Il tempo improvviso e il ritmo dei colori

14/06/2021

Il monocromo e la griglia sono le due forme più radicali e archetipiche del modernismo, riscoperte più volte nell’arte del Novecento con intenzioni, contesti e significati molto diversi. Entrambe si portano dietro la sensazione di rinascita «in uno spazio appena svuotato, lo spazio della purezza e della libertà estetica»; una sensazione originata, paradossalmente, proprio dall’ascetica limitatezza, come “una prigione in cui l’artista rinchiuso si sente libero”.[1]

Negli ultimi vent’anni, Sean Shanahan, artista irlandese trapiantato da tempo in Italia, ha vissuto da libero asceta nella prigione del monocromo geometrico grazie alle infinite potenzialità del colore e alle sottili variazioni sui bordi dei suoi pannelli di MDF dipinti a olio. I suoi monocromi sono “miniature d’infinito” che raccolgono nel cavo della mano, di volta in volta, l’infinita semplicità di una delle infinite gradazioni dello spettro cromatico.[2] Se ne era puntualmente accorto Giuseppe Panza di Biumo, il grande collezionista di arte minimalista e monocroma, che già vent’anni fa aveva acquisito molte opere dell’artista irlandese per la sua collezione.

La nuova mostra di Sean Shanahan a villa Panza a Varese – splendido sito che il FAI riapre al pubblico proprio in questa occasione, abbinando la mostra di Shanahan a quella dell’italiana Chiara Dynys – sembrerebbe dunque un reincontro ideale, testimoniato da alcuni dipinti dei primi anni duemila esposti in una sala della villa. In realtà, proprio qui l’artista ha deciso di presentare una svolta significativa nella sua ricerca. La svolta, ospitata nella “scuderia grande”, il più ampio spazio espositivo della villa, potrebbe essere definita come il passaggio dal monocromo alla griglia policroma.[3] Ma il titolo della mostra, Sudden Time, suggerisce un punto di vista imprevisto, che sfugge alle facili categorie del formalismo e fa entrare in scena un elemento a prima vista incongruo per l’arte visiva. Cos’è questo “tempo improvviso”?

La “scuderia grande” di villa Panza con l’installazione Sudden Time di Sean Shanahan

Entrando nella vasta sala a pianta rettangolare – con l’antico pavimento in pietra grigia e il soffitto a volta sagomato dalle cavità lanceolate delle lunette – si avverte subito un’aura vagamente sacrale, la tipica sacralità profana dei luoghi deputati oggi all’arte, ma senza alcuna traccia dell’indifferenza asettica del white box perché l’ambiente è abitato dal colore (abitato, non decorato o riempito).

Già sulla soglia infatti l’occhio è subito catturato dall’arancione intenso che invade tutta la parete di fondo, sulla quale campeggia, in alto al centro, una forma esagonale gialla allungata obliquamente (è Taddeo, un monocromo composto da due trapezi rettangoli che, assieme alla parete, forma Untitled, l’opera in situ che l’autore ha creato per questo luogo). Quella parete ha vagamente l’aspetto di un abside arancione con pala d’altare gialla: luminoso, esuberante ed estroverso.

L’arancione di Sean aveva già abitato una vera abside, in modo molto più dimesso ma altrettanto intenso poeticamente. Nella mostra del 2007 ospitata nella chiesa di Sankt Peter a Colonia era su due monocromi appoggiati a terra, in un angolo della parete di nuda pietra grigia e sovrastati da tre alte finestre gotiche. Con una suggestiva immagine presa in prestito da Walter Benjamin, Giorgio Verzotti, nel suo contributo al catalogo della mostra a Varese, li paragona a quegli angeli del Talmud che non sono né messaggeri, né custodi, né immortali: la loro unica funzione è cantare le lodi di Dio per poi estinguersi; e in questo modo pongono «insieme l’effimero e il permanente», accettando «questo destino di tensione al trascendente mentre si è consapevoli della propria finitezza».[4]

Sulla parete arancione: Taddeo, 2018 (olio su MDF, 200 x 200). A destra: S.T., 2020-21 (olio su MDF, 200 x 326)

