Maurice Merleau-Ponty, viaggio alla fine della mente

Louis Althusser racconta nella propria autobiografia di come, dopo una partecipata conferenza di Sartre all’École Normale nella primavera del 1961, lui e Merleau-Ponty si incamminarono, prendendo a commentare la filosofia di Husserl, di Heidegger, dello stesso Merleau. Althusser aveva colto l’occasione per rimproverargli ancora una volta il suo idealismo trascendentale e per criticare la sua teoria del corpo proprio. Merleau-Ponty aveva risposto con garbo ma in modo fulminante, con una domanda: «ma lei ha pure un corpo, no?». Quell’interrogativo tornò a interpellare con insistenza Althusser una settimana più tardi: quando quel corpo, improvvisamente e definitivamente, tradiva il suo interlocutore.

L’anno prima, in Segni (il Saggiatore 2015), Merleau-Ponty aveva posto in chiaro come Husserl attraverso la nozione di Leib, di «corpo proprio», avesse mostrato la via di accesso a un ordine pre-teoretico e pre-oggettivo, nel quale non si sentiva più «la pulsazione della coscienza costituente» ma si entrava in contatto con una dimensione di «datità» o di «recettività», nella quale il mondo si svela come un qualcosa di sempre già dato all’io, che lo “riceve”, lo “patisce”, «grazie al suo corpo». Il corpo quindi si costituirebbe come «il vinculum dell’io e delle cose» e al contempo preparerebbe a comprendere che vi sono altri esseri senzienti. Se infatti – proseguiva esemplificando Merleau-Ponty – stringo «la mano dell’altro ho l’evidenza del suo esserci»; essa si sostituisce alla mia, perché si compie una sorta di annessione: «lui ed io siamo gli organi di un’unica intercorporeità». Forse scrivendo queste righe il suo pensiero era tornato a quando, nell’estate del 1948, risaliva a Marsiglia la Rue de la Canebière tenendo la manina della figlia Marianne, la quale anni dopo alla scrittrice Sarah Bakewell, autrice del fortunato Al caffè degli esistenzialisti (Fazi 2016), confesserà di come il padre «sembrasse molto più vivace degli altri filosofi – più in vita – perché per lui filosofia e vita erano tutt’uno».

Maurice Merleau-Ponty e la figlia lungo la rue Canebière a Marsiglia, estate 1948

Con lo stile e la compunzione che lo resero celebre fra i normalisti, Merleau-Ponty aveva sostenuto del resto, fin dalla grande thèse dedicata alla Fenomenologia della percezione (1945, Bompiani 2003), che la fenomenologia fosse da intendere non già come una techne ma come un metodo di pensiero, come una «laboriosa opera» guidata dall’esigenza di cogliere il senso del mondo, nella sua sorprendente evidenza. La «filosofia fenomenologica o esistenziale» – si leggeva nella coeva conferenza Il cinema e la nuova psicologia – doveva consistere nello «stupirsi dell’inerenza dell’io al mondo e dell’io agli altri». In questi suoi primi esercizi di pensiero, Merleau-Ponty riprendeva da Eugen Fink l’idea che la riduzione fenomenologica risvegli uno smisurato stupore per la enigmaticità del mondo. Nondimeno, egli parrebbe opporsi alle istanze finkiane che vorrebbero la fenomenologia abdicare ad un atteggiamento troppo descrittivo in favore di una filosofia più speculativa, a una «fenomenologia come positivismo». Quanto gli preme interrogare è piuttosto il modo il cui noi si sia al mondo, e le conseguenze che una tale «vita irriflessa» comporta. L’étonnement, lo stupore che vi si accompagna è infatti una condizione di rapimento e al contempo di ignoranza consustanziale al filosofare stesso. Lo stupore sarebbe il momento d’una sorpresa custodita all’interno della sophia stessa, in quanto darebbe accesso al fine che le è proprio, a quel sorprendersi nel quale essa rigioca sempre di nuovo il proprio inizio.

