Henry Moore (di nuovo) a Firenze

«All’inizio studiai principalmente i primi artisti fiorentini, soprattutto Giotto per le sue evidenti qualità scultoree. Più avanti la mia ossessione divenne Masaccio tanto che ogni giorno di primo mattino facevo visita alla Cappella della Chiesa del Carmine prima di andare da qualsiasi altra parte… Verso la fine dei tre mesi era Michelangelo che maggiormente mi affascinava e da allora è rimasto il mio ideale». La lettera di Henry Moore al sindaco di Firenze, Luciano Bausi, risale al 1972, anno della mostra dedicata all’artista a Forte Belvedere, ma si riferisce al 1925 quando, venuto in Italia con una borsa di studio, Moore aveva visitato Genova, Pisa, Roma, Assisi, Padova, Ravenna e Venezia e soggiornato tre mesi a Firenze. E se è principalmente la pittura ad attrarlo in quel viaggio, preferendo in scultura quella indiana, egiziana, messicana – al punto da definire Donatello solo un «modellatore» – la pittura di Giotto gli appare «la scultura più bella che abbia visto in Italia», come scrive a Sir William Rothenstein, direttore del Royal College of Art, e Giotto il più «inglese» tra i primitivi, certo pensando all’estetica preraffaellita e traendo schizzi nei taccuini da trecentisti fiorentini e senesi. Quanto a Masaccio, in Primitive art del 1941, Moore preciserà: «la tradizione dell’arte primitiva italiana fluiva ancora con sufficiente forza nelle vene di Masaccio per permettergli di mirare al realismo e, al tempo stesso, di conservare una grandezza e semplicità primitive».[1] L’interesse di Moore per i maestri toscani poteva essere stato sollecitato dalla raccolta di saggi di Roger Fry Vison and design (1920) e rientra in un comune sentire che, in quegli anni venti, si esprime in Italia attraverso «Valori plastici»; non è stato chiarito se Moore avesse conoscenza della rivista, nella quale sono comunque pur ridotte testimonianze di rapporti con l’ambiente anglosassone (un articolo di Clive Bell e una recensione di Cecchi a un libro dello stesso)[2].

Premesse come queste sono all’origine della mostra fiorentina, Henry Moore, il disegno dello scultore (fino al 22 agosto), curata da Sebastiano Barassi e Sergio Risaliti, in collaborazione con la Henry Moore Foundation, a cinquant’anni dalla preparazione della esposizione al Forte Belvedere, in una Toscana con la quale Moore aveva ripreso consuetudine fin dagli anni sessanta, soggiornando in Versilia e a Vittoria Apuana, là dove sono le celebri cave a cui aveva attinto Michelangelo. L’antologica di Moore del 1972, a cura di Giovanni Carandente, è rilevante nel panorama espositivo dell’Italia di quegli anni, non solo per il nome dell’artista e l’ampiezza delle opere esposte – sculture in marmo di grandi dimensioni, sculture in bronzo e bozzetti oltre a numerosi disegni – ma anche perché rappresentava nel nostro paese uno dei primi grandi esempi di pratica espositiva en plein air. Infatti, oltre alle opere allestite nelle sale interne del Forte, molte erano disposte negli spazi che circondavano l’architettura cinquecentesca, stagliandosi sullo skyline di una città per tradizione antica molto aperta alle sperimentazioni espressive, ma poi ‘superata’ da altri centri italiani, che si lanciava ora nella ricerca di una dialettica fra antico e contemporaneo.  Da un punto di vista mediatico fu quel che oggi definiamo “evento” e che porta alla condizione per cui andare alle mostre è un segno di emancipazione sociale, secondo schemi di comportamento ben analizzati da Pierre Bourdieu. Il matrimonio tra le forme di Moore, l’architettura di Bernando Buontalenti e la natura delle colline fiorentine si compì con una certa qual naturalezza; condizione che fa riflettere oggi in una Firenze in cui l’arte contemporanea fatica invece a trovare un suo ruolo.

