Tano D’Amico è il fotografo italiano che ha più di ogni altro legato il suo nome alla stagione dei movimenti giovanili e di opposizione degli anni Settanta del secolo passato. Il suo approccio è però diverso rispetto alla illustre tradizione novecentesca del reportage. Non è infatti solo un testimone coraggioso che registra infallibilmente gli eventi; non resta all’esterno, è parte in causa, è un simpatizzante, un militante. È il fotografo di Potere Operaio e di Lotta Continua, uno dei pochi a fare fotografie dal punto di vista di chi sfila nei cortei, di chi occupa le scuole, le facoltà, le case sfitte. È l’inviato speciale del Movimento, colui che deve fissarne l’immagine, sfidando gli stereotipi negativi diffusi dai media borghesi e dalla stessa stampa progressista. Con un’intuizione preveggente, sin dal 1968 la sinistra extraparlamentare comprende infatti di dover esercitare il controllo sulle immagini destinate a rappresentare – in primo luogo ai suoi stessi militanti – i momenti della lotta politica e le identità che la animano. Tano D’Amico sarà la superficie sensibile su cui questa realtà rimarrà catturata, il cronista di un’epoca di cambiamenti tumultuosi, di entusiasmo e di eccesso.
C’è sempre nelle fotografie di Tano D’Amico un’identificazione con i suoi soggetti, prima ancora che politica, sentimentale e affettiva. È la manifestazione figurativa di una prossimità politica e soprattutto umana. Ciò che interessa al fotografo è rendere visibili i legami, le “situazioni” emotive, dandone una versione complice e senza dubbio idealizzata: il suo scopo non è solo documentare ma suscitare un sentimento di adesione istintiva. Nelle sue immagini il singolo non si perde mai nella massa, non ne viene riassorbito, ma rafforza anzi la sua unicità, il suo tesoro interiore. È il sogno di quell’accordo armonico tra uno e molti che tutte le utopie di liberazione hanno cercato di proteggere, senza riuscirvi, dall’attrito con la violenza, con la fisica tragica del potere, col fondo metallico e indifferente della Storia. Ed è anche un modo per mostrare come la vecchia idea leninista del primato collettivo si ibridi nel ’77 con il gusto dada e situazionista per la festa permanente, per l’happening che abolisce gli spazi privati e rovescia tutto nella dimensione in un dispendio di energie apparentemente inesauribili.
Nel suo libro fotografico appena uscito, Misericordia e tradimento. Fotografia, bellezza, verità, Tano D’Amico non smentisce la sua antica vocazione. Vi tornano sin dal titolo parole che non è frequente leggere oggi – tradimento, verità, misericordia, bellezza – insieme a espressioni e idee allora familiari ma che oggi ci colpiscono come strani fossili. I brevi testi che accompagnano le fotografie, scattate in massima parte nel corso degli anni Settanta, hanno tutti un tono ormai retrospettivo ma non rassegnato, non appagato. Vi circola ancora quella intensa fiducia umanistica nella memoria, nella giustizia, nella verità, che traspare anche nella nostra conversazione. Sono i vinti, i più deboli, i perdenti, e non i carnefici, non chi esercita il potere, i protagonisti della Storia, dice D’Amico, ed è affidato al potere redimente della bellezza il compito di preservarne la memoria e l’esempio
Con Andrea Cortellessa abbiamo realizzato questa conversazione per lo Speciale pubblicato in occasione del trentennale del ’77 dalla rivista «Il Caffè illustrato» (n. 34, gennaio-febbraio 2007). Erano gli anni in cui si cominciava a guardare alle fotografie di quella stagione con occhi ormai consapevolmente storici, come testimoniano tra gli altri il libro di Marco Belpoliti La foto di Moro (Nottetempo, 2008), o più avanti e in modi diversi i volumi, tutti pubblicati da DeriveApprodi, Storia di una foto (2011), Le polaroid di Moro (2012) e quello dedicato proprio ad alcune delle fotografie più famose di D’Amico, Daddo e Paolo (2012).
