La cesura delle immagini. Conversazione con Jean-Christophe Bailly

Matteo Martelli: Jean-Christophe Bailly, è da qualche mese uscito in Francia, per le Éditions du Seuil, L’imagement, libro che, insieme a L’apostrofe muta. Sui ritratti del Fayum (Quodlibet 1998 e Doppiozero 2015) e a L’istante e la sua ombra (Bruno Mondadori, 2010), compone una sorta di trilogia di lungo periodo che lei ha consacrato a un’interrogazione sull’immagine. Vorrei allora approfittare di questa occasione, e della traduzione per Antinomie di uno dei capitoli iniziali del libro, L’invio (rimbalzi), per attraversare insieme a lei alcuni punti che caratterizzano la sua lettura dell’universo visuale e il ruolo delle immagini nella sua scrittura. Nelle prime pagine del suo libro lei definisce la relazione, non solo odierna, con le immagini, come caratterizzata da una sorta di irrequietudine, anche in ragione di una tradizione filosofica che ne ha spesso sottolineato il regime insolito e irregolare di esistenza. Eppure, mi pare che nella sua riflessione tale ambiguità sia immediatamente scartata, o superata, come emerge in un altro suo libro, Tuiles détachées (2004), in cui lei ripercorre la sua biografia intellettuale. Di fatto, in quel testo lei descrive anzitutto un universo fatto d’immagini e un’attenzione profonda e stupita per questo modo dell’apparire che in maniera naturale, aggiunge, ha in seguito incontrato la filosofia, il discorso, la frase.

Jean-Christophe Bailly: In effetti, per quanto mi riguarda la relazione all’immagine è piuttosto primitiva, brutale, e rimonta di fatto all’infanzia. Come ogni bambino guardavo le immagini per lungo tempo e da allora non ho più smesso, al punto che potrei fare mia la famosa frase di Baudelaire: l’immagine, la mia «primitiva passione». In quel tempo ho costituito anzitutto una sorta di deposito d’immagini, ma ciò che è più importante è la costruzione di un’abitudine che non mi ha mai più lasciato, il bisogno di frequentare le immagini. Per questo motivo, non ho mai compreso la postura di certi pensatori per i quali l’immagine sarebbe falsa in ragione del suo carattere di secondarietà. È evidente che un’immagine è secondaria, l’immagine di qualche cosa, ma spesso è lei che mi arriva per prima e che mi colpisce. In tal senso, prima di qualsiasi posizione ermeneutica, c’è questa sorta di brutalità del rapporto all’immagine che per me è fondamentale.

Nelle attitudini correnti, si vede spesso l’uso di griglie di lettura che preesistono all’incontro stesso con l’immagine e io stesso forse non sono esente da questo tipo di rapporto. Ma, per quanto mi riguarda, direi che come base metodologica cerco di mettermi in una posizione “d’innocenza”, e d’essere anzitutto catturato di fronte a un quadro o una fotografia. Solo successivamente giungono le corrispondenze con altre immagini, con i ricordi, con quella che è un’immensa rete di senso che è prodotta dall’immagine. È necessario però che sia l’immagine stessa a produrla e non che questa si sviluppi da una griglia di lettura preesistente. Certo, si può procedere in altro modo, con altri approcci, e io stesso sono interessato a un approccio storico, ma per cercare di vedere come un’immagine è arrivata fino a noi, in quale spazio e tempo si è formata, da dove proviene.

Evan Roth, Since you were born, 2019 ©Bob Self (da Le Supermarché des images)