Henry Moore con Two Piece Reclining Figure: Points 1969-70, in mostra al Forte di Belvedere, Firenze, 1972 ph. Enrico Ferorelli (Reproduced by permission of The Henry Moore Foundation)

Già dalla fine degli anni Venti, Moore aveva cominciato a raccogliere una gran quantità di oggetti fino a costituire «una biblioteca di forme naturali» a cui ispirarsi e il disegno era stata la sua prima fonte di guadagno quando aveva esposto nel 1928 alla Warren Gallery a Londra.  «Disegnare mantiene in forma – scrive – come l’attività fisica, forse agisce come l’acqua per le piante e riduce il pericolo di ripetersi ed entrare in una formula», testimoniando quanto quella attività fosse consustanziale alla produzione scultorea, nella tradizione di grandi maestri che lui stesso citerà: Michelangelo, Bernini, Rodin (le mani disegnate e poi scolpite, simili a intrecci di piante o a edifici, possono ricordare quelle di Rodin in Cattedrale). Moore afferma di trarre esperienza dal repertorio illimitato di forme offerte dalla natura, dal «ritmo nervoso» delle rocce, dagli alberi che, egli annota, «insegnano a riconoscere i principi con cui si sviluppano e si rinforzano le articolazioni», o dalle conchiglie «che offrono l’immagine della forma dura e cava [..] perfettamente conclusa in sé stessa». 

Old Apple Tree in Winter, 1977, acquerello, carboncino ph: Michel Muller

L’origine della scultura è d’altronde connessa da Plinio in maniera stretta al disegno, quale risultato di un atto “performativo” capace di restituire fisicità e presenza in maniera meno illusoria della pittura. Nella Naturalis Historiae, è infatti narrato l’aneddoto del vasaio Butade, di Sicione, cui si attribuisce la prima creazione di ritratti fittili, che riempie e plasma con l’argilla il profilo del giovane amato dalla propria figlia, la quale ne aveva contornato l’ombra del volto proiettata da una lucerna sulla parete per conservarne il ricordo dopo la partenza. E Moore sembra credere nel «primato del disegno», per usare la celebre definizione di Giorgio Vasari nel Proemio della terza parte delle Vite: un primato inteso, nel Rinascimento, come traduzione diretta, nella forma, dell’idea. Solo negli anni maturi la sua tecnica muta, specie nei paesaggi, quando, per evocare i fenomeni atmosferici, ripensando a Turner, immerge i disegni a carboncino nell’acqua per ottenere effetti sfumati, ma pur conservando quel che lui stesso definisce «un amalgama come una metafora poetica» tra paesaggio e forma umana.

Henry Moore lavora a un’incisione della serie Elephant Skull, Perry Green, 1970 ca. ph: Errol Jackson (Reproduced by permission of The Henry Moore Foundation)

Come ricorda la figlia Mary, a proposito delle ventuno acqueforti dell’album Elephant Skull create dal cranio dell’elefante avuto in dono dall’amico biologo Julian Huxley (e ora esposte in una sala al piano terra del museo), Moore annotava: «Avvicinandomi molto al cranio e disegnandone diversi dettagli, scoprii tali e tanti contrasti di forme che iniziai a scorgervi vasti deserti e paesaggi rocciosi, grandi caverne sui fianchi delle colline, opere di architettura e torrioni». A percorrere la sale del Museo Novecento, dove sono disegni perlopiù degli anni dai Sessanta agli Ottanta, tra una ‘selva’ di foreste intricate, di grotte, caverne, rocce, uomini che guardano quei massi e si confondono con loro, profili di paesaggi simili a corpi sinuosi di donne, sagome nelle caverne, e pietre che sembrano teste di animali, così come elefanti o rinoceronti paiono rocce, riaffiora la radice surrealista di Moore, il quale inizia a tracciare proprio negli anni trenta quei disegni da lui stesso definiti «di trasformazione». Ed è forse per questo che possono venire alla mente i versi di uno dei padri del simbolismo, Baudelaire, in Correspondances – «La nature est un temple où de vivants piliers laissent parfois sortir de confuses paroles»,- perché in fondo è proprio dall’immaginario simbolista che il surrealismo trarrà linfa, come ricorda André Breton ne L’art magique.

