In quel libro di invidiabile audacia intellettuale che è Images malgré tout, Georges Didi-Huberman situava l’origine dell’immagine fotografica “all’incrocio tra la scomparsa prossima del testimone e l’irrappresentabilità della testimonianza”, radicandola dunque nell’urgenza di “contraddire ogni volontà di distruzione”. Che le immagini cui il filosofo francese si riferiva fossero nella fattispecie le quattro fotografie scattate ad Auschwitz nell’agosto 1944 da un ebreo greco membro del Sonderkommando, Alex, non faceva che spingere all’estremo considerazioni che, in realtà, potrebbero valere per qualsiasi documento fotografico, inteso come traccia visiva, teoricamente destinata a sopravviverci, di un dato immediato non necessariamente decifrabile o traducibile in parole. In una memorabile polemica con chi, come Gérard Wajcman ed Élisabeth Pagnoux, vedeva nel tentativo di interpretare quelle foto “un’elevazione dell’immagine a reliquia”, e quindi un’offesa recata a quel regime di “inimmaginabilità” e di invisibilità assoluta che solo perterrebbe alla Shoah, Didi-Huberman ribadiva come la decisione stessa dei componenti del Sonderkommando di “strappare un’immagine a quel reale” andasse onorata contemplando tali “momenti di verità” (Hannah Arendt), pur consci della nostra incapacità di osservarli “come meriterebbero”, e nonostante il nostro mondo, “rimpinzato e quasi soffocato da merce immaginaria”. Dettate dalla consapevolezza che un’immagine non è tutto (come temono in segreto gli iconoclasti di ogni epoca e confessione), ma nemmeno nulla (come gli stessi tendono perentoriamente ad affermare), le riflessioni di Didi-Huberman datate 2003 appaiono tuttora il viatico più illuminante per accostarsi a un lascito che, pur sorto in un contesto incommensurabilmente diverso, pone i medesimi interrogativi sullo statuto epistemico della fotografia, nonché sulla sua contiguità con le sfere inestricabilmente connesse della memoria e del trauma.
“Immagini malgrado tutto” – e in primis malgrado i rischi corsi per fissarle – sono infatti anche le oltre 400 foto scattate clandestinamente dal tenente Vittorio Vialli nei campi di Benjaminowo, Sandbostel e Fallingbostel dove fu prigioniero dall’autunno 1943 fino all’aprile 1945 in quanto Italienischer Militär-Internierte (IMI), ovvero ufficiale del Regio Esercito, disarmato e “preso in custodia” dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre. Conservate presso l’Istituto storico Parri di Bologna (e come tali “sfogliabili” in ordine cronologico sul sito della Biblioteca Digitale), le istantanee di Vialli sono state giustamente definite come la memoria visiva della prigionia italiana in Germania; peccato che tale memoria sia pressoché inscindibile da una lunga fase di rimozione e di oblio. Ripercorrerne la storia editoriale quantomeno complessa – culminata di recente nella ripubblicazione del volume Ho scelto la prigionia. La resistenza dei soldati italiani deportati 1943-1945, uscito nel 1975 con un sottotitolo lievemente diverso per i tipi dell’editore bolognese Arnaldo Forni, e ora riproposto dal Mulino a cura di Emiliano Macinai e Luana Collacchioni – significa constatare, insieme a Olga Shevchenko, come sia i ricordi che le fotografie siano qualcosa d’intrinsecamente dinamico, “processi, non oggetti”, e che di conseguenza possano essere meglio compresi se si cessa di intenderli come “imperfette approssimazioni di un remoto originale” e si sposta piuttosto l’attenzione sulle modalità che ne governano la “produzione, la circolazione e la fruizione”.