Oggigiorno, poi, sappiamo bene che l’immagine è massiva, presente in quantità inaudite che non sono mai state conosciute prima, soprattutto a partire dallo sviluppo dell’immagine digitale. Si potrebbe dire che entro tale flusso il carattere di secondarietà dell’immagine si sia accresciuto, e sempre più spesso facciamo l’esperienza di immagini provvisorie, immagini che non durano, immagini che appaiono e che si sciolgono in questo flusso ininterrotto. È un po’ quanto aveva cercato di circoscrivere la mostra Le supermarché des images, curata da Peter Szendy, al Jeu de Paume di Parigi. Rispetto a questo tsunami di immagini, spesso la risposta comune è dire che sia necessario costruire una barriera e proteggerci. Per me è assurdo. In primo luogo, si tratta appunto di un flusso la cui invadenza è tale solo se lo vogliamo; e in secondo luogo, più importante, all’interno di tale flusso c’è una quantità d’immagini che sono in attesa, per così dire, di essere svegliate. Questo flusso è come un lungo sonno entro cui alcune immagini possono essere risvegliate, ma ciò può essere fatto solo tramite il contatto con una sensibilità che sappia notarle. In questo c’è una cosa a cui tengo molto, ossia il carattere non gerarchico dell’immagine, sia in termini di qualità che di provenienza. Una foto di cattiva qualità, trovata in un giornale, può interpellare colui che la vede in maniera molto più forte che un’immagine davanti alla quale, per così dire, si sia messo un tappeto rosso. Ricordo ancora bene che una volta, ridipingendo il mio appartamento, fui estremamente colpito da una fotografia che si trovava su uno dei giornali che avevo steso a terra per non sporcare il pavimento. Si può certo dire che quell’impressione derivava anche da un certo tipo di sguardo e di attenzione che avevo allora per i collage e per certe esperienze dell’arte moderna, ma ricordo molto bene che la fotografia, stesa al suolo, prese bruscamente un’esistenza molto forte, concreta. Ecco che allora si può essere sorpresi da un’immagine in qualunque momento.

MM: Quando lei parla di carattere non gerarchico mi pare lei tocchi uno dei punti centrali della sua posizione di fronte alle immagini, ossia la sua attenzione al loro modo d’esistenza e di circolazione, a quello che lei definisce un piacere o una felicità delle riproduzioni.

JCB: Sì, il discorso comune è in effetti ancora fondato sul mito dell’autenticità. Ma ci si può chiedere: cos’è una riproduzione? Semplicemente, come direbbe Szendy, è una moneta, un modo di far circolare le immagini. È ovvio che sullo schermo di un computer, su una cartolina e anche in un libro d’arte, l’immagine riprodotta non ha né la stessa qualità né la famosa presenza reale di un quadro. Di fronte a un quadro si avverte però la necessità di vederli tutti, cosa che è impossibile, e quindi penso in primo luogo che il servizio reso dalla riproduzione ecceda lungamente l’inconveniente che può avere in termini di qualità. C’è poi un altro aspetto, per me più importante. Ogni riproduzione per me è autonoma, ossia è una forma d’esistenza. Ad esempio, le immagini che preferisco sono quelle in cartolina e quando visito un museo passo molto tempo nella libreria perché desidero riportare a casa l’immagine di un quadro o di una foto che ho visto (e devo dire che sono spesso deluso dalla scelta delle cartoline in vendita). Quando trovo la cartolina sperata so bene che si tratta di un’immagine di secondo grado, ma al tempo stesso quella cartolina ha una piccola esistenza autonoma come oggetto. Quel piccolo pezzo di cartone leggero è difatti per me assai magico, e quando sono in viaggio e devo passare alcune notti in hotel, metto sul comodino delle cartoline come modo per appropriarmi del luogo. L’immagine ha in tal senso un’esistenza come tale. Ho lavorato a lungo in una casa editrice specializzata in libri d’arte e credo che anche in quest’ambito si avverta la stessa cosa. Il lavoro d’impaginazione di testo e immagini è già come una sorta di allestimento, come nelle sale di un museo, e bisogna tenere conto dell’esistenza fisica dell’immagine in quanto tale, così come sarà nel libro. La riproduzione allora non è qualcosa di inerte, ma una sorta d’accompagnamento che trovo estremamente fruttuoso.