A quattordici anni di distanza da quell’incontro e certo da un punto di vista ancor più distaccato, più critico, più pessimista, la fiducia di D’Amico ci appare quasi incomprensibile, tali e tanto profonde sono state le trasformazioni nel costume, nella sensibilità, nella cultura collettiva e nella stessa fotografia, entrata ormai in un nuovo regime di condivisione immateriale. Oggi le immagini dei cortei non le scattano più i fotografi, e neppure i fotografi militanti, ma gli stessi manifestanti con i loro telefoni portatili, capaci, come ben sappiamo, di documentare gli eventi in diretta per la moltitudine della rete.
La bellezza, l’esemplarità redentrice della fotografia appare un miraggio lontano nell’era della manipolazione permanente e del deep fake. E tuttavia la volontà che guida le sue immagini – mostrare l’innocenza – rimane ancora oggi perfettamente decifrabile. Le fotografie di D’Amico, con la loro francescana attenzione per gli umili, la loro temperatura emotiva e formale inconfondibilmente italiana (Rossellini e Pasolini i riferimenti su tutti), la mostrano invece come una sorta di apparizione, di lampo che per un attimo sembra avere il potere di annullare le ombre, di rimuovere gli errori, la cecità, il velleitarismo e l’inconcludenza di tutta un’epoca. L’innocenza di un’eterna adolescenza mostrata come pura intatta potenzialità, ancora densa di promesse non realizzate. Fotografie che raccontano un’esaltazione collettiva e un’illusione: furono offerte come uno specchio ai ragazzi del ’77 che vi riconobbero immediatamente la propria immagine, il riflesso dei propri sogni, senza percepirvi però il buio che vi stagnava, le consolazioni che esse fornivano con sospetta generosità.
Per noi oggi, spogliate del loro involucro retorico, forse però non rappresentano soltanto i documenti di un’epoca morta, di uno spiacevole e spesso tragico grumo di fallimenti. Sono anche la prova visiva di un futuro rimasto irrealizzato, qualcosa che in modo imperfetto toccò nell’Italia di allora e a maggior ragione tocca anche adesso il nodo della nostra relazione con l’eredità e l’identità collettiva, che sfidò il cinismo e il pessimismo della ragione politica, che immaginò una diversa forma di vita, oltre quella della reificazione istantanea e del godimento compulsivo che si sarebbe imposta nei decenni seguenti. Un’aspirazione che riesce difficile oggi ritrovare se non in immagine, assediati come siamo dallo spettacolare trionfo di un’individualità all’apice del suo momento narcisista, indiscutibile quanto del tutto irrilevante.
S.C., 6 giugno 2021
STEFANO CHIODI: Come e quando comincia la tua attività di fotografo?
TANO D’AMICO: A un certo punto le cose hanno cominciato a farsi urgenti. Si diceva: non ci sono immagini che rappresentino dall’interno la nostra vita, la dignità nostra e dei nostri fratelli.
ANDREA CORTELLESSA: Rappresentare i movimenti dall’interno invece che dall’esterno è una differenza formale o di quale tipo?
TDA: Difficile rispondere. Mi sono sempre chiesto: quest’immagine quaglia o no? Chiaramente c’entra la forma, per esempio le foto di Stieglitz sulle nuvole, certe foto di Weston. Una bella fotografia è quella che mi fa provare una sensazione che non avrei mai avuto, che risponde a una mia domanda. Anche se non è la foto a rispondere, è la realtà che risponde. Per far entrare le immagini nei cuori, comunque, esiste un linguaggio. Io sono amico dei saltimbanchi, e so che i migliori vanno a Madrid, a Barcellona, nelle scuole, fanno stage, si aggiornano. Per camminare sulla corda, per fare il cattivo, per far ridere i bambini occorrono determinati mezzi tecnici.
SC: Torniamo ai tuoi inizi.
TDA: A un certo punto Potere Operaio si rivolge a un grafico geniale, Maoloni, che lavora al «Messaggero». È lui a fare il mio nome. È il dicembre del 1969. Mi mandano in tribunale, a Roma, per Valpreda. Poi cominciarono a mandarmi fuori, mi dicevano: «non ti possiamo dare molti soldi, ma ovunque ti troverai avrai un letto, da mangiare e delle persone che ti guideranno». E andava proprio così.