Oggi, a villa Panza, quegli effimeri angeli arancione hanno raggiunto la loro apoteosi: si sono fusi e differenziati in una meiosi cromatica, un abbraccio monumentale nel quale il monocromo giallo, posizionato al centro, subito sotto la finestra a lunetta, sembra voler competere con la fonte di luce. La posizione non è casuale, come conferma l’autore nell’intervista contenuta nel catalogo: rende visibile «il paragone tra quello che passa per un colore luminoso e la vera luminosità, che è luce, nient’altro»; e «mette un punto sulla questione della luce della pittura»: «Per me la pittura è offuscare la luce, […] celebrarla offuscandola».[5] L’esatto opposto dell’idea su cui si basava il Ganzfeld di James Turrell, la grande installazione di luce colorata che occupava questo spazio fino l’anno scorso; e in contrasto con l’idea di arte prevalente nella collezione Panza, per il quale, più che per Shanahan, si potrebbe dire che il fascino del monocromo è legato all’idea neoplatonica che il bello è semplice e indiviso come l’Uno a cui tutto aspira. «La bellezza di un colore semplice», scrive Plotino, «gli deriva da una forma che domina l’oscurità della materia e dalla presenza di una luce incorporea che è ragione e idea».[6]

Di luce “incorporea”, per esplicita volontà dell’artista, nella sala c’è solo quella naturale che entra dalla lunetta e dalle finestre laterali, tutte posizionate in alto. L’abside arancione-gialla sembra non interagire con essa, ma emanare un’energia autonoma, più materica che luminosa, che si irradia intorno e crea un proprio mondo di colori-oggetto. È un big bang cromatico il cui nucleo incandescente è un prisma giallo che scompone e rifrange le radiazioni colorate, e le proietta sulle parete laterali creando geometrie cartesiane e bizzarre allo stesso tempo.

Ma la metafora del prisma e della rifrazione non si addice alla densità materica con cui Shanahan tratta i colori. È proprio questa che aveva affascinato, per contrasto, Giuseppe Panza: «Mi attirava la mancanza di riflettività della superficie. Sembrava che la materia assorbisse il colore. […] il colore era dentro, non era in superficie».[7]  Anche i bordi, tagliati e bisellati in modo da esibire il supporto e insidiare la fissità geometrica delle superfici, contribuiscono a conferire ai colori una solidità compatta e tagliente, simile a quella delle pietre preziose, ma senza alcun riflesso di luce.

Torniamo dunque al tempo contenuto nel titolo, che l’autore prende in prestito da una composizione orchestrale del 1993 di George Benjamin, il quale a sua volta si è ispirato a un verso di Wallace Stevens: «A sudden time in a world without time». Qui, il mondo senza tempo potrebbe essere quello del monocromo, e l’irruzione del tempo potrebbe essere l’irruzione di quell’essenza della musica che si può rintracciare nelle radici filosofiche della parola “ritmo”. Il greco rhythmós deriva da rhêin “scorrere”, ed evoca un susseguirsi cadenzato, come quello delle onde del mare e come il modo con cui, fin da Aristotele, pensiamo il tempo: un fluire di istanti che si succedono all’infinito. «Eppure il ritmo – così come ce lo rappresentiamo comunemente – sembra introdurre in quest’eterno flusso una lacerazione e un arresto», osserva Giorgio Agamben. «Così in un’opera musicale, benché essa sia in qualche modo nel tempo, noi percepiamo il ritmo come qualcosa che si sottrae alla fuga incessante degli istanti e appare quasi come la presenza dell’atemporale nel tempo. Così quando ci troviamo di fronte a un’opera d’arte […] avvertiamo nel tempo un arresto, come se fossimo d’improvviso sbalzati in un tempo più originario».[8] Lasciando da parte l’elaborazione heideggeriana che ne fa Agamben, questo arresto in un tempo “atemporale” non è altro, in fondo, che il ritmo come struttura e composizione, quel ritmo che, come ha magistralmente mostrato Paul Klee (più ancora che Kandinsky), rende così illuminanti le contaminazioni tra musica e arte visiva astratta.

Shanahan parla del tempo improvviso di Sudden Time «come un tuono, un’illuminazione», dopo il quale «il riverbero viene spezzettato e frammentato nella memoria». Se è così, allora il tuono non può che essere quell’incandescente parete absidale, col suo grande limone-su-arancio: un accordo in fortissimo suonato da tutta l’orchestra all’entrata della sala in cui spiccano, con tutta la loro esultanza, «le trombe d’oro della solarità» di Montale, e che rimbomba e rimbalza tra le pareti in una sequenza di echi colorati condensati in grandi arazzi polifonici.

