Il mio primo ricordo è un ricordo d’iconofagia. Ma di questo ne sono cosciente solo oggi. Prima, invece, mangiare immagini mi pareva del tutto naturale, irrilevante – non perché privo di senso ma perché consuetudinario. Avevo quattro anni. All’inizio dell’autunno c’erano state due ‘partenze’ importanti. La morte del nonno Gaetano era avvenuta con preavviso e delicatezza. Un mese dopo, nonna Nené decise di seguirlo: da fredda normanna quale alcuni dicevano fosse, lo fece senza clamore ma senz’altro per amore, aiutata da una copiosissima scorpacciata di fichi maturi.
Arrivò il 2 novembre. Per la prima volta avevo una ragione di festeggiare il giorno dei morti (e, in Sicilia, in tempi ancora recenti, questa era una festa un po’ messicana). Nella notte, i nonni morti erano infatti ‘passati’ per portare i murticeddi (morticini) cioè piccoli giochi, mandarini appena maturi e dolcetti -la pupaccena, i frutti di martorana, i mustazzoli ovvero le ossa di morti. Li trovai in abbondanza, con gioioso sfoggio di colori, sul tavolino del salotto della casa dei nonni: variopinti paladini fatti di zucchero, pasta di mandorla a forma di pesche, nespole o fichi d’india furono le immagini commestibili alle quali però la mia golosità s’interessò poco. Invece, di quegli strani mustazzoli (una base color caramello con sopra una forma approssimativamente cilindrica, bianca e vuota), di questi biscotti durissimi ma profumati di chiodo di garofano, di quelli sì ne fui (e ne sono tuttora!) ghiotta.
Succhiare, sgranocchiare, ingerire golosamente (e gioiosamente) l’immagine arte-fatta delle ossa dei ‘miei’ morti, si costituì dunque come il mio primo ricordo d’infanzia. Questa pratica culturale è conosciuta grazie ai dettagliati rendiconti etnografici di Giuseppe Pitré. Con altro tono e intenzione, al fenomeno si fa accenno, fra altre pratiche, nelle attente analisi di Salvatore d’Onofrio nel suo Les Fluides d’Aristote. Lait, sang et sperme dans l’Italie du Sud (2014). Oggi però, la golosa lettura del libro di Jérémie Koering (Les Iconophages. Une histoire de l’ingestion des images, Arles, Actes Sud, 2021) mi ha permesso di integrare legittimamente il mio primo ‘cannibalismo’ iconico infantile nell’ambito di pratiche rituali, sociali e antropologiche, particolarmente complesse e diffuse nel tempo e nello spazio, ben oltre la mia infanzia e la mia isola. Gliene sono molto grata, come storica e come amica.
Concettualizzare e cogliere storicamente il senso dell’atto di “ingerire un’immagine” è doppiamente significativo. Da un lato, Les Iconophages inaugura un viaggio in terra (quasi del tutto) incognita dal punto di vista della letteratura storica, anche se già si è avvertito che “le immagini, anche quelle che usiamo implacabilmente classifichiare con l’etichetta ‘visuale’, non sono fatte soltanto per essere viste” (Jean Wirth, Qu’est-ce qu’une image?, 2013, p. 24 – la traduzione è la mia). Dall’altro, nel libro intelligente e appassionante di Jérémie Keoring si rilanciano – ma in altro modo – i dadi di quel ‘gioco’ iniziato già da qualche decennio (da Hans Belting, Horst Bredekamp, Hubert Damisch, Georges Didi-Huberman, Alfred Gell… e mi limito solo a ricordare alcuni dei nomi più importanti) per cogliere teoricamente la natura, la funzione, la materialità dell’immagine, ma anche e soprattutto le molteplici modalità della sua ricezione ed uso, nonché la possibilità stessa del suo divenire estetico. Tutte questioni che l’autore scruta, tra l’antichità e il presente e principalmente nel mondo occidentale, anche se si spinge spesso e con agilità anche ai margini dell’Occidente, come concetto e come spazio culturale e geografico.