SC: Per esempio le foto famose a San Basilio, a Roma, nel 1974. Andavi dove sentivi che poteva succedere qualcosa o prendevi parte alle manifestazioni, alle assemblee che documentavi con le tue fotografie?
TDA: Se ho un rimpianto è che agli inizi potevo seguire gli avvenimenti dall’inizio alla fine, mentre non ho più potuto farlo da quando ho cominciato a fotografare con regolarità. C’era fame di immagini nuove. Di soldi non si parlava mai. Ricordo le occupazioni al Prenestino. Era venuta polizia da mezza Italia. Sgombravano, poi se ne andavano. Così le donne si ficcavano di nuovo dentro; poi tornava la polizia e ogni volta che riprendeva le case, per non far rientrare gli occupanti, rompeva tutto: i rubi del gas, la luce, le porte, le finestre. Alla fine gli occupanti mi offrono un caffè, dico “no, un’altra volta”, insistono. Poi arriva una signora anziana con le mani tremanti, una tazzina e un tovagliolo, e sotto c’erano dei soldi. Quella volta ho dovuto prenderli, mi sono vergognato molto.
SC: Quando scatti ti lasci guidare dal caso o aspetti l’”istante decisivo”?
TDA: Non c’è niente di più cercato…
AC: Cosa intendi per “cercato”?
TDA: Cercare una foto vuol dire cercarla dentro di te. Poi “trovi” le persone con la faccia giusta, nella situazione giusta. È come in palcoscenico, vedi la possibilità che si formi un’immagine. La stessa cosa è capitata ai più grandi, Eugene Smith per esempio, per rutta la vita cerca la foto che trova solo alla fine. È una grazia divina: la madre che lava la bambina resa deforme dal mercurio, a Miyamata: una pietà del nostro tempo, nella tinozza di legno.
SC: Le foto le sviluppavi e stampavi da solo oppure utilizzavi un tecnico?
TDA: All’inizio stampavo io. Poi ho conosciuto delle persone che mi hanno aperto i loro laboratori. Anzi, alcune tra le mie immagini più famose le ha scelte lo stampatore, io non le avrei mai prese… per esempio la ragazza col fazzoletto. Per me era un’immagine troppo facile, mignottesca dicevo io. Non perché lo sia la ragazza, è la foto che è troppo facile. Cerca la partecipazione in un modo…
SC: Ruffiano?
TDA: Ero fatto così. Lo stampatore diceva «Tano, sembra che lavori con la riga e con la squadra»… nel senso che cercavo un rigore. Anche le foto al Parco Lambro mi sembravano troppo accattivanti, sembravano dire sono bravi ragazzi in fondo. Io invece volevo dire un’altra cosa. Per me erano il sale della terra: avevano l’unica bellezza, l’unica ricchezza degne di questo nome.

AC: Dove l’hai ripresa, la ragazza col fazzoletto?
TDA: È un episodio marginalissimo. Ci fu un convegno del Movimento per la Vita al Palaeur, a Roma, e un gruppetto di femministe andò a contestare. Cinquecento carabinieri fronteggiavano una cinquantina di ragazze. Io ero su un tetto. Nessuno si fece male.
AC: Ma cosa sta facendo la ragazza?
TDA: Cerca di tenere a bada il carabiniere, lo ferma… Paul Ginsborg ha scritto un saggio sulle immagini dal ’45 in poi; a proposito della bellezza femminile fa vedere Silvana Mangano, Sophia Loren, fino a Monica Bellucci. Per lui più bella è questa ragazza del movimento. Dice: è più nuda della Bellucci perché si racconta, mentre la Bellucci è come se fosse vestita. Non racconta.
AC: Questa è un’altra foto che mi ha colpito molto.
TDA: Si vede ancora oggi, su internet, l’ho trovata nel blog di una ragazza di ventun anni.
AC: Non ricordo più dove l’ho letto, ma un momento dopo questo scatto c’è stata una situazione molto violenta. È come se questi due ragazzi stessero mettendo in scena un momento di serenità e di affettività completamente incongruo, nella drammaturgia dello scontro.