L’accordo è squillante ma sbilanciato, come una quarta o una quinta vuota. Le tradizionali regole del bon ton cromatico avrebbero suggerito, come sfondo al monocromo giallo, un colore freddo e profondo nel registro complementare, come un blu o un viola, che avrebbe acceso quel giallo facendolo levitare al centro dell’abside. L’arancio, colore vicino nel cerchio cromatico, crea invece una tensione sospesa, carica di energia. Tuttavia, non appena volgiamo lo sguardo intorno, il bicordo iniziale si smorza in un pianissimo che riverbera come un’eco nella nostra periferia visiva e ci accompagna a intermittenza per tutto il tempo che rimaniamo nella navata.

Siamo dentro una partitura musicale spazializzata: l’abside arancione-gialla è la base armonica da cui derivano quegli arazzi polifonici sulle pareti laterali che sono le più recenti invenzioni di Sean Shanahan.

Sean Shanahan, Nunc, 2021 (olio su MDF, 200 x 326)

Sono tre grandi griglie rettangolari di uguali dimensioni (200 x 326 cm), disposte nella sala in modo da suggerire una successione alternata a partire dall’abside: una a destra, una a sinistra, una ancora a destra. S.T., la griglia a destra più vicina all’emanazione arancione-gialla, riprende quell’ambito cromatico e lo amplia: ribadisce dapprima le due tonalità fondamentali per ottave (un arancio più chiaro e un giallo più scuro), poi con gli armonici vicini (le gradazioni del rosso e del rosa). Nunc, la griglia più lontana dall’abside, mette invece assieme colori più cupi o freddi, perlopiù nell’ambito complementare del blu (la dominante in termini musicali). Le due griglie sono composte da 32 pannelli ordinati in un contrappunto con ritmo quaternario: le quartine di pannelli sono tenute insieme dallo stesso colore e da un’interna simmetria speculare (sia orizzontale che verticale), e sono ordinate in due file di quattro, per un totale di otto quartine. L’effetto visivo – dovuto al tipico lavoro sui bordi di MDF, con bisellature e tagli obliqui – porta a vedere otto monocromi a “X” che ricordano i cromosomi. Questo effetto convive con un  raggruppamento meno evidente a “O”, nel quale tendono ad aggregarsi in quartine quei pannelli le cui bisellature si toccano a formare una specie di incisione lanceolata interna. I due effetti creano una sottile oscillazione tra le unità gestaltiche basate sul colore (monocromatiche) e quelle basata sulla forma (bicromatiche), che ricorda gli incastri poliritmici.

Sean Shanahan, Transit, 2021 (olio su MDF, cm 200 x 326)

Transit, la griglia sulla parete di sinistra, pur mantenendo la stessa geometria e lo stesso numero di pannelli e di colori, non presenta più la struttura a quartine, ma una disposizione libera: privati della forza coagulante del colore, i “cromosomi” si frammentano e il contrappunto regolare lascia il campo a un pulviscolo cromatico quasi weberniano, un reticolo caleidoscopico di colori. Prevale anche qui l’area timbrica fredda della dominante, ma con  qualche inclusione di rosa e rosso che, unito all’effetto cangiante della combinazione libera, rende questa griglia come un punto di mediazione (di transito, appunto) rispetto alle due della parete opposta.

Il tempo che irrompe in scena nella mostra a villa Panza è dunque il “ritmo” come risultato di un lavoro compositivo che è “musicale” ma anche “architettonico” in senso lato, in quanto occupa lo spazio tridimensionale della sala con un sapiente lavoro di allestimento che sconfina nell’installazione.[9] Ma il tempo entra nella svolta compositiva di Sudden Time anche in un altro senso: quello del rapporto dell’artista col tempo di “creazione”. Nel testo in catalogo l’autore ricorre ancora all’analogia con la musica e parla  della differenza tra composizione e improvvisazione, che coinvolgono «due concetti totalmente diversi del tempo»: «io li sto affrontando entrambi in questi lavori, perché ho sempre lavorato come un improvvisatore, che utilizza il tempo reale […] Adesso sto entrando nel mondo della maestria della composizione».