Da questo punto di vista, le foto di Vialli costituiscono un caso emblematico. Scattate con una Leica che il tenente riuscì a sottrarre alle perquisizioni e a tenere con sé fino alla liberazione, furono sviluppate dopo la guerra, quindi après coup, “nel bagno di casa con un rudimentale proiettore di legno da lui costruito con i barattoli dell’Ovomaltina e con lenti di recupero”, ricordano i figli Bruno e Silvana. Il disegno iniziale di Vialli – raccoglierle in un libro edito da Rizzoli, col commento di Giovannino Guareschi, suo compagno di prigionia – naufragò poiché lo scrittore se ne disinteressò: quel che ne resta sono le “anticipazioni” uscite in undici puntate a partire dal gennaio 1946 su “Oggi” col titolo Occhio segreto nel Lager (fotografie di Vittorio Vialli, presentate da Guareschi). A partire da questo momento ha inizio quell’oscillazione fra utilizzo documentario e rielaborazione narrativa che caratterizzerà tutta la storia editoriale del lascito – e quindi anche la sua interpretazione. Ostentando fiducia nell’effetto di realtà di quelle foto, il direttore Edilio Rusconi le definì ottimisticamente “il modo più facile ed efficace per spiegare ai nostri lettori quale fosse la vita d’ogni giorno nei campi di concentramento”; al contempo, la “presentazione” verbale di Guareschi le “cannibalizzava”, inglobandole a mo’ di corredo visivo in una ricostruzione mnestica che, pur declinata al plurale, era pesantemente caratterizzata dal suo stile personale.
Un esito certo non sorprendente, se si assume con Marianne Hirsch la doppia natura, indiziale e simbolica, dell’immagine fotografica, legata sì fisicamente a un referente esterno preciso, ma anche aperta a processi di identificazione emotiva e rielaborazione narrativa. A ogni modo, Guareschi coglieva un aspetto fondamentale degli scatti del compagno là dove osservava: “Se le fotografie di Vialli invece di duecento fossero duemila o ventimila, sotto a ognuna di esse sarebbe facile scrivere una nota, una osservazione. Fosse anche la fotografia di un sasso, di un palo, di una nuvola. La cronaca del Lager non è nei fatti esterni, è dentro l’animo di chi nel Lager ha vissuto”. Il caso-limite di un’immagine in cui, apparentemente, non c’è nulla da vedere riporta alla mente l’ultima delle fotografie del Sonderkommando (o la prima, a seconda di come si interpreti l’ordine della sequenza), spesso esclusa dalla pubblicazione o dall’esposizione accanto alle altre tre, in quanto “priva di utilità” – Didi-Huberman la descrive come un’“immagine praticamente astratta”, dove “si scorgono appena le cime delle betulle” nei pressi del crematorio V di Auschwitz-Birkenau. Senonché, come osserva lo stesso filosofo francese, è proprio la sua essenza di atto fotografico puro, “senza obiettivo, senza orientamento”, a trasmetterci la condizione di urgenza in cui è stata scattata.
Qualcosa di analogo si ritrova anche nell’archivio di Vialli, dove l’unica inquadratura sfocata è, non a caso, quella del primo carro armato inglese entrato a Fallingbostel il 16 aprile 1945 – “l’emozione del momento ha fatto sbagliare al fotografo tempo e diaframma”, scrive Vialli, parlando significativamente di sé in terza persona. E così come le restanti tre foto di Alex sono state più volte reinquadrate o addirittura ritoccate al fine di rendere meglio visibile quanto di terribile fissano (la cremazione di cadaveri gasati in fosse di incinerazione all’aria aperta, davanti alla camera a gas del crematorio V e un gruppo di donne spinte verso la medesima camera a gas), anche alcune immagini di Vialli sono stati sottoposte allo stesso trattamento, depurate cioè dal loro “peso non documentario”. Non si sa se col consenso dell’autore, nella prima edizione di Ho scelto la prigionia la foto che raffigura il lager di Luckenwalde nei pressi di Berlino, ad esempio, era stata ritagliata in maniera da eliminare la zona scura in primo piano a destra, coincidente con l’interno della baracca da cui Vialli aveva scattato. Esattamente com’era avvenuto per le foto del Sonderkommando, dove la “cornice” della porta della camera a gas in cui Alex s’era nascosto per eseguire il suo compito era stata espunta, malgrado quella massa nera costituisse in realtà “un segno visivo altrettanto prezioso della rimanente superficie impressionata”, in quanto “spazio di possibilità” e “condizione di esistenza” delle foto stesse.
