ciotola di Spilliaert perché ha qualcosa di radicale e dolce insieme, somigliando a un oggetto volante non identificato; le statuette Tang, infine, perché provo una reale venerazione per l’intero insieme di quelle statue e le due danzatrici, inchinate su se stesse e insieme distese, sembrano onorare e ringraziare lo spazio della sua esistenza. Per caso, questo insieme disparato copre migliaia d’anni (anche di più con Lascaux) e migliaia di chilometri, dalla valle della Vézère alla Cina antica, poi da Napoli e al Belgio. Noto tra l’altro che questa scelta non implica né violenza né un contenuto narrativo, una historia, e che funziona piuttosto, soprattutto là dove si trova, come un orizzonte contemplativo o una sorta d’onda stazionaria di cui a intervalli discontinui posso verificare il potere d’elongazione.

Mi ha sempre colpito l’effetto di taglio o cesura delle immagini nello scorrere del tempo e cercando di comprenderlo sono sceso non al loro interno, poiché è impossibile, ma in quella che dovremmo chiamare la loro consistenza. È per me una sorpresa che si rinnova continuamente il fatto, provato e verificato, che una superficie senza spessore abbia tuttavia una sua intimità e allo stesso tempo una facoltà di stratificazione e dilazione infinita. Il momento dell’incontro con l’immagine funziona come un innesco che si può descrivere come il punto che risulta dall’incontro, sempre unico, di due percorsi, quello che l’immagine ha compiuto per poter essere incontrata e quello del singolo individuo che l’incontra. Tale punto è un luogo d’intensità, ossia una relazione e un annodamento. Quanto accade allora è comparabile a ciò che ha luogo quando un sasso piatto rimbalza sulla superficie dell’acqua: l’evento a partire dal quale tutto comincia consiste nello sfiorarsi, l’incontro tra un proiettile e una superficie che produce su quest’ultima schizzi e onde che sono la sua emozione. Come possiamo vedere, secondo questa comparazione è l’immagine che diviene un proiettile e il soggetto (lo spettatore) che diventa una superfice, la superficie di un’impressione. Tuttavia, come ha notato Lazzaro Spallanzani, fisico e biologo che interessatosi a questo fenomeno gli dedicò nel 1765 un breve trattato, perché il rimbalzo si realizzi il sasso non deve essere parallelo alla superficie dell’acqua, ma deve colpirla con una leggera inclinazione. È necessario, detto altrimenti, che ci sia un angolo di incidenza. Possiamo allora dire, prolungando il paragone, che anche nell’incontro tra un’immagine e uno spettatore esiste un angolo di incidenza, ogni volta differente, e che dalla determinazione di tale angolo dipende ogni interpretazione, qualunque siano i motivi che quest’ultima intreccia nel suo percorso.

In linea con questa metafora, dove l’immagine è la pietra e il soggetto che osserva la superficie, la domanda che si pone diventa un’altra: come e attraverso chi, da quale riva, la pietra è stata lanciata? In altre parole, è l’insieme del viaggio che deve essere ricostruito dal suo inizio ed è una vertigine di cui ogni immagine può essere l’occasione, per poco che ci si interroghi sulla sua provenienza. Anche se si presenta come un deposito immobile sottratto al corso del tempo, ogni immagine racchiude il racconto della sua provenienza e del suo invio. Ogni immagine è stata lanciata: così, alla visione statica di una semplice imposizione spaziale raccolta come presenza si sostituisce un intero romanzo di formazione a cui l’immagine, partita in viaggio verso se stessa, ci conduce. Tale romanzo, tuttavia, può essere restituito solo nel pensiero. In effetti, la sola esperienza che possiamo avere delle immagini è quella che avviene quando le incontriamo, mentre tutto il resto è immaginario (dovendo essere immaginato). È appunto questo immaginario che chiamiamo storia dell’arte, la quale, così concepita, potrebbe essere descritta come l’insieme delle conoscenze e delle intuizioni attraverso le quali si possono riconoscere e ricostituire gli invii (i lanciatori) oppure, in termini più classici, identificare i percorsi che le immagini hanno seguito, in primo luogo per esistere, e poi per giungere fino a noi.

Grotte di Lascaux

Questi percorsi, che possiamo ricostituire senza mai aver l’impressione di conoscerli per intero, sono estremamente lunghi e si intersecano con molti altri. Seguirne uno solo è un po’ come tentare di estrarre una bacchetta a mikado senza muovere le altre: in realtà tutto trema costantemente. In ogni caso, bisogna partire da molto lontano. Per esempio, per il fregio dei cervi di Lascaux, si deve anzitutto risalire a quanto esisteva prima dell’atto stesso d’immaginamento, e di conseguenza a quel mondo del paleolitico superiore in cui nacquero le immagini infestate da animali. Ciò significa immaginare i cervi in quell’epoca, poi le ragioni per cui gli uomini li abbiano dipinti in tal modo, su quelle pareti (e come si vede subito la problematica è così ampia da oltrepassare le possibilità di una semplice indagine), e poi, lasciando quindi irrisolta la questione della loro ragion d’essere, immaginare la loro strana quiescenza fino a quel giorno di settembre del 1940 quando alcuni ragazzi, seguendo il loro cane che era entrato in un’apertura del suolo, si ritrovarono di fronte al loro mistero. E da quel momento, passando attraverso Georges Bataille e le discussioni attuali, bisogna considerare lo strano capitolo che le grotte di Lascaux hanno aperto nella storia della riproducibilità, con la loro ricostruzione integrale, avvenuta a più riprese.