MM: Nella sua riflessione tale presenza dell’immagine, la sua capacità di catturarci, o il suo essere il distinto, come lei dice riprendendo un concetto del suo amico filosofo Jean-Luc Nancy, non può essere separata dall’esperienza che se ne fa, ossia dai modi in cui due singolarità, un’immagine e un soggetto, entrano in contatto. Si tratta di un elemento molto stimolante della sua riflessione, poiché da un lato quell’incontro sensibile, sempre al singolare, si apre verso una pluralità infinita; e d’altro lato, mi pare che il suo interesse vada alla forma stessa di questa apertura. Lei descrive difatti questo momento come un’esperienza specifica in cui il movimento del pensiero e della riflessione si trova di fronte a una sorta di abisso o di solitudine e al tempo stesso come un evento in cui il discorso e il linguaggio possono trovare nuova energia e forma.

JCB: In effetti insisto molto sull’esperienza dell’immagine, ossia sull’incontro che se ne ha. E in questo caso il «si» non è una forma impersonale, ma sempre un «io», un individuo con la sua storia, la sua cultura e la sua ignoranza, con tutto ciò che è e lo costituisce. E poi questo individuo si imbatte in un’immagine, anch’essa con la sua esistenza, la sua singolarità, la sua storia. Solo che l’individuo è mobile, è in divenire, mentre l’immagine normalmente è immobile. Quest’incontro tra due singolarità è come un urto, uno scontro. Cosa accade allora nell’individuo, in colui che è sede di una mobilità costante, di un pensiero che vaga ovunque, che non sta fermo? In generale, dalla sua immobilità, l’immagine provoca un’interruzione, una cesura. Il flusso di pensieri, di fantasticherie, o anche quella cosa fondamentale che è il non pensare a niente, tutto ciò è bruscamente interrotto per qualcosa che non dice nulla, qualcosa che è immobile e non parla. Qualunque cosa si dica, qualunque cosa se ne pensi, per me l’immagine possiede questo doppio statuto: il silenzio e l’immobilità (l’immagine cinematografica certo si muove, ma è un altro discorso, che qui non prendo in considerazione). L’immagine dipinta o la fotografia hanno la funzione di interrompere un flusso. A partire da quel momento, e in quel momento, tra il soggetto dell’incontro e l’immagine presente si forma una soglia, o quanto Walter Benjamin descriveva come un’esperienza di soglia. Tale soglia non è strutturata o organizzata, ma vuota. Poco a poco l’immagine, se le si concede del tempo e dell’attenzione, riempie quel vuoto proponendo dei contenuti, che si possono accettare o rifiutare, inviando quantità di cose. Che si tratti di un dipinto narrativo di epoca classica o di un’istantanea, ci si accorge che una quantità di senso è trattenuto entro quel campo limitato e circoscritto dall’inquadratura. Ma non vi è trattenuto in forma di discorso, bensì in una forma di presenza molto particolare che è propria dell’immagine e non è la stessa per un oggetto, un bicchiere o una bottiglia su un tavolo. Dunque, cosa fare con tutto ciò? Ecco, nominando una bottiglia su un tavolo mi viene subito in mente Morandi. Una natura morta di Morandi è per eccellenza molto silenziosa, assolutamente silenziosa, nonché assolutamente immobile. Si tratta di una versione particolare della natura morta ma che tuttavia è ancora una natura morta (il nome inglese, still life, è per me più adatto). Immediatamente allora tutta una storia della natura morta riemerge con quella bottiglia, con quel tavolo, per poi fare una certa selezione. Si può pensare a una rarefazione di alcuni aspetti di Chardin, ma allo stesso tempo ci si può dire che in realtà il lavoro di Morandi è più vicino a Nicolas de Staël che a qualunque tipo di natura morta olandese. E ancora, ci si irrita, ci si arrabbia: Morandi mi irrita, ho voglia di dirgli, ma perché non sei uscito più spesso (perché ci sono alcuni suoi paesaggi che sono molto belli). Tutti questi pensieri formano una specie di brogliaccio e quando l’occasione si presenta, ciò che mi interessa e mi appassiona è cercare di trasformare quel brogliaccio in scrittura. Perché? Perché quell’esperienza di cesura mette in crisi una certa maniera del discorso, lo relativizza, lo inquieta, insinua che il discorso possa essere falso, che possa sbagliarsi. Allora si è come obbligati a tenersi a una specie di veridicità, ogni volta legata alla maniera con cui il nodo di senso che c’è in un’immagine scuote il linguaggio. Bisogna evitare la trappola di ritrovare l’autorità del discorso e restare invece sulla soglia prima che questa sia nuovamente riempita.