Che lo sguardo dello storico e del critico possa fare incetta e divorare l’opera d’arte lo espresse letteralmente nel 1961 Jasper Johns con la scultura The Critic Sees: gli occhi del critico d’arte diventano bocce con tanto di denti, e questo sguardo divorante l’archetipo di un rapporto ‘possibile’ ma istintivamente inquietante alle immagini e all’arte.

Ma non di questo tratta esattamente Les Iconophages. Di quali immagini si parla, allora? Che siano state bidimensionali o tridimensionali, queste potevano essere costituite sia di materie commestibili che non-commestibili; venivano raschiate, ridotte in polvere per essere miscelate o diluite, così come potevano essere ingerite integralmente, oppure semplicemente costituire la materia che, per contatto con altra sostanza poi assunta per via orale, conferiva alla detta sostanza un’efficacia particolare. Questo per quanto riguarda il tipo di artefatti. Ma perché mai questa pulsione o volontà (a priori, incongrua) d’ingurgitare, in un modo o nell’altro, delle immagini? Eterogenee, le ragioni dell’iconofagia scaturiscono da pratiche devozionali, apotropaiche, profilattiche (ingestione di frammenti d’icone e di statue, divorazione di santini eduli e di Schluckbildchen); da pratiche rituali quali quelle dell’ostia eucaristica e delle cialde stampate; infine, anche da pratiche istituzionali com’è il caso dei banchetti iconofagi organizzati da alcune compagnie fiorentine nel Rinascimento.
Nell’affrontare questa storia in cui l’approccio all’immagine non è unicamente visivo ma polisensoriale, Jérémie Koering annoda e intreccia con destrezza l’antropologia, la cultura visuale, la storia dell’arte, la filosofia, la fenomenologia, la semiologia e inquadra il soggetto dando all’ingestione un’accezione e una funzione duplici: la prima, che l’autore definisce «costituente», è legata alla cura e alla profilassi del corpo e dell’anima di colui che mangia o beve l’immagine (molto spesso non commestibile), immagine intesa come l’agente di una potentia soprannaturale, celeste o terrestre. La seconda, invece, è un’ingestione «istituente» perché, attraverso la divorazione dell’artefatto (commestibile), l’iconofago viene ad integrarsi – in tutta legittimità – ad un determinato gruppo, religioso, dinastico-familiare oppure sociale.
Degustazioni terapeutiche e miracolose
Se, nell’antico Egitto, si leccavano certi disegni tracciati sulla pelle quali immagini efficaci nella cura di punture di scorpione o per proteggersi dall’attacco dei coccodrilli, più tardi nel modo cristiano il culto dei santi ha fatto di reliquie e raffigurazioni (che possedevano intrinsecamente la virtus di un dato santo) degli oggetti resi attivi non soltanto per via di contatto (toccare, baciare una reliquia o un reliquario), ma anche per via d’ingestione. Queste pratiche e comportamenti sono la testimonianza di “una trasformazione dello status dell’immagine” in cui si attua al contempo “l’assimilazione dell’immagine ad un corpo e la determinazione dell’ingestione come paradigma del contatto.” [Les Iconophages, p. 63- la traduzione è la mia]. Muri di cappelle, affreschi in luoghi di culto, icone com’anche gettoni di ‘terra sigillata’ effigiate di santi (dette “eulogie”), potevano essere grattati, la polverina mescolata a bevande e sostanze solide, e ingerite dal credente per captare la virtus sacra a fini propiziatori, terapeutici o profilattici. “I santi sono il veicolo della potenza divina, e la loro immagine è il canale attraverso cui questa forza può manifestarsi in terra” [p. 70]. Theodoro Picridios curò i suoi terribili dolori intestinali bevendo una sorta di miscuglio d’acqua e della terra santificata di un gettone con l’immagine di san Simeone Stilita (FIG. 2). Una ‘ricetta’ che d’altronde già consigliava Gregorio di Tours quando raccomandava ai pellegrini di fare dei gettoni della terra santa del Golgota per poi ingerirli.