In entrambi i casi, sopprimere quella “zona d’ombra” a favore della chiarezza informativa equivaleva a fornire allo spettatore l’impressione fallace che i due fotografi clandestini avessero potuto agire indisturbati. L’attenzione esclusiva al dato documentario si traduceva dunque in una disattenzione alla sostanza stessa dell’immagine, ed è curioso come nella riedizione del Mulino di Ho scelto la prigionia, quest’atteggiamento si riproponga inalterato, malgrado nel frattempo Adolfo Mignemi nella sua Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania, uscita da Bollati Boringhieri nel 2005, abbia rivendicato la scelta di stampare a tutto campo i negativi di Vialli, annullando così ogni traccia di “post-produzione”. A sua volta, lo storico ometteva talvolta alcune delle “lapidarie didascalie” dell’ex prigioniero (“brevi e incisive, ma eloquenti ed espressive come le immagini”, così le definiva Sandro Pertini, redigendo la prefazione dell’edizione 1975), rendendo così più difficoltosa la lettura di taluni soggetti.
Sebbene definito da Mignemi un “cieco, ma determinato esercizio di scrittura con le immagini” (cieco in quanto Vialli, fino al ritorno a casa, non poté verificare quanto fosse rimasto impresso sulla pellicola), l’archivio fotografico assemblato nei lager tedeschi fu probabilmente percepito dal tenente e paleontologo nato a Cles in Trentino nel 1914 come la naturale, seppur imprevista, continuazione del lavoro di geologo che aveva svolto, armato di una Zeiss Super Ikonta, sul canale di Corinto per conto della marina militare. Solo una volta sviluppate, le sue foto vennero rilette a posteriori come “fotocronaca” o “diario per immagini” e, in quanto testimonianza “unica”, andarono incontro a interventi editoriali contrapposti che ne enfatizzarono vuoi la valenza documentaria (Mignemi), vuoi le potenzialità narrative (Guareschi).
Non meno interessante in termini di editing è un altro resoconto, stavolta letterario, incentrato anch’esso sulla deportazione dei militari italiani in Germania, che offre tutt’altra prospettiva. Già il titolo, Una donna al giorno, dà un’idea della distanza rispetto a Vialli: non più il punto di vista interno al Lager di un ufficiale colto, che ha pochissimi contatti con l’esterno, stante il suo pervicace rifiuto di lavorare per il nemico, bensì quello di un marinaio trevisano ventenne, che vaga da un campo all’altro, da una corvée all’altra e, per l’appunto, da una conquista erotica all’altra, tra fughe, bombardamenti e avventure rocambolesche, animato da una vitalità assolutamente rapace. Edito nel 1949 da Longanesi in un volumetto double face insieme al racconto del geniere siciliano Vincenzo Damigella, Una donna al giorno di Luigi Figallo, alias Pavanello, fu la prima testimonianza pubblicata da un IMI appartenente alla truppa. A recuperarlo ora è Dario Borso, che lo include in un originale volumetto appena uscito da Exòrma, Ostaggi d’Italia. Tre viaggi obbligati nella storia, dove la anabasi ampiamente boccaccesca del picaro Pavanello dal Peloponneso ai lager della Prussia occidentale viene accostata ad altri due (ben più sobri) racconti di prigionia – quella di un alpino bellunese, Mariano Callegari, catturato ad Adua, e di un granatiere anch’egli trevisano, Giuseppe Giurati, finito nel lager di Meschede in Germania dopo Caporetto.