Giorgio Morandi, Natura morta

MM: Vorrei restare ancora un momento sul concetto di cesura o di soglia, spostando però il punto di vista, poiché tale silenzio di fronte al quale ed entro il quale il linguaggio dovrebbe prendere dimora, implica per lei uno slittamento dello sguardo, una diversa maniera di pensare il vedere che richiama un’idea feconda di Merleau-Ponty secondo la quale “ogni visibile è ricavato dal tangibile”. Il suo discorso direi che in parte prolunga quello di Merleau-Ponty, poiché lei fa di questa relazione tattile una sorta di guida del vedere stesso: non soltanto lo sguardo tocca, ma lo sguardo dovrebbe procedere, nel suo indagare e osservare l’esterno, secondo un movimento simile a quello della mano, un movimento in cui ciò che si vede prende forma nel momento, e anche nel tempo, nella durata, del contatto.

JCB: Sì, perché giustamente il senso della vista, lo sguardo, è eccezionalmente efficace. Se chiudo gli occhi, nel momento in cui li riapro vedo tutto, posso identificare tutto ciò che è di fronte al mio campo visivo. Non possiamo dire invece la stessa cosa per gli altri sensi. L’udito forse si avvicina allo sguardo per quanto riguarda l’ampiezza percettiva, ma al tempo stesso la selezione uditiva dei suoni presenti in un ambiente è enorme. Se allungo invece la mia mano, il mio tatto esplora solo un dettaglio del mondo, ma anche se ciò che si sente è solo un frammento la qualità tattile del tatto è incommensurabile, poiché è anzitutto un contatto materiale: tocco la cosa, ho tra le mani quel frammento o dettaglio.

Sono stato portato a riflettere su questa questione quando mio padre ha perso la vista, quando avevo circa dodici anni, e ricordo che ero molto attento a come per lui, come per tutti i ciechi, gli altri sensi divenissero molto più importanti. Fu in quello stesso momento che mi resi conto del carattere immediatamente identificante della vista: lo sguardo identifica subito tutto ciò che entra nella suo campo d’azione. Ma se si è al buio e ci si muove a tastoni tutto cambia, come nel magnifico brano di Cartesio in cui l’uomo cammina nelle tenebre e procede lentamente, con una prudenza estrema a ogni passo. Tale ignoranza, tale inquietudine del toccare nel buio non soltanto penso sia esemplare, ma anche che debba essere assunta a modello per la vista. Bisognerebbe riuscire a liberare lo sguardo dai suoi automatismi e dalle sue certezze. Questo non significa far finta di vedere ogni cosa come se fosse la prima volta né, anche se sarebbe più interessante, come se fosse l’ultima, bensì ridare alla vista e allo sguardo l’infinità del possibile stupore di fronte alle cose.

Javier Téllez, Letter on the Blind for the Use of Those who See, 2008

Nel libro L’imagement racconto l’emozione che ho provato vedendo il film di Javier Téllez, un artista venezuelano che vive a New York, Letter on the Blind for the Use of Those who See, che riprende ovviamente il titolo dallo scritto di Diderot Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono. Nel film, che è girato in un’enorme piscina dismessa, al McCarren Park di Brooklyn, ci sono sei ciechi. In quello spazio vuoto viene introdotto un elefante, un vero elefante e i ciechi, poiché nella maggior parte non vedenti dalla nascita, non ne hanno mai visto uno. Uno a uno si alzano e si avvicinano all’elefante, iniziando a palparlo, a toccarlo, a girarvi intorno. Le loro reazioni sono molto diverse, alcuni hanno timore, altri sentono una specie di entusiasmo. Lo spettatore avverte però che man mano che qualcuno tocca nella sua oscurità l’animale, l’elefante non offre alcune forma compiuta, la sua forma si dilata nello spazio ed è possibile solo coglierne dei frammenti. Tuttavia, in quella precauzione e inquietudine del tatto c’è qualcosa che per me funziona appunto come ciò che dovremmo avere quando si guarda un’immagine, o anche il mondo. Richiede tempo. Direi che è in quel momento che la scrittura prende spazio, come quella stessa precauzione del tatto. Il mio interesse per la descrizione o l’ekphrasis di un quadro risiede in questo.