SC: Questa una caratteristica che ho notato spesso nelle tue foto: sul fondo si vede ad esempio un cordone di carabinieri, il gas, ma in primo piano c’è una specie di bozzolo, un’isola di vita che prosegue nonostante o in contrasto col resto. È un po’ la tua firma. Me la ricordo, questa sensazione di silenzio prima della battaglia… mi viene sempre in mente che durante le manifestazioni non si sentiva il rumore delle automobili. Sei l’unico ad aver rappresentato questo spazio sospeso.
TDA: Sì, è una situazione che mi piace molto. Una volta, nella Napoli terremotata, c’era una donna anziana all’esterno, nel freddo, fra i palazzi pericolanti. E c’era un bambino che cercava in giro dei cartoni per tenere acceso un focherello. Ho pensato: valeva il viaggio, questo bambino che cerca i cartoni. Una funzione delle immagini è proprio quella di mostrare che ci può essere un bozzolo di pace, di condivisione, di pietà. Anche in luoghi dove sembrerebbe difficile trovarla.
AC: Hai mai visto un film di Terrence Malick?
TDA: No, no, sono rimasto a John Ford, ai film muti!
AC: Lui è uno degli anni Settanta…
SC: Arriviamo al ’77. Era cambiato il tuo atteggiamento, nel frattempo?
TDA: S’era rafforzato. Una cosa che ho sempre voluto è essere amato.
SC: Come artista?
TDA: Come uomo. Ci sono stati anche momenti duri, mi dicevano “Tano, stai attento, oggi non è cosa di bottiglie, oggi sono pallottole in pancia”, eppure non mi è mai successo niente. Credo che questa mia diversità fosse percepita. Nessuno ha mai fatto brutta figura a causa di una mia foto. Non ho mai reso nessuno un mostro.
SC: E dall’esterno del movimento ti hanno mai attaccato?
TDA: Politicamente, umanamente, anche legalmente. Nel 1981 ero in grande difficoltà. Era finito il mio mondo, i miei giornali avevano chiuso, il mio modo di vedere doveva sparire. Ernesto Galli della Loggia, su «Prima Comunicazione», mi definì «bugiardo e omertoso». Venivo accusato di non mostrare quelli del movimento come belve assetate di sangue, ero bugiardo perché li angelicavo. In realtà quello che facevo era raccontare i fatti senza incolpare, senza puntare il dito contro nessuno. Per esempio, la sequenza di Paolo e Daddo con le pistole l’ho tirata fuori solo vent’anni dopo.
AC: Venivi accusato di dare una visione idilliaca dei fatti…
TDA: Umana. Con le mie foto ho sempre voluto restituire dignità, umanità, bellezza a chi ne era stato derubato.
AC: Mi viene in mente Simone Weil quando dice che persino nell’universo barbarico dell’Iliade c’è un momento femminile, di ripiegamento. È quello che tu definisci il bozzolo, la capsula, la cellula di miele: al cui interno è assente tutto quello che ruggisce fuori.
TDA: Penso a Giovanni Bellini, alla sua Maddalena… in quelle persone sento di avere cercato la bellezza come Bellini la cercava nelle condanne a morte, nelle pietà. Anche l’insistenza a dividere l’“ala creativa” dai “violenti”… non sarebbe stata possibile un’ala senza l’altra. Senza i cattivi autonomi, per esempio, i gay non avrebbero mai preso la parola. Una volta Piperno per gioco mi chiama “vecchia checca”, i ragazzi mi difendono, ma non era un insulto… era successo che, per farli parlare, ci eravamo messi assieme a loro.
AC: L’equivoco della “checca”, però, in un certo senso coglie proprio quest’aspetto della tua sensibilità, quella che non a caso chiami la tua “differenza”.
TDA: Infatti le mie foto per molto tempo non sono uscite su “Lotta Continua”. Allora si provava gusto a fare il gesto della P38, senza capire che così ci si preparava la fossa. Volevano lo scontro, dovevano rappresentarsi come orribili.
AC: O, dal loro punto di vista, forti.
SC: Però poi nel ’77 “Lotta Continua” pubblica lo speciale Non ci conoscete. Sono sessantaquattro pagine di fotografie, tutte tue. Nelle piazze si vende a 1500 lire, va a ruba…
AC: Dici che non bisogna distinguere i creativi dai violenti, però in effetti le tue foto rappresentano solo uno di questi aspetti. Anche se c’è una dialettica…
TDA: Perché proprio il “forte” ha degli aspetti che sono del “gay’’, del debole, della donna, del bambino. Si commuove. In carcere l’assassino fascista Concutelli continua a dirmi quanto mi vuole bene, quanto mi ama… alla fine dice “fai delle foto che mi ricordano mia madre”.