Rock, 1981, carboncino, pastello a cera, acquerello, china, gouache, ph: Nigel Moore, Menor

Tuttavia le forme ondeggianti, che paiono talvolta destinate a sciogliersi, proprie dell’estetica surrealista, sono in Moore sempre ripensate attraverso l’idea del blocco di marmo michelangiolesco, che conferisce potenza plastica alla grafica e che Moore manterrà anche negli anni maturi. Nei disegni a penna, pur nella sfibratura ancora di stampo surrealista, il tratto incrociato sembra proprio rimeditare sulla grafica strutturale di Michelangelo, dove il segno a inchiostro, ugualmente incrociato, costruisce la forma. Nell’annotazione di un disegno con quattro forme scultoree, Heads, donato nel 1967 a Maria Luigia Guaita (fondatrice a Firenze nel 1959 dell’edizione d’arte «Il Bisonte»), Moore annota: «cercare di estrarre da una semplice forma l’effetto, la potenza, l’intensità umana». Considerazione in fondo erede del verso michelangiolesco nel sonetto a Vittoria Colonna: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto/ ch’un marmo solo in sé non circoscriva/ col suo soperchio, e solo a quello arriva/ la man ch’ubbidisce all’intelletto». Quel disegno diverrà sotto i torchi del Bisonte litografia; seguirà poi la cartella che, tra il 1970 e il 1971, Moore creerà per la stamperia, composta da cinque incisioni con un frontespizio litografico e con l’introduzione di Ragghianti. In quello scritto, il critico sottolinea «il miracolo per cui la spinta all’estremo della consistenza significativa, partendo da un movimento interiore di fortissima intensità, è dominata entro la forma sospesa e classicamente contenuta che ne serba tutto l’immenso impulso, il getto di un’onda di mare» (5 gennaio 1971)[3]. Ragghianti coglie nei disegni di Moore la «formazione dell’espressione», la stessa che vediamo «nelle piccole plastiche ch’egli elabora nel cavo della mano, come gli artisti preistorici che operavano nell’ambito di cose naturali» per cui «le figure sono elementa proprio nel senso euclideo originario, sono nuclei pregnanti di un sentimento cosmico che si manifesta allo stato nascente». Se si trattasse di scienza, l’arte di Moore «equivarrebbe a quello di un grandioso sperimentalismo teso a rivelarsi e a rivelare un ritmo essenziale della vita nel suo farsi visione di sé stessa, divenire sensibile e irrecusabile».

Tree Trunks, 1982 carboncino, penna a sfera, gouache ph: Nigel Moore, Menor

Nello stesso 1971, Giulio Carlo Argan insiste sulla dimensione «umanistica» dell’arte di Moore, il quale «accompagna la ricerca plastica con la grafica, approfondendone la relazione tra due modi di indagine, quasi per dimostrare che l’attività dell’artista è in uguale misura intellettuale e manuale, e che il suo compito storico, nella presente condizione della cultura, è appunto di riabilitare la contestualità dei due momenti che l’organizzazione del lavoro industriale sconfessa e annulla». Argan coglie un nucleo importante che l’attuale  mostra fiorentina di grafica ben rivela, ovvero come «pur essendo storicistica e umanistica, l’opera di Moore si addentri profondamente in una problematica attuale […] è vero che Moore vede l’esistenza umana entro la sfera di un’esistenza cosmica, quasi come un grandioso fenomeno della natura; ma proprio perché la solidarietà del naturale e dell’umano viene ogni giorno di più contraddetta e compromessa, il riaffermarlo implica un giudizio e una precisa volontà di intervento».  Forme che dapprima si aggregano, si attraggono e poi si disgregano, che diventano frammenti. Forme che non rimandano quindi all’ armonia di proporzioni di una bellezza greca ma, sottolinea Argan, «al drammatico conflitto di forze, alla lotta della forma per equilibrarsi e consistere in uno spazio che era immensità di orizzonte, violenza di luce incidente, morsura dell’aria»[4].