MM: Mi pare che a quest’idea di precauzione e di visione tattile si possa accostare anche il suo interesse per il tema della traccia e più in generale per la fotografia, che nella sua riflessione giocano un ruolo molto importante, almeno in due direzioni: da un lato, come attenzione al deposito e all’iscrizione materica dell’esterno; dall’altro, riprendendo quanto si diceva in precedenza, come soglia, come partenza in questo caso anche per la sua scrittura. La foto, lei afferma, in fondo non mostra e ridà a vedere che la relazione singolare, l’incontro, tra un passante e una superficie.

JCB: In effetti è per questo che mi interessa tanto la fotografia.

Eric Poitevin, Sans titre, 2014 (detail)

MM: E a tal proposito lei ha spesso parlato di un forte legame della sua scrittura con la fotografia, affermando che la seconda può diventare un modello per la prima proprio in ragione della sua capacità di deposito, di farsi traccia di qualcosa. Mi piacerebbe allora terminare la nostra conversazione sul lato della scrittura, non tanto come scrittura delle immagini, ma come discorso che trova un modello in un tipo d’immagine, quello fotografico.

JCB: È un’idea che mi è venuta lentamente e che si è imposta soprattutto quando ho scritto il libro Le dépaysement. Voyages en France (2011), che altro non è che un tentativo di ekphrasis del territorio che chiamiamo Francia. Alla base c’era un interrogativo, quasi politico: la domanda se quel nome che usiamo, in quel caso Francia (ma poteva essere Italia o altro) avesse un senso, e un questionamento sull’idea di unità, di periferia e sui modi d’essere dei diversi luoghi. Per rispondere a queste domande avevo bisogno di vedere, di andare di persona nei differenti territori e il libro è nato come un’incursione nel paesaggio francese.

Viaggiando per le ricerche del libro mi è venuta l’idea che in fondo quello che stavo facendo non era altro che realizzare fotografie. Certo, a volte scattavo realmente delle foto, le più semplici possibili, con delle macchinette usa e getta, come promemoria. Ma mi dicevo che anche gli appunti che prendevo nei quaderni che avevo sempre con me erano una specie di foto. Cercavo di essere recettivo, ossia sensibile, come una pellicola. Si parla appunto della sensibilità di una foto. È molto curioso tra l’altro notare che la fotografia sia stata inizialmente rifiutata come arte meccanica e che al tempo stesso sia stata caratterizzata per la sensibilità: un’arte meccanica sensibile. E la sensibilità di questa arte, come l’ha sentito fin da subito Fox Talbot, si realizza nella sua attitudine a disegnare il mondo: la magia del fotografico consiste nel carattere integrale di deposizione del mondo. Si tratta certo di una integralità che potremmo dire ancora parziale poiché dipende dell’inquadratura, del bianco e nero, dai filtri, ma al tempo stesso qualcosa del mondo viene fuori, emerge.