Alla fine del Medioevo (ma ancora in tempi relativamente recenti), s’inventarono addirittura specifiche “statuette da grattare”, le Schabfiguren o Schabmadonnen. Queste figurine e madonnine di terra (presa da un dato santuario oppure mescolata con frammenti di una reliquia) erano dunque create a partire da una matrice, un’immagine miracolosa da cui estrarre la polvere da ingerire per curare patologie fisiologiche o mali spirituali. In modo analogo, fin dal XI secolo, si procedeva d’altronde anche con gli Agnus Dei, “sacramentali”riprodotti serialmente in cera, benedetti e consacrati dal Papa con cerimonia ad hoc durante la Pasqua, poi spediti ai quattro angoli del mondo. Questi portavano impressa l’immagine dell’Agnello accovacciato sul libro dell’Apocalissi e, sull’altra faccia, uno o più santi, iscrizioni insieme allo stemma pontificale. Una fonte di fine Seicento racconta della guarigione di una certa Maria Giuseppa delle Clarisse di Borgo di Valsugana, guarita da un male incurabile grazie all’ingestione di un pezzetto d’Agnus Dei; stessa terapeutica usata per il mal di denti di suor Eleonora Serafina Teresia.

Si sa, gli sviluppi delle tecnologie fanno evolvere anche le pratiche e le abitudini. Con l’invenzione della stampa, nel Quattrocento, appaiono santini eduli e Schluckbildchen (immaginette da ingoiare), figurine miracolose stampate in serie del cui commercio si occupavano parrocchie e santuari. Sorta di talismani cristiani da ingerire, questo tipo di santini servivano a essere sciolti, macinati o ridotti in bocconcini allo scopo di curare malattie e allontanare il male: san Biagio curava gli acciacchi di gola, la Vergine Maria favoriva la fertilità femminile, sant’Elena Imperatrice alleviava l’epilessia, sant’Agata curava la sterilità, san Bruno la peste e liberava i possessi ecc.
In tempi recentissimi, a scopi simili, si sono usate anche le fotografie! In certi riti segnalati in Egitto ed in Uganda, i fedeli raccolgono la terra toccata dal piede del prete carismatico Joseph K. Bill, la mettono in contatto con la foto di questi, poi il tutto è immerso nell’acqua per farne un’infusione, una pozione in cui è trasferito il ‘potere’ al contempo della terra toccata dal prete (contatto fisico) e del suo ritratto fotografico (contatto chimico).
L’ingestione rievoca precisamente l’immaginario religioso e mistico dell’incorporazione : prendere in sé, sciogliere in bocca, masticare, digerire, trasformare tramite il corpo, è profondamente ed esplicitamente più forte (ed efficace ?) del toccare o del vedere. Il modello archetipale di questo processo è la ruminatio delle Scritture, come raccontato già in Ezechiele 3,1 (“Figliuol d’uomo […] mangia questo rotolo, e va’ e parla alla casa d’Israele”): il Verbo s’incorpora all’uomo e si dipana nel mondo. Ma non solo. Come lo segnala Jérémie Koering, l’ingestione permette anche di integrare saperi profani: Erasmo da Rotterdam consiglia di far mangiare ai bambini biscotti a forma di lettere per facilitare l’apprendimento dell’alfabeto (lo si fa ancora!), così come Jonathan Swift nei suoi Viaggi di Gulliver racconta dell’accademia di Lagado e dei teoremi scritti con succhi cefalici su ostie mangiate poi dagli studenti. In modo analogo, l’incorporazione iconofaga equivale dunque ad un’assimilazione, ad un accorpamento delle ‘proprietà’ dell’immagine. Ma può anche diventare un atto d’integrazione comunitaria.
‘Commensalità’ iconiche
Partecipare a banchetti iconofagi vuol dire in effetti condividere virtus et potentia d’artefatti e immagini in rituali che istituiscono una comunità, e ugualmente rendere visibile la trama che unisce i suoi membri. In questo caso, l’iconofagia participativa è un atto di con-mensalità.
