Fratelli d’Anti-Italia

«Non sopporto i cori russi / la musica finto rock la new wave italiana il free jazz punk inglese. / Neanche la nera africana. / Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente»: è il settembre 1981 quando esce La voce del padrone, il capolavoro di Franco Battiato. Ironico ma anche serio (e destinato a farsi, a posteriori, sin troppo tale: l’immagine del centro di gravità viene dritta dal pensiero esoterico di G.I. Gurdjeff), è il manifesto di un’epoca. Un tempo in cui, al displuvio dopo il dérèglement di Avanguardie e Movimenti, ideali di gravità e permanenza precipitano sino all’immaginario pop. A posteriori ricorderà Giovanni Lindo Ferretti – altro protagonista sin troppo tornato all’ordine (citato in quell’atlante generazionale che è, pure, Pianura di Marco Belpoliti) –: «Vivevamo in un mondo frantumato, senza che vi fosse la possibilità di mantenersi integri: nulla era più integro, né la nostra terra né l’ideologia».

Anche il mondo delle arti high, si capisce, viveva allora «una ritornante, affannata ricerca di un punto di ancoraggio, di un centro di gravità identitario, capace di ricomporre la difficoltà, lo smarrimento»: così ricostruisce il Wendepunkt 1979-1982 Stefano Chiodi in Genius loci. Anatomia di un mito italiano. È tipico dei periodi di crisi, del resto, vagheggiare una impossibile ri-centratura (come nella Verlust der Mitte dell’ex nazista Hans Sedlmayr, che nel ’48 indicava l’origine del male nell’universalismo illuminista e rivoluzionario). Alla fine dell’80, al Palazzo di Città di Acireale va in scena Genius Loci: Achille Bonito Oliva lanciava la parola d’ordine del «ritorno alla pittura», che due anni dopo trionferà alla Biennale di Jean Clair. Il titolo della mostra riprendeva quello di un saggio fortunato di Christian Norberg-Schulz (pubblicato da Electa nel ’79, ma esito di un percorso iniziato, dieci anni prima, su sedi insospettabili come la rivista «Controspazio»): dove il luogo è l’intersezione di geografia, clima e palinsesto culturale che di uno spazio indifferenziato fa un ambiente esistenziale (come l’anno seguente chiarirà meglio di tutti Michel de Certeau), e il genioricostruirà poi Giorgio Agamben – il dio che i latini associavano alla nascita di ciascuno di noi: quello che festeggiamo il giorno genetliaco, appunto.

In termini collettivi, il Genius Loci secondo Chiodi è «un riferimento fisso, un talismano che tiene lontana ogni contaminazione», fissando in un alveo temporale univoco il dato storico e culturale. Questo appunto lo Zeitgeist che si afferma, non solo ma soprattutto in Italia, al tornante fra Settanta e Ottanta: autonarrazione identitaria che rivendica “un” luogo, contro l’«arcipelago di molteplici identità» che non può non essere un’entità collettiva come la cultura di un paese. Chi conosca estri caprioleggianti e astratti furori di Chiodi (e io questa fortuna ce l’ho da un ventennio) capisce d’acchito come con questa sua ricerca – né saggio erudito né pamphlet polemico, ma forma ibrida che spreme il meglio delle due attitudini – sia finalmente riuscito a dare, a quei furori, un nome preciso: lui che, di contro, da sempre valorizza – tanto come critico militante che, come qui, “storiografo espressionista” – esperienze scisse, eccentriche, antinomiche e “strabiche”: anacronismi, nell’accezione di Agamben, ancora, e di Didi-Huberman (proprio nel suo nome ricordo che ci incontrammo: Stefano aveva da poco tradotto, per Bollati Boringhieri, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini), che «si appropriano del “classico” […] in modo virgolettato, autocosciente, codificato in partenza». Questa «mistura di ambivalenza, sottigliezza e ironia» ha un pioniere tutelare, nella prima metà del secolo: ovviamente Giorgio de Chirico (quello intervistato nella casa-museo di Piazza di Spagna da una sbalordita e sedotta Camilla Cederna, in un reportage memorabile che «L’Espresso» del ’62 osò intitolare Il travestito). Chiodi invoca la Seconda inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita – di quel Nietzsche che del Pictor non a caso era phare per eccellenza –: «l’unica possibilità di salvaguardare il passato è metterlo in tensione con il presente, perché la buona filologia non può mai prescindere dalla critica e dalla politica». Il «moderno in fuga dal moderno» di de Chirico è non a caso matrice di tante esperienze con-temporanee, fra loro anche assai diverse (si pensi solo all’antitetica interpretazione di un’opera-chiave come l’Autoritratto nudo da parte di Luigi Ontani e di Giulio Paolini): in «una volontà di depistaggio» che si rapporta alla tradizione come a un «fantasma, una proiezione leggendaria, una definitiva res amissa» (qui alludendo ancora all’Agamben di Categorie italiane).