SC: Quest’idea contraddice la vulgata del ’77, secondo la quale a un certo punto l’ala violenta schiaccia quella creativa. Per te invece non c’è mai stato questo scisma.
TDA: Lo si è visto negli appuntamenti chiave, come quello con Lama. Si era tutti quanti insieme. Anzi furono proprio gli indiani coi loro sfottò ad attaccar briga. Il servizio d’ordine del PCI si avventò su di loro con gli estintori, li massacravano, ci fu una mischia pazzesca… Ci fu anche chi disertò, uno del PCI si mise con noi, poi processato ed espulso dal partito. Ma non è che gli autonomi venissero da certe famiglie e quelli del PCI da altre: erano fratelli. In una mia foto si vede un ragazzo per terra, tutti si azzuffano attorno a lui, e un signore anziano con l’Unità in tasca che tenta di togliere dalla mischia un altro giovane, suo figlio forse.
SC: Al convegno di Bologna, però, questa divisione era nei fatti: l’ala militare impose una linea al movimento causandone così la dispersione, forse l’estinzione.
TDA: Secondo me è un effetto, non è una causa. Se in un movimento c’è un gruppo di persone che vuole imporre il suo modo di vedere, è segno che quel movimento è stanco. Comunque per me Bologna fu un successo, solo dopo ho visto che per altri era stata una catastrofe. Non scorse nessun sangue, le persone vivevano assieme…
SC: Non avevi la sensazione che fosse un atto finale, l’inizio del tramonto?
TDA: Non lo so. Quando vedi una bella scena… per me quella è una grande cosa.
AC: Vuoi dire un valore assoluto?
TDA: Sì. Un bel volto, un gesto.
AC: Secondo me vanno distinti, nel rileggere la storia del ’77 e in particolare quella delle tue immagini, due diversi modi di guardare. Una è l’ottica storica: secondo la quale, dopo il convegno, il movimento in effetti non c’è più. Poi però c’è un’altra ottica, per la quale ogni momento va valutato eticamente, affettivamente, intellettualmente per il valore che ha in quel momento. Non a posteriori. Vanno distinte, queste due ottiche, ma anche tenute insieme.
TDA: È un po’ come parlare dopo degli errori o degli orrori della Comune di Parigi… Certo che dovevano stare un po’ più accorti, anche perché poi li hanno sterminati. Ma quello resta un assoluto della storia. Così la Spagna del ’36. È qualcosa che resterà nella memoria per sempre.
AC: Quest’idea di sospensione della storia è stata letta come figura di un orizzonte trascendente. Walter Benjamin faceva proprio l’esempio della Comune di Parigi, quando si sparava agli orologi sulle torri. Quel tipo di sospensione produce quello che lui definisce un tempo messianico. Negli ultimi anni Giorgio Agamben ha scritto dei saggi proprio sulla dialettica della fotografia: da un lato documento di una cosa avvenuta, dall’altro certe immagini si configurano, dice lui, come gesti. Qualcosa che si può interpretare in tanti modi diversi, ma in cui resta una pienezza. Quello che tu chiami l’assoluto, l’istante che sospende la storia: il gesto è nella vita dell’uomo quello che la fotografia riuscita è nella vita delle immagini. Si può guardare da diversi punti di vista, per esempio da diverse prospettive temporali: quella del presente, quella del passato di quello specifico momento, quella del passato che avremmo voluto che fosse stato, che non è stato, ma che mentalmente e affettivamente c’è, eccome.
TDA: Per me non ha senso la domanda: chi vince, chi perde? Vince chi resta nella memoria, perché dobbiamo morire tutti. Le persone, i ritratti, il modo in cui Nadar mette in scena la Comune, la nostalgia che poi ebbero tutti per quel tempo… È un fascino che non riesce a negare neppure chi la Comune la abbatte, chi le vorrebbe abbattere tutte, le comuni.