Per un monocromo il pittore decide d’impulso quale forma abbinare a quali colori di base e quindi li mescola fino a trovare la tonalità “giusta”. L’opera è il risultato di questa improvvisazione in tempo reale. Per le grandi griglie di villa Panza c’è invece  una progettazione, uno “spartito” che richiede un lavoro di immaginazione rivolto al futuro, una serie di scelte che implicano previsioni, attese, sorprese. In questo modo il tempo si protende in avanti.

Questo diverso rapporto col tempo coinvolge anche l’opera e la sua fruizione. La maggiore complessità formale, dovuta al tempo di composizione, invita a una fruizione analitico-cognitiva più dilatata nel tempo, che va ad aggiungersi a quella olistico-emotiva, più immediata. Che questa dilatazione del tempo di fruizione si converta anche in una dilatazione nel tempo della memoria non è affatto scontato. Anzi. Gli psicologi ci dicono che è l’emozione ciò che incolla un’esperienza al ricordo. Ma uno spavento, una gioia, un dolore non fanno di per sé un’opera d’arte. Le emozioni artistiche sono diverse perché implicano l’attivazione di attività cognitive più o meno complesse, come spiega Paolo D’Angelo nel suo recente lavoro sulle emozioni nell’arte.[10] E sono diversissime tra loro, probabilmente quanto lo sono le opere e gli spettatori. La diversità delle reazioni è il contributo che ogni spettatore porta all’opera.

In questo senso, è sempre un sudden time quello che uno spettatore sperimenta di fronte a un’opera che non lo lascia indifferente, per quanto astratta e cerebrale: un tempo improvviso con cui egli “improvvisa” la sua alchimia di reazioni e dal quale si riverbererà poi una sequenza di effetti di memoria e di interpretazione.

Sean Shanahan è un pittore cartesiano che lavora con l’elemento forse più anti-cartesiano. Le sue superfici perfettamente delineate, chiare e distinte, esibiscono qualcosa che sfugge alla res cogitans e che solo il corpo può afferrare: il colore. E ora, nelle sue griglie, quell’elemento anticartesiano si manifesta anche negli accostamenti del tutto imprevedibili dei colori e nella sottile vibrazione di indecidibilità che acquistano le forme e i colori dei pannelli accostati. Mi sembra un passo avanti verso quel «paese fertile» di cui parla Pierre Boulez alla fine del suo bel libro su Paul Klee e la musica: «Se invece la struttura spinge l’immaginazione a entrare in una nuova poetica, ci troviamo allora nel paese fertile».[11]

Paul Klee, Monumento al paese fertile, 1929

Sudden Time: Chiara Dynys-Sean Shanahan
A cura di Anna Bernardini e Giorgio Verzotti
Villa Panza, Varese
fino al 5 settembre 2021


[1] Rosalind  Krauss,  The Originality of Avant-Garde and Other Modernist Myths, Mit Press, 1986.

[2] Rimando al mio pezzo su Doppiozero.

[3] Già nella mostra al museo di Lissone nel 2020, con l’opera intitolata Us, Sean Shanahan aveva sperimentato la disposizione a “polittico” dei suoi monocromi, ma limitandola a un occasionale incontro di identità singolari, come suggeriva il titolo di quella mostra: Singular Episodic.

[4] Giorgio Verzotti, “Sean Shanahan”, in Sean Shanahan. Sudden Time, Magonza-FAI, 2021.

[5] In “Offuscare la luce”, intervista di Anna Bernardini, in Sean Shanahan. Sudden Time, op. cit.

[6] Cit. in Remo Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, 1995,  p. 52.

[7] Giuseppe Panza di Biumo, Ricordi di un collezionista, Jaka Book, Milano, 2006.

[8] Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, 1994 (ed. or. Rizzoli, 1970),  p. 150-1.

[9] Questa attenzione agli allestimenti/installazioni si ritrova, oltre che nella casa di Shanahan in Brianza, in tutte le mostre importanti dell’artista, e si potrebbe accostare, rimanendo nell’ambito del modernismo, a precedenti interessanti come le stanze astratte di El Lisickij negli anni venti e trenta.

[10] Paolo D’Angelo, La tirannia delle emozioni, Il Mulino, 2020.

[11] Pierre Boulez, Il paese fertile. Paul Klee e la musica, Leonardo, 1990, p. 173.

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