Contro un filologismo lenticolare e a sua volta “locale”, Chiodi rivendica – ma, ciò che più conta, esemplarmente pratica – una filologia del contesto: che tiene conto cioè di quello che a più riprese chiama, con Jameson, l’«inconscio politico» dei fenomeni. Suo è dunque un atteggiamento – si sarebbe detto una volta – compiutamente storico: il solo in grado di «decifrare una contemporaneità in cui vivono in forma latente, suscettibili di essere riattivati, tutti i potenziali del passato». Viceversa l’«inconscio politico» di una postura identitaria rigida afferma – a volte con un sorriso mesto e stupefatto, più spesso con acre digrignare reazionario – «un bisogno d’identità»: «una richiesta che per il solo fatto di essere avanzata parla, in quanto significante, di un vuoto che non sarebbe possibile altrimenti nominare».

Nel ’79 esce pure, in Francia, La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard; l’anno dopo sempre ABO è il portabandiera della Transavanguardia italiana, il cui “manifesto” esce nell’80 con uno squillante tricolore in copertina (con un’ironia che si farà più esplicita, quattro anni dopo, nella cover di Viaggio in Italia di Luigi Ghirri: una cartina del Belpaese da sussidiario scolastico) che questo bisogno d’identità interpreta con tempismo perfetto, così facendosi brand irresistibile della “via italiana” al postmodernismo (con la quale lo stesso Lyotard, su «alfabeta», non mancherà di polemizzare). Nell’81 al Pompidou l’arcirivale Germano Celant prontamente celebra a sua volta l’Identité italienne, inveendo contro la Transavanguardia «deliberatamente opulenta, decorativa e facilmente comunicabile». Ma anche lui, qualche anno dopo, metterà a profitto il medesimo cortocircuito, rideclinando la “sua” Arte Povera (che nel ’67 aveva lanciato addirittura come «guerriglia») in un «reboot» mirato al mercato d’oltroceano (The Knot, 1985)che disegna quello italiano come «spazio onnicomprensivo […], senza intervalli e scansioni».

È la definitiva consacrazione glocal del brand-Italia. Un’etichetta stereotipata sino all’autoparodia, con l’ironia coatta del postmodernismo, nella sua versione da esportazione viene “svirgolettata” e presa per buona dal mercato globale; con la conseguenza più avvilente per cui quel medesimo feticcio «orientalistico» (per dirla con Edward Said, il cui saggio-chiave è del ’78), una volta soddisfatta abroad la fame perenne di cartoline e mandolini, rimbalza indietro destinandosi al consumo interno: per cui patacche masscult come La grande bellezza di Paolo Sorrentino o le saghe pittoresche di Elena Ferrante possono essere pacificamente, inopinatamente deglutite anche dagli sventurati autoctoni (in «una forma di “orientalismo” introiettato»).   

Le pagine più aspre del saggio di Chiodi, nonché le sue più geniali, sono quelle in cui l’inconscio politico del genius loci moderno viene spettacolarmente riassunto in un grande chiasmo, un’inversione circolare. Le origini di questa «elaborazione automitologica della cultura nazionale» vengono trovate, com’è ovvio, nella grande narrazione nazionalistica romantica e risorgimentale (quella meglio di tutti ricostruita da Alberto Mario Banti), ma altrettanto ovviamente si solidifica – pietrificandosi in emblematica schiacciante – «durante il ventennio fascista». In un celebre discorso, a Perugia nel 1926, il Marpionissimo cerchiobottizza un’arte «tradizionalista e al tempo stesso moderna, che deve guardare al passato e al tempo stesso all’avvenire». Ma nel concreto delle politiche culturali del decennio seguente a prevalere sarà il monumentalismo tradizionalista, nella versione opulenta e trionfalistica di Piacentini o in quella tragica e livida di Sironi: mentre il «modernismo reazionario» dei Terragni e dei Bardi verrà sempre più messo all’angolo. Emblematici i discorsi che in parallelo fanno allora, in Francia e in Spagna, intelligenti critici fascisti o fascistoidi come Waldemar George ed Ernesto Giménez Caballero: quest’ultimo intitolava nel ’32 giusto al Genio de España il remix franchista del concetto di M.me de Staël e Chateaubriand.