Il fil rouge che lega i tre testi – oltre all’angolatura del soldato semplice fatto prigioniero e quindi “ostaggio” non solo del nemico, ma anche, scrive Borso, “di un’idea dell’Italia nata in tutt’altre sedi, ceti e menti” – è la presenza più o meno ingombrante, in qualità di editor, di Giovanni Comisso, scrittore nella cui prosa Pier Paolo Pasolini ravvisava nel 1968 “il permanere ancor oggi di qualcosa di sorgivo e popolare”. Animato da un’“attenzione bonaria, tra l’amorevole e il signorile, alle classi subalterne” del natio Veneto, Comisso si fece “ascoltatore finissimo di voci altrimenti mute” e “manipolatore occulto delle stesse”. Lo fu nel caso della testimonianza di Callegari, da lui messa per iscritto e pubblicata sull’“Italiano” nel dicembre 1932, guarda caso alla vigilia della campagna di Etiopia e tornò a esserlo con i taccuini di Giurati, che sottopose a una massiccia revisione stilistica, fattuale e ideologica, per poi darli alle stampe sempre sull’“Italiano” (col titolo tautologico di L’italiano in guerra. 1915-1918) nell’aprile 1934, in una variante linguistica davvero improbabile per un figlio di mezzadri giunto alla seconda elementare. Il ventriloquo Comisso non sembrava nutrire dubbi sul fatto che “the subaltern can speak”; meglio però che lo facesse con la sua voce di redattore. Come nel caso di Vialli, di nuovo la “massa nera”, il rumore di fondo, qui palesatosi sotto forma di italiano dialettale, veniva rimosso a favore di una presunta chiarezza informativa che, peraltro, meglio si prestava a un utilizzo politico.
Se il raffronto con l’originale consente a Borso di segnalare gli interventi di Comisso sul testo di Giurati, più difficile è stabilire in che misura lo scrittore abbia operato su quello del suo autista Pavanello, anche se è lecito ipotizzare che da lettore assiduo delle Memoires di Casanova abbia contribuito non poco a enfatizzare le prodezze amatorie del prigioniero IMI. In Una donna al giorno la prestazione erotica elargita con invariabile perizia a contadine, cuoche e sguattere polacche, a dispetto del deperimento fisico, è sì merce di scambio per una razione in più, o per un favore, o per un dono, ma riflette anche la tenace volontà di non arrendersi all’avvilimento: “… pensavo di poter fare tutto quello che era possibile fare per un uomo, prima di cedere alla morte”.
Scaraventato a migliaia di chilometri da casa, asservito prima nelle fattorie prussiane e poi nei cantieri navali di Ferdinand Schichau a Elbing (l’attuale Elbląg), sbandato durante i bombardamenti di Danzica, il marinaio trevisano si presenta (o viene presentato da Comisso?) come un vero e proprio beniamino degli dei, destinato a far valere la sua eccezionalità anche nell’infausto frangente della prigionia: “Ero, in verità, il più matto di tutti, sia per la mia età, sia per il mio estro. Il mio sangue di famiglia mi dava una carnagione bruna che, col sole preso in Grecia, era quasi nera; gli occhi verdi ben centrati, una bocca potente e i capelli neri ben pettinati e lisciati (che quand’ero scapigliato mi scendevano come uno zingaro). Camminavo poi sempre diritto. Tra quella gente bionda e bianca, ero come un carbone ardente in un pagliaio. Con le stramberie, col mio aspetto furente, se piacevo alle donne, non mancavo di essere benvoluto anche dagli uomini, fossero tedeschi o i miei compagni di prigionia. Dovunque andassi, ero subito come una mosca nel latte, e diventavo celebre”. Un ritratto che, nella sua irresistibile e sfacciata ingenuità, faceva gioco anche a Comisso, mentore di Pavanello presso Longanesi. Se negli anni Trenta, infatti, pubblicando sull’“Italiano” le sue testimonianze di prigionieri, lo scrittore premeva affinché le future imprese belliche e coloniali del fascismo facessero dimenticare l’onta di Adua e Caporetto, nel dopoguerra di fronte al disastro definitivo non gli restava che aggrapparsi alla speranza che i suoi subalterni si fossero dimostrati almeno all’altezza della loro fama di latin lovers.
Vittorio Vialli
Ho scelto la prigionia. La resistenza dei soldati italiani nei lager nazisti, 1943-1945
a cura di Emiliano Macinai e Luana Collacchioni
il Mulino, 2020, pp. 220, € 26
Dario Borso
Ostaggi d’Italia. Tre viaggi obbligati nella storia
Exòrma, 2021, pp. 228, € 15,50
In copertina: Vittorio Vialli, L’offerta di una zuppa da parte di una sconosciuta benefattrice © Istituto per la Storia e le Memorie del ‘900 Parri Emilia Romagna, fondo V. Vialli