A questi conviti ci si ciba di artefatti prettamente commestibili, d’immagini sì da vedere ma soprattutto da mangiare. Il caso più clamorosamente evidente è quello dell’ostia eucaristica. L’ostia è quasi sempre stampata (impronta per contatto) generalmente con simboli ma anche con figure o scene complesse quali il Cristo in croce, la Crocifissione, l’Ultima Cena, l’Agnus Dei, il monogramma IHS, tutte iconografie legate all’istituzione dell’Eucaristia, alla Passione e al Sacrificio. Di questo tipo di ostie si hanno stampi antichi, usati sin da tempi remoti, come anche matrici recenti. Gli stampi da ostia, due piastre metalliche incise e rivettate insieme, venivano riempiti dell’impasto di farina e acqua, poi messi al cuocere. Durante la messa, tuttavia, il fedele non s’interessa e non partecipa al rito per mangiare l’immagine. Quando ingerisce l’ostia è perché essa è corpo e sangue di Cristo, presenza divina. Questa presenza è segnalata, esaltata e ricordata proprio dall’immagine impressa nell’ostia. La potentia dell’immagine-matrice, riprodotta innumerevoli volte, è anche lei ‘riattivata’ durante la celebrazione della messa in virtù della transustanziazione. I ferri da ostia funzionano dunque come un sigillo, producendo un’impronta che certifica l’unicità e l’efficacia del multiplo.

Se l’ingestione dell’ostia durante la messa crea la comunità non solo tra i credenti ma col divino stesso, nella prima e seconda modernità essa è anche l’oggetto delle critiche acerbe dei Protestanti che tacciano la Chiesa romana di “cannibalismo devozionale”. La polemica sulla transustanziazione è tuttavia all’origine di gustosissime immagini satiriche ideate da William Hogarth, comme quella in cui il Bambin Gesù viene letteralmente gettato da Maria all’interno di un marchingegno da qui fuoriescono le ostie.

Più seriamente, Jérémie Koering invita con attenzione e perspicacia a pensare anche a un altro tipo di commensalità iconofaga, versione profana dell’ostia. Le cialde stampate, fatte di farina, anice, zucchero ed acqua, erano prodotte in prima età moderna con ferri incisi, proprio come le ostie. E come queste, le cialde si offrivano ai commensali al momento di unioni matrimoniali, di battesimi o di altre occasioni solenni che riunivano il casato. Cialde e ostie eucaristiche hanno dunque una funzione comunitaria di stesso stampo. La cialda con lo stemma araldico, ma anche con ritratti e iscrizioni, permetteva di condividere ciò che fondava l’identità famigliare, dinastica: il lignaggio e il nome. Identiche e riprodotte in serie, le immagini impresse nella cialda erano mangiate in un rituale chiamato a consolidare i legami familiari e clientelari e a creare l’identità di una comunità. La specificità di questo è sottolineata, oltre che dallo stemma (o dagli stemmi nel caso di matrimoni) o dalle raffigurazioni impresse (e non solo dalla cialda), anche dalle iscrizioni. Il loro ruolo in questa condivisione si manifesta infatti nel fatto che esse indicano come una (sola) famiglia aveva il copyright esclusivo sui ferri da cialda incisi. Dunque, nelle ostie della messa e nelle cialde, come scrive Georges Didi-Huberman in La somiglianza per contatto, “da un lato, il contatto (o l’impronta) garantisce la potenza dell’unico; dall’altro, la generazione (o l’emissione) garantisce che questa potenza sia capace di riprodursi all’infinito – almeno finché esiste una matrice – e soprattutto che non si perda, che non si disperda nella dispersione che autorizza” (p. 72 dell’edizione francese – la traduzione è la mia).

Ultimo caso di commensalità istituzionalizzante che segnalo qui è quello, celebrato dal Vasari nelle Vite, delle cene organizzate da artisti e artigiani fiorentini nel Cinquecento. I membri della Compagnia del Paiuolo e di quella della Cazzuola (tra i quali Giovanni Francesco Rustici, Domenico Puligo, Aristotile da Sangallo, Andrea del Sarto) creavano sculture e architetture in miniatura fatte di quelle materie malleabili, «cose tutte buone da mangiare», che offriva la gastronomia locale, nella creazione di una parodia metaletteraria del banchetto di Trimalcione descritta da Petronio nel Satyricon. Capponi bolliti, gelatina, salsicce, formaggio, zucchero e marzapane erano i materiali da costruzione di un tempio, le cui iscrizioni erano fatte di grani di pepe; un’oca arrosto diventava un fabbro al lavoro, mentre un maialino serviva a fare l’immagine d’una serva che filava la lana… Episodi peri-artistici che fanno della diversione, della parodia, dell’iconofagia un argomento decisivo del concetto stesso di creazione artistica, che dalla pratica “seria” passa alla serietà gioiosa del banchetto.