Benché possa apparire singolare, l’origine d’una concezione della filosofia come «pensiero sorpreso» è assegnata da Merleau-Ponty non già, secondo un topos divenuto classico, a Platone o ad Aristotele, bensì a Hegel: al quale è attribuito l’inaugurale tentativo di «esplorare l’irrazionale ed integrarlo ad una ragione allargata». Allorché, nella Premessa alla Fenomenologia della percezione, si sostiene che la filosofia è «un’esperienza rinnovata del proprio cominciamento», prima ancora che alla fenomenologia husserliana parrebbe farsi richiamo alla Fenomenologia dello Spirito, quale descrizione dello sforzo dell’uomo di continuamente riafferrarsi: «fino a quando questa estremità della storia non è raggiunta – si legge nell’appena successivo L’esistenzialismo in Hegel (poi in Senso e non senso, il Saggiatore 2004) – l’uomo si definisce come il luogo di un’inquietudine (Unruhe), come uno sforzo costante di raggiungere se stesso». Anche a costo di esercitare una violenza interpretativa nei confronti del dettato hegeliano, Merleau-Ponty parrebbe leggere la Geschichte, la storia quale Hegel l’intende, come l’entelechia, come la finalità interna del Geschehen, in quanto evento che si dà da pensare come «inquietudine agitata (haltungslose Unruhe)» che semplicemente accade. Se si sottrae tale accadere all’empiria del “ciò che avviene”, esso non si presenterebbe, non si renderebbe percepibile, cosicché esso non farebbe che eccedere le risorse della fenomenologia e insieme dell’ontologia.

Le conseguenze di ciò andrebbero valutate soprattutto ove entrambe queste forme di pensiero vengano considerate in un’indifferenza dovuta – scrive Merleau nella prima delle lezioni del 1953 sul Mondo sensibile e il mondo dell’espressione, appena rese disponibili in edizione italiana, per le cure attente di Anna Caterina Dalmasso – al fatto che «nel nostro modo di percepire è implicato tutto quello che siamo». Considerare la presenza là dove essa si presenta, vale a dire il suo incessante accadere “come tale”, imporrebbe di misurarsi con l’esperienza pura d’un inizio ancora muto e che si tratta di portare a espressione. A differenza che nelle opere della metà degli anni Quaranta, dove «l’unità naturale e ante-predicativa del mondo e della nostra vita [fornisce] il testo di cui le nostre conoscenze cercano di essere la traduzione in linguaggio esatto», nel corso del ’53 Merleau-Ponty si propone di superare ogni dualismo, provando a ricomprendere la coscienza percettiva nell’espressione.

Fra gli obiettivi di queste pagine vi è l’approfondimento del mondo percepito, mettendo in luce come questo già presupponga la funzione espressiva e la preparazione di questa funzione attraverso cui il mondo percepito è sublimato, ossia «fare una teoria completa dello spirito». Come poteva leggersi nel résumé del corso pubblicato in Linguaggio Storia Natura (Bompiani 1995), occorre ammettere che la «percezione è già espressione», non già conferendo agli oggetti che si percepiscono un senso, ma lasciando che il mondo sensibile incontri il nostro corpo, quale baricentro di molteplici campi sensoriali, così da poter esprimere le proprietà che lo contraddistinguono «per la sua organizzazione interna». Ma già dalla sua prima opera, La struttura del comportamento (Mimesis 2019), sulla scorta di Paul Claudel Merleau-Ponty aveva a questo riguardo rilevato come il soggetto della sensazione fosse da intendere non già come un pensatore che annota una qualità, né come un inerte spettatore di ciò che lo colpisce, ma come «una potenza che co-nasce a un certo contesto di esistenza o si sincronizza con esso». Il corso del ’53 estende però il significato di questa co-nascenza, coinvolgendolo in un “doppio movimento” di significazione, che discende nel mondo e che quest’ultimo restituisce, assecondando il ritmo proprio d’un farsi del soggetto, quale processualità sempre in divenire, infinita non-coincidenza di percipiente e percepito. Allo stesso tempo questo movimento descrive la metamorfosi del senso latente del sensibile, che si estrinseca per mezzo del «sensorio comune» costituito dal nostro corpo.