Thomas Jones, Un muro a Napoli, 1782

Per le altre immagini il percorso sarebbe solo in apparenza più semplice. Per Thomas Jones, per esempio, si potrebbe cominciare da ciò che doveva essere Napoli durante il XVIII secolo e dalle ragioni per cui il pittore, abbandonata una Roma satura d’arrivismo, vi si ritrovò. Ma nessuno sa con certezza cosa accadde quando, nel 1782, sulla sua terrazza, Jones ebbe l’idea di abbandonare tutto l’armamentario del sublime per cominciare a dipingere solo ciò che aveva davanti agli occhi, e le sue stesse Memorie offrono solo indizi pieni di lacune. Inoltre, poiché dopo la sua morte i pochi straordinari oli su carta che realizzò all’epoca rimasero in un baule che non fu riaperto che nel 1953, nella sua casa in Galles, ci troviamo ancora di fronte a una singolare quiescenza. Ancora oggi, anche se il lavoro d’interpretazione ha avuto inizio e queste immagini sono oramai riconosciute, il loro mistero resta intatto. Possiamo forse dire, «Ecco, fu sulla terrazza della piccola casa in affitto nel quartiere Sanità, salendo verso Capodimonde, che Thomas Jones ha lanciato la pietra che ha impiegato quasi due secoli per rimbalzare e che oramai ci spruzza con tutta la sua freschezza», ma siamo comunque obbligati a muoverci fra congetture rispetto alle quali anche un viaggio a Napoli e tre altri in Galles non prestano che fragili puntelli.

Man mano che vado avanti in questo percorso, mi rendo però conto che quanto collega l’immagine dei tetti di Napoli a quella dei cervi di Lascaux, al di là di ogni considerazione storica, di stile o di filiazione, è una sorta di comunanza di destini, il fatto che l’una come l’altra siano legate a un momento inaugurale (l’apertura dell’arte stessa nel caso di Lascaux, quella di una prefigurazione del moderno nel caso di Jones), e che in entrambi i casi questa inaugurazione sia stata sepolta, e quindi ritardata, rendendo ancor più sorprendente il momento del suo ritorno, e la sua ripercussione. Come non ricordare i ritratti del Fayum, quest’altro caso esemplare di inaugurazione, di quiescenza e di fioritura tardiva? Quel che è certo è che tali ritorni e rinascite sono ancor più emozionanti per il fatto che le immagini che ci giungono in tal modo non ci erano destinate (è senza dubbio il caso delle pitture a olio su carta di Jones, che sembra davvero aver dipinte solo per sé – ma chi può saperlo?), e agiscono come una sorta di condensazione dell’incontro estetico. Sono partito da cinque cartoline non solo perché le avevo sotto gli occhi e avevo bisogno di un punto d’appoggio tangibile, ma perché il percorso che comincia grazie a un invio lontano non si conclude nell’opera, bensì prosegue con una serie  di piccoli rimbalzi che possiamo leggere come altrettante scaglie prodotte a partire da un materiale inesauribile: e ciò significa anche che esiste, sì, un piacere della riproducibilità.

Coppia di danzatrici – Dinastia Tang

Ho solamente sfiorato il percorso di due immagini, che avrebbero potuto anche essere lo sguardo di un gatto nero, una tazza in un atelier di Bruxelles, una danza di corte e i riti funerari nella Cina dei Tang… Moltiplicando la vertigine che arriva dal racconto di una sola provenienza, ci si ritrova presto nel mezzo di una immensa e confusa disseminazione dove ogni singola traiettoria si disperde e forma un’inestricabile rete senza bordi, la cui struttura resta indecifrabile. Una tale massa ha qualcosa di spaventoso, d’inappagabile; eppure, ciò che colpisce nei luoghi in cui viene esaminata seriamente, ossia in quanto esistenza e problema, o detto altrimenti nelle biblioteche, è che vi si trova in uno stato di riposo: ed è dalla qualità di tale riposo che dipende la vivacità del risveglio, che in fondo nomina solo ciò a cui Kant mirava inventando lo sfavillio concettuale della finalità senza fine.

Léon Spilliaert, De blauwe teil, 1907 (particolare)

In copertina: Thomas Jones, Case di Napoli, 1782, olio su carta, Londra, National Gallery

Leggi anche: La cesura delle immagini. Una conversazione con Jean-Christophe Bailly

Jean-Christophe Bailly

(Parigi, 1949) insegna all’École nationale supérieure de la Nature et du Paysage di Blois. Poeta, saggista e autore teatrale, ha pubblicato numerose opere, tra le quali "Le versant animal" (2007), "Le dépaysement" (2011) e "La phrase urbaine" (2013), "L'imagement" (2020). Tra i suoi lavori tradotti in italiano, "L’apostrofe muta. Sui ritratti di Fayum" (Quodlibet 1998 et Doppiozero 2015), "L’instante e la sua ombra" (Bruno Mondadori 2010), "Il partito preso degli animali" (Nottetempo 2015) e "La frase urbana" (Bollati Boringhieri 2016).

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