Se la mostra al Museo Novecento riunisce disegni non specificamente riferibili all’esposizione del 1972 ma comunque a quel periodo della produzione di Moore, Risaliti ha affiancato, al secondo piano del Museo Novecento, un’altra piccola mostra, con relativo catalogo (fino al 4 luglio), dedicata proprio al rapporto di Moore con la Toscana, nella quale figuravano bronzetti e disegni provenienti dalle collezioni toscane, come, ad esempio, quella di Giuliano Gori a Celle (Pistoia), legato a Moore da un’intensa amicizia, nata proprio in quegli anni. È stata l’occasione per ricordare la diversa attenzione riservata allo scultore da parte di due centri contigui, Prato e Firenze, negli anni successivi la mostra al Forte. Infatti, mentre l’amministrazione di Prato fece propria Large Square Form with Cut (1969-71), installata al centro di Piazza san Marco nel 1974, quella fiorentina, cui  Moore aveva donato Il guerriero (Warrior with Shield) del 1953-54, chiedendo che fosse posto al centro della Terrazza di Saturno in Palazzo Vecchio, lasciò la scultura in bronzo  abbandonata in un angolo poco visibile del terzo cortile del Palazzo; qui fu fotografata nel 1984 da David Finn amico di Moore il quale, offeso, ne chiese subito la restituzione. Oltretutto il dono era stato fatto con l’impegno, mai rispettato dal Comune, di acquisire Figura distesa (Reclining Figure), all’epoca conservata a Berlino, per 35.000 sterline. Solo dopo la scomparsa dell’artista, grazie alla ‘mediazione’ con gli eredi da parte del British Institute of Florence e di Maria Luigia Guaita, l’opera fu riportata a Firenze, donata al British Institute da Irina Moore e posta, con comodato d’uso, nel chiostro monumentale di Santa Croce. Ora, grazie all’impegno del Museo Novecento, il Guerriero è ‘tornato’ a Palazzo Vecchio, fino al 9 gennaio 2022 nella sala di Leone X, sottostante la terrazza di Saturno (Henry Moore relocated).  L’episodio lascia comunque intendere quanto il rapporto di Firenze con la contemporaneità sia complesso e contraddittorio. Al Forte Belvedere, dopo anni di chiusura dell’edificio, sono ripresi negli ultimi anni progetti espositivi pur notevoli – tra cui Antony Gormley, Giuseppe Penone (curati da Sergio Risaliti con Arabella Natalini), una collettiva di artisti italiani, «Ytalia» (a cura di Risaliti) e Jan Fabre (a cura di Melania Rossi e Joanna De Vos) -, ma non recepiti come altrettanto incisivi rispetto a quella prima mostra, assunta all’epoca a paradigma nella memoria collettiva della città.

Stone Figures in a Landscape Setting, 1935 carboncino, matita, pastello a cera, pastello, penna e inchiostro ph: Sarah Mercer

Henry Moore. Il disegno dello scultore
A cura di Sebastiano Barassi e Sergio Risaliti
In collaborazione con la Henry Moore Foundation
Museo del Novecento, Firenze
fino al 22 agosto 2021


[1]  Cfr. Henry Moore, writings and conversations, a cura di A. Wilkinson, Lord Humphries, Aldershot 2002, pp. 102-106, trad. it. A cura di Alessandra Salvini, tratta da H. Moore, Sulla scultura, Abscondita, Milano 2002, p. 37.

[2] Emanuele Greco, 1925: Henry Moore in Italia. Viaggio nei taccuini, in Henry Moore in Toscana, a cura di Sergio Risaliti, Polistampa, Firenze 2021, pp. 78-89.

[3] Carlo Ludovico Ragghianti, dall’introduzione alla cartella di 5 incisioni di Moore edita dal Bisonte, 1971, ripubblicato con il titolo Elementa di Henry Moore, in «Critica d’arte», n. 115, gennaio 1971.

[4] Giulio Carlo Argan, Henry Moore, Fabbri Editore, Milano 1971.

In copertina:

Insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee all'Accademia di Belle Arti di Brera. Si è occupata di argomenti di arte e di critica d’arte dal XIX secolo ad oggi (con particolare attenzione all’arte dell’età unitaria, al simbolismo tra Francia e Italia, all’Orientalismo e ai rapporti tra parola e immagine), pubblicando saggi e monografie e collaborando a diverse mostre. Membro della SISCA (Società Italiana di Storia della Critica d’Arte), scrive da molti anni per il mensile “Il Giornale dell’arte” (Allemandi). Tra le sue ultime pubblicazioni “Un sogno fatto a Milano, Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo”, Johan&Levi, Milano 2018; “The gentle art of fake. Arti, teorie e dibattiti sul falso”, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2019.

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