La struttura chiasmatica che viene delineandosi in queste pagine, e che verrà ulteriormente sviluppata da Merleau-Ponty nell’ultimo tratto della sua riflessione, è qui definita alla stregua d’un «movimento espressivo» che trova emblematica traduzione nelle «forme prelinguistiche» della pittura e del cinema. Proprio su quest’ultimo aspetto – di recente illuminato in un ampio capitolo dell’importante volume di Mauro Carbone, Filosofia-schermi (Cortina 2016) – si sofferma l’ultima parte del corso, approfondendo in special modo alcune indicazioni che dal cinema provengono circa l’impiego del movimento. «Infatti – scrive Merleau-Ponty – il film, la sua sceneggiatura, il suo montaggio, i suoi cambiamenti di punto di vista sollecitano e per così dire celebrano la nostra apertura al mondo ed agli altri, facendone continuamente variare il diaframma». Si può allora considerare proprio il cinema una sorta di correlato oggettivo del corso del ’53, dal momento che in continuità con un metodo di lavoro affatto insolito per Merleau-Ponty, i vari appunti, scartafacci e abbozzi convoluti in questo volume mostrano una certa consonanza con quello che Vladimir Majakovskij chiamava «cinecontagio»: si  dà vita ad una serie di sequenze ora più ora meno correlate fra loro, che offrono il senso di «un’opera priva di conclusione e di cui non sappiamo se ne avrà mai una». D’altronde, come osservava Italo Calvino nella “lezione americana” sulla Visibilità, un film non è che «il risultato d’una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma; in questo processo il “cinema mentale” dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quella delle fasi di realizzazione effettiva delle sequenze come verranno registrate dalla camera e poi montate in moviola». E tuttavia, per Merleau-Ponty, il cinema non assolve una funzione eminentemente mentale; il suo empiétement onto-fenomenologico, mostrando l’eccedenza dell’essere del mondo rispetto alla nostra percezione, impedisce di assorbire la «rappresentazione del movimento» che lo innerva e quindi il suo simboleggiare il «movimento della rappresentazione» all’interno dello spettro coscienziale.

La presa di distanza da una concezione del movimento come quella husserliana (per approfondire la quale un significativo ausilio è ora recato dall’antologia Fenomenologia dello spazio e della geometria, curata da Vincenzo Costa per i tipi di Scholé), persuasa che sia unicamente a partire dal movimento cinestetico interno all’io che possa essere esperito il movimento, non potrebbe essere più radicale. Come mostra appunto il cinema, non diversamente dalla pittura e della letteratura, è necessario oltrepassare il «sorvolo assoluto» di un idealismo soggettivo e solipsistico, per tentare di realizzare la correlazione fra soggetto percipiente e mondo percepito, accordandosi a un movimento che ogni volta riprende e rilancia in modo creativo «la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose».

Sotto questo riguardo il cinema dischiuderebbe uno spazio nel quale ha modo di allestirsi, sia pure edulcorata, la messa in scena di una «rivoluzione» capace di mettere in questione la distinzione soggetto-oggetto, in favore di un «rivoltamento» reciproco fra mondo sensibile e intenzione significante. A sua volta, tale doppio legame fra espressione e percepito – sancito fin dal titolo del corso, Le monde sensible et le monde de l’expression, dove l’et si sostituisce all’est per creare un agencement – è imposto dalla «necessità interiore» che teleologicamente permea «la giuntura e membratura dell’Essere che si compie attraverso l’uomo». Si deve però, secondo Merleau-Ponty, procedere alla «eliminazione dell’equivoco antropologico» che assegna all’uomo il ruolo di «dativo della manifestazione», in favore di uno schematismo che sorge come accordo tra sensibilità e comprensione nei modi di una “veduta pura”, come condizione di possibilità della visibilità di qualcosa: di ciò che è nel suo accadere.

Rammentando la passione che Merleau-Ponty ebbe per la musica, parrebbe ch’egli riprenda e svolga, nel complesso della sua argomentazione consegnata al corso del 1953, un’indicazione apposta da Beethoven sotto il titolo dell’ultimo movimento del Quartetto op. 135: «Muss es sein? Es muss sein», «deve essere? Dev’essere». Vi si compendierebbe l’impellenza che l’essere sia, la sola affermazione possibile della sua necessità immanente: «La palma alla fine della mente, / oltre l’ultimo pensiero, sorge» (Wallace Stevens).

Maurice Merleau-Ponty
Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione
a cura di Anna Caterina Dalmasso, prefazione di Mauro Carbone
Mimesis, 2021
pp. 283, € 20

In copertina: fotografia di Félix Thiollier, 1899 (particolare)

Luigi Azzariti-Fumaroli

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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