Per la scrittura è invece un processo estremamente difficile, e a volte non senza pericoli: nel tempo ho iniziato a subire il fascino per l’appunto in se stesso, e spesso penso che l’annotazione rapida, di getto, senza preoccupazioni d’ordine letterario, sia migliore di quanto poi possa fare in seguito nel momento della riscrittura. Per me c’è dunque questo primo momento di annotazione che accompagna una passeggiata o una visita a un museo. In seguito, quando riscrivo i miei appunti, faccio esattamente ciò che si faceva all’epoca della foto analogica: scrivere è sviluppare la foto. Ed è per questo che è così faticoso scrivere, nel senso di complesso e anche pesante. Non che sia tecnicamente pesante, ma bisogna mettercisi e una volta installati al tavolo da lavoro si sa che sarà lungo e che si sarà soli, in una solitudine chiusa all’esterno. In questa camera, che in una certa maniera è una camera oscura, o chiara, come si preferisce, si sviluppa in effetti quanto si “scattato”, quanto si è visto, compreso quanto si è visto in se stessi.

La scrittura è però un flusso, è un presente perpetuo che scivola via, e quanto si sta scrivendo diventa subito quanto si è scritto. A differenza di un’immagine, un testo non si mostra mai né immediatamente, né nella sua interezza, ma è sempre in procinto di andarsene. Da questo punto di vista la scrittura può invidiare in una certa maniera il carattere d’immobilizzazione e di cristallizzazione dell’immagine. Per questo, credo, la scrittura deve cercare d’essere il più precisa possibile. È un lavoro faticoso ma insieme appassionate, perché vi è alla base un desiderio d’esattezza, il desiderio d’essere integralmente presente e rispondere all’appuntamento che l’immagine, la cosa o tale paesaggio ci ha dato.

Quando parlo della fotografia come modello per la scrittura non mi riferisco quindi a uno stile, quanto a una certa etica. L’idea dovrebbe essere quella di scrivere sempre qualcosa come se si stesse scoprendo il linguaggio. La stessa cosa vale per il teatro. Una delle cose che mi colpiscono quando lavoro per il teatro è legata alla dizione degli attori. Un attore non dovrebbe mai recitare un testo, mai fare finta, ma dovrebbe pensare a ciò che dice. Non pensare di dir bene ciò che è scritto, ma dire ciò che è scritto. Lo spettatore deve avere la sensazione che l’attore stia inventando la sua replica o il suo monologo in quel momento, mentre mi sembra che in tutti noi ci sia qualcosa che recita sempre. Allora, il servizio che mi rende l’immagine è quello di rifiutare questa recita continua, e di impormi il compito di riportare il linguaggio al suo miracolo, perché il linguaggio è miracoloso. Forse, di tutta la filosofia la frase che sento più vicina è quella di Eraclito: il sole è nuovo ogni giorno. Potrei dire la stessa cosa per il linguaggio: il linguaggio è nuovo ogni giorno. Non ho mai compreso coloro che affermano che è tutto sia stato già detto. No, per me tutto è sempre da rifare e da riscoprire, in ogni tempo, e in questo compito infinito, coloro che non parlano, come un’immagine o una fotografia, sono i nostri più fedeli compagni.

In copertina: Ritratto di donna (Maschera funebre applicata a sarcofago, ritratto del Fayum), circa 110-130 d.C, Edinburgh, National Museum of Scotland (particolare)

JEAN-CHRISTOPHE BAILLY (Parigi, 1949) insegna all’École nationale supérieure de la Nature et du Paysage di Blois. Poeta, saggista e autore teatrale, ha pubblicato numerose opere, tra le quali "Le versant animal" (2007), "Le dépaysement" (2011) e "La phrase urbaine" (2013), "L'imagement" (2020). Tra i suoi lavori tradotti in italiano, "L’apostrofe muta. Sui ritratti di Fayum" (Quodlibet 1998 et Doppiozero 2015), "L’instante e la sua ombra" (Bruno Mondadori 2010), "Il partito preso degli animali" (Nottetempo 2015) e "La frase urbana" (Bollati Boringhieri 2016).
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MATTEO MARTELLI insegna all’Università di Strasburgo e si occupa di letteratura contemporanea e di scambi tra scrittura letteraria, arti visive e filosofia. Tra i suoi recenti lavori, "La scrittura dello sguardo", ed. con M. Spunta (Presses Universitaires de Strasbourg 2020) e "L’impensé du regard. Trois études sur Gianni Celati et les arts visuels" (Quodlibet 2019).

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