Sculture e dipinti di zucchero, gelatina e burro corredavano già le feste dei principi nel Rinascimento: offerte dal re del Portogallo a papa Leone X nel 1513, le statuette di zucchero raffiguranti il pontefice con dodici cardinali ricordavano quelle realizzate per le nozze di Ercole d’Este e Isabella d’Aragona nel 1487, e prefiguravano quelle di Jacopo Sansovino o Giambologna per le festività delle corti a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Nell’Europa barocca, altri artisti celebri come Ercole Ferrata o Johann Paul Schor, entrambi allievi del Bernini, disegnarono complesse decorazioni (trionfi, spongade in Italia; sotelties, in Inghilterra) in marzapane e altri alimenti. L’uso di materiali commestibili, come indicano J. Montagu e K.J. Watson, ebbe un impatto non indifferente sulla pratica scultorea barocca. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, queste sculture commestibili non furono pensate per essere mangiate. Dubito però che ci si limitò solo ad ammirarle con gli occhi… Come non immaginare un nobile commensale rompere il braccio di una Venere antichizzante in zucchero per assaggiarne gratia e beltade ?
Epifanie artistiche, espressioni di un rinnovato corporativismo professionale o oggetti paragonabili a mirabilia, queste opere hanno un ruolo decisivo nella formazione di mitologie artistiche attraverso la diversione burlesca, l’autoironia degli artisti stessi, com’anche il gusto per il grottesco, il capriccio e la maraviglia. Anche questi artefatti di cui solo la letteratura ci tramanda la memoria s’integrano perfettamente e specificamente nella trama tracciata con sagacia e erudizione dal libro di Jérémie Koering.
La storia della divorazione d’immagini non finisce certo qui. Lascio scoprire al lettore le numerosissime altre pratiche iconofaghe che il libro rivela. Lascio da parte anche certe mie considerazioni, più terra terra, sull’iconofagia quotidiana contemporanea (penso alle caramelle zoomorfe, alla pastina-alfabeto oppure ai sorprendenti selfies toasters). Più seriamente Les Iconophages ricorda come il cinema hollywoodiano recente abbia trattato della famelica brama per l’artefatto artistico: Francis Dolarhyde, l’inquietante serial-killer del film Red Dragon (Brett Ratner, 2002), è il personaggio psichicamente logorato dall’ossessione per The Great Red Dragon and the Woman clothed by the Sun di William Blake. In una delle scene del film, Dolarhyde va nel museo dove l’opera è conservata e la divora letteralmente spinto da una irrompente pulsione d’assimilazione, di distruzione e di captazione della materia stessa dell’immagine.
Perché la potentia dell’immagine, piuttosto che la sua agency, non è solo un fatto di visibilità! L’immagine non è soltanto ‘colta’ e rielaborata dallo sguardo in quanto fenomeno prettamente visivo. Les Iconophages rivela proprio come la corporeità, la sostanza e le sostanze che rendono tangibile, integrabile questa visibilità, e che partecipano all’agency stessa dell’immagine, hanno un rapporto antropologicamente complesso, atavico al corpo, rivelando dunque che, oltre alla vista e al tatto, si possono assimilare immagini anche per via orale, atto di divorazione e di assimilazione che modifica sostanzialmente il rapporto all’arte, al mondo, al cosmo, la cui forza è captata attraverso il corpo e grazie alla materialità stessa dell’immagine. È anche in questo che sta “il potere delle immagini”.

Jérémie Koering
Les Iconophages. Une histoire de l’ingestion des images
Actes Sud, Arles 2021
pp. 352, € 34
In copertina: Godfried Schalken, Ragazzo con crêpe/volto, 1670-1680 ©Hamburger Kunstalle, Amburgo