AC: L’idea di molti scrittori e artisti del tempo è che dopo tanti discorsi astratti, alla fine, nel movimento prevalse una rivendicazione del sentimento anche in chiave conoscitiva. Ora è facile parlare di sentimentalismo, però…
TDA: Per questo li amavo. Quello che vedevo era l’incarnazione di questa cosa.
SC: Il ’77 però è stato anche la fine dell’adolescenza. Il risveglio ci fu nel marzo del ’78, col sequestro Moro. L’adolescenza così come si vede nelle tue immagini – quel misto d’innocenza, di goffaggine, di orgoglio, di follia, di incoscienza – dopo non c’è stata più. Oggi ci appare come la giovinezza dei personaggi dell’Educazione sentimentale di Flaubert…
TDA: Però, far discendere il rapimento Moro dal ’77…
SC: No, certo, non lo faccio discendere. Dico solo che quell’avvenimento ha posto fine all’adolescenza di tutti, o almeno a una certa idea di adolescenza.
AC: Tornando alle foto. In merito a colore o al bianco e nero, hai fatto una scelta molto netta.
TDA: La spiego con le parole di Mario Luzi. Un giorno gli hanno portato le prove del “Corriere della Sera” a colori, lui le ha guardate e ha commentato: “il colore disgrega la realtà”. Il colore è un linguaggio, una realtà a sé. Un film mi fece molto pensare, non avevo nemmeno vent’anni: Deserto rosso di Antonioni. Lui ringrazia la Ducotone: aveva ridipinto tutto, i fusti di benzina, le navi, gli alberi…
SC: Questo però nel reportage non si può fare.
AC: Forse c’è anche un altro motivo. Quando pensi a come verrà un’immagine in bianco e nero, ti astrai dalla realtà della cronaca per andare in cerca di quell’assoluto di cui parlavi prima?
TDA: È così. Cerco l’assoluto nel bianco e nero. L’assoluto è fatto di linee. Come dico sempre, per i pittori bizantini un’immagine non vale per quel che si vede: in un’immagine conta l’invisibile.
AC: Non so se hai mai letto Pavel Florenskij, lo storico dell’arte perseguitato dagli stalinisti che studiava le icone…
TDA: Amo molto le icone…
SC: È curioso. Questi discorsi ci si aspetterebbe di sentirli da un fotografo da studio, che riprende oggetti inanimati. Invece li fa uno che mostra le cariche della polizia, i poliziotti in borghese, e poi l’Italia disgraziata che vive nelle baracche, i senzatetto, i terremotati… insomma tutto ciò che si è sempre opposto all’astrazione, al culto di una bellezza senza tempo.
TDA: Una volta sono stato invitato in un monastero, in Oriente. A un certo punto, mentre parlavo del mio lavoro, il monaco più anziano mi fa portare la riproduzione di un’icona, la famosa madonna con tre mani. Conoscete la storia? A dipingerla fu un pittore popolarissimo tra le famiglie, nei villaggi. Le madri guardavano le sue madonne e piangevano i figli che non erano tornati dalla guerra, i mercati si fermavano… Così il principe gli vieta di dipingere madonne, lo minaccia di tagliargli la testa se farà ancora una madonna, ma il pittore continua. Allora il principe lo fa arrestare, prepara l’esecuzione. E tutta la città piange. Vorrebbero salvarlo ma non si può tornare indietro. Così gli fanno mettere sul ceppo, invece della testa, la mano. Ma la mano mozzata finisce sull’ ultima madonna che ha dipinto. La madonna con tre mani, appunto. È bellissima, questa storia.
AC: Ce la racconti perché vuoi dire che qualcosa di tuo è rimasto su quello che hai rappresentato? Che cosa?
TDA: A un certo punto hanno cominciato a mandarmi anche fuori dall’Italia. Dove c’erano le dittature, in Grecia, in Spagna. E avevo paura, paura che mi prendessero, mi torturassero. Al Prado mi sono fermato parecchio. Dopo un po’ ho pensato che i quadri avessero dentro il mio stesso terrore, che mi strappassero le unghie, mi costringessero a fare i nomi. Poi alla fine ho visto Giovanni Bellini. Anche lui doveva aver visto qualcosa di terribile, ma ne era venuto fuori.