In una lettera ad Augusto Guido Bianchi del 15 novembre 1904, Giovanni Pascoli, parlando della poesia Al Dio Termine ancora da ultimare, scrive testualmente di voler “colorire” il testo con “disegni”. Si tratta ovviamente di metafore, laddove i disegni altro non sono che i segni della sua scrittura, ma il riferimento alla lettera, opportunamente citata nel libro di Veronica Pesce, fa capire quanto l’idea pascoliana di poesia sia anche un’idea visiva, e nasca proprio come “figura”.
Forse è proprio a partire da tale nucleo originario “figurativo” che possiamo comprendere meglio le frequenti difficoltà palesate da Pascoli davanti alle realizzazioni artistiche e grafiche dei suoi poemi. Insoddisfazione, irritazione, talvolta una vera e propria insofferenza sono sentimenti che ritornano spesso nel saggio, indici di un malcontento generale che probabilmente nasceva nell’impossibilità di riportare nel disegno il senso profondo di un’opera che era a sua volta nata come un’immagine e della quale la poesia era diventata la forma concreta. E questo ben al di là dei gusti artistici dello scrittore, della sua presunta poca conoscenza delle tendenze più innovative del tempo o addirittura di una sua certa insensibilità in materia; su questo punto Pesce è molto chiara: l’atteggiamento pascoliano e il suo gusto artistico mutano nel tempo, si evolvono, tanto che è possibile rintracciare, attraverso gli illustratori che di volta in volta vennero chiamati a trovare delle appendici figurative adeguate (che di questo si trattava, il più delle volte), una sorta di storia interna della pittura italiana nonché un valido percorso cronologico dell’evoluzione dei rapporti fra le arti. D’altronde era stato lo stesso Pascoli, in una lettera probabilmente dell’aprile-maggio 1911, riprendendo la sua poesia I due vicini, a sottolineare la vicinanza fra l’ortolano (il poeta) e il vasaio (l’artista figurativo), trovandola in particolare nella polemica comune contro la critica.
Per le ragioni sopraccitate l’autrice divide il saggio in due parti: la prima è consacrata agli illustratori dei poemi pascoliani – dalle cui relazioni con il poeta è possibile evincere la parabola del suo gusto visivo –; la seconda, di approccio apparentemente più convenzionale, dedicata invece alle immagini visive delle poesie, prendendo come esempio l’analisi di Myricae. Nella prima parte sono notevoli le ricerche di archivio (in particolare attraverso le missive), che ci mostrano “l’officina” del rapporto fra Pascoli e gli artisti preposti ad illustrarne le opere. Pesce lavora molto anche a partire dalle “esclusioni”, riprendendo il pensiero di Paola Paccagnini, secondo la quale le ragioni che avevano spinto Pascoli a rifiutare un artista avevano la stessa importanza delle collaborazioni effettive, poiché segnavano un preciso percorso di affinamento del gusto, anche per difetto. Emerge a tale proposito la collaborazione sfumata con Vittorio Corcos, autore di un disegno per la poesia Il mendico, con la motivazione ufficiale che “la carta non ne riceveva impressione”. Motivazione che ha tutta l’aria di una scusa per non dispiacere alla moglie, con cui Pascoli intratteneva buone relazioni.
Ugualmente interessante risulta l’atteggiamento del poeta nei confronti degli illustratori poi realmente scelti, come testimonia il caso di Adolfo De Carolis, preposto ad illustrare la copertina dei Poemetti. Al di là del riferimento a d’Annunzio e a una loro presunta rivalità, contenuto in una lettera, Pascoli si dilunga in indicazioni tecniche molto precise e puntuali, limitando di fatto la libertà dell’artista. Il risultato è tuttavia interessante: De Carolis non propone una semplice versione naturalistica tesa a illustrare l’opera pascoliana, ma si avventura in disegni dalla chiara impronta liberty (fiori, frutti e piante all’interno di una composizione perfettamente simmetrica) che trovarono l’apprezzamento del poeta.

Se il gusto liberty di De Carolis appariva al passo con i tempi e con la sua evoluzione artistica, l’atteggiamento di Pascoli nei confronti degli illustratori – quel fare deciso che sembrava toglier loro spazio e libertà creativa – sembra non mutare negli anni, ma rafforzarsi e acquistare vigore. Ne è una prova la corrispondenza con Plinio Nomellini, a proposito di una sua illustrazione per Napoleone, testo incluso nei Poemi del Risorgimento: le indicazioni sono talmente precise – nonché introdotte da una sorta di excusatio non petita – da far pensare a un tecnico o comunque a un esperto dell’illustrazione. Pascoli domanda che venga disegnata la linea infinita dell’orizzonte con lo scoglio in lontananza (e addirittura allega uno schizzo nella lettera), indicando l’impiego del bianco e nero. Se la collaborazione con Nomellini continuerà (l’artista venne coinvolto inizialmente nell’allestimento e nelle decorazioni della cappella funeraria), sarà anche grazie alle capacità di negoziazione dell’artista, che nella sua raffigurazione porrà l’accento sul dinamismo quasi violento dell’acqua, in parte dunque discostandosi da quanto consigliatogli dal poeta.

Come si accennava, la seconda parte è solo apparentemente più convenzionale. L’autrice sceglie infatti di concentrarsi sulla raccolta Myricae per mostrare il grande paradosso del rapporto con il disegno e le illustrazioni dell’opera pascoliana: una poesia in cui l’idea visiva era già talmente preponderante fin dal nucleo iniziale da rendere spesso poco soddisfacenti i seguenti tentativi di raffigurazione. Veronica Pesce si spinge ben oltre una generica ammissione dell’importanza dell’elemento visuale, e in realtà questa seconda parte del volume è quella più eminentemente teorica: dopo la presentazione dei documenti nella prima sezione e l’individuazione di una precisa cronologia evolutiva dei gusti artistici del poeta, le relazioni fra testo e immagine sono analizzate in profondità. Per tale ragione l’autrice presenta alcuni temi e soggetti comuni della poesia pascoliana alla pittura coeva, mostrando come la storia dell’illustrazione in Italia possa essere letta attraverso Pascoli in due modalità diverse: come detto grazie alle collaborazioni (e alle esclusioni) con gli artisti contemporanei, oppure riprendendo le ricorrenze iconografiche interne alle sue poesie.
Conclude il volume un importante inserto iconografico, contenente immagini di copertina, illustrazioni di poemi, schizzi, bozzetti, fotografie di lettere e cartoline e della tomba del poeta, che risulta ad oggi uno degli archivi fotografici più completi per indagare il rapporto fra scrittura e arti visive in Pascoli. Un libro dunque estremamente prezioso e moderno, quello di Veronica Pesce, che si pone come tentativo di approfondire in modo diverso e originale la poesia pascoliana, poiché l’autrice è perfettamente consapevole che “l’idea visiva sta negli occhi e nella mente del poeta ed è fondativa del suo fare artistico, ugualmente alla base della poesia e dell’arte per Pascoli”.

Veronica Pesce
Il vasaio e l’ortolano. Giovanni Pascoli, i suoi illustratori, le arti figurative
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021
pp. 148 ill., € 30
In copertina: Giovanni Pascoli