Ma il chiasmo paradossale di cui sopra è che nell’ultimo quindicennio, di contro, la difesa del «patrimonio inteso come fondamento identitario unificante, cristallizzato, falsamente immune dall’azione del presente», è stata cavallo di battaglia polemico della sinistra culturale, o almeno di una sinistra istituzionale che in nome di «una visione etica e civile del tutto condivisibile» (a fronte di coeve, spudoratissime pratiche di cementificazione e rapina) «finisce spesso per perpetuare gli stessi stereotipi, la stessa superficiale idealizzazione che si ripromette di combattere». Segnati a dito sono i casi di Salvatore Settis e Tomaso Montanari: in cui «nostalgia, denuncia, insofferenza, malinconia, indignazione si mescolano a una visione dell’Italia costantemente rivolta all’indietro». «Anziché rappresentare un’alternativa all’eterno presente dei media e delle merci, il culto della memoria e del patrimonio», che programmaticamente evita «un vero confronto con le trasformazioni verificatesi nel paese e fuori», ne è in effetti «il prodotto più subdolo e la garanzia ideologica più inattesa».

In effetti l’inconscio politico di un’espressione come patrimonio denuncia da un lato la subalternità psico-storica a modelli patrilinearmente trasmessi, ma anche una visione quantitativa e tesaurizzabile della tradizione: non importa, allora, se da gelosamente difendere dai con-temporanei, come fa la sinistra etica d’oggidì, o viceversa da mettere spregiudicatamente a frutto, sino all’alienazione e all’auspicata “cartolarizzazione”, come i «giacimenti culturali» di cui parlava negli anni Ottanta un personaggio certo riprovevole, ma altrettanto certamente non stupido, come Gianni De Michelis: cioè «un atteggiamento di appropriazione disinibita e non problematica nei confronti della storia dell’arte e più in genere della stessa vicenda storica italiana».

Piuttosto che del patrimonio rappresentato da un passato così impegnativo,varrà la pena interrogarsi, allora, sulla sua eredità: un’«eredità senza testamento», come detto da René Char e ripetuto da Hannah Arendt, è l’unica che si possa davvero ricevere. Convocando un come sempre intelligentissimo Gabriele Guercio, per Chiodi questa eredità si può ricevere solo in forma paradossale, cioè per «sottrazione»: davvero res amissa, «qualcosa che è andato perduto o non è ancora possibile individuare, una lacuna in cui l’artista sa riconoscere una possibilità irrealizzata e tuttavia sempre attiva, un salto impensato tra la presenza e il vuoto, un’eredità potenziale che si sottrae a ogni facile caratterizzazione geografica, culturale o artistica». Artisti di oggi come Elisabetta Benassi, Lara Favaretto, Flavio Favelli, Gian Maria Tosatti o Luca Vitone sono tutti a loro volta abitati – ispirati, direbbe Savinio – dal Sense of the Past; ma nessuno di loro si presenta come fiero depositario di un patrimonio: incarnando viceversa la postura interrogativa, se non proprio sgomenta, con la quale ci rivolgiamo allo spazio-tempo multiverso dal quale oscuramente proveniamo e nel quale infinitamente ritorniamo.

Un titolo emblematico di Ugo Ojetti suonava, emblematicamente nel 1942, In Italia, l’arte ha da essere italiana?. Risponde Chiodi che il destino più problematico, ma anche più autentico dell’arte italiana di oggi, è che non può (più) essere «italiana». Lo diceva l’ex-italiano, il Clandestino, il transfuga perenne da quella che definiva l’«Ytalya» già negli anni Cinquanta antiveduta depredata e colonizzata, Emilio Villa. Solo modo di essere italiani è allora essere «antitaliani»: questo il nostro «unico possibile genius loci».

Stefano Chiodi
Genius loci. Anatomia di un mito italiano
«Elements» Quodlibet, 2021, pp. 139, € 12

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias», il 13 giugno 2021

In copertina: Filippo Brunelleschi, Spedale degli Innocenti, Firenze (da Achille Bonito Oliva, “Genius Loci”, 1980)

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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