Troppo a lungo considerate le sorellastre minori del Gruppo 63, la Poesia Visiva e la Poesia Concreta stanno conoscendo, negli ultimi anni, una meritata (quanto tardiva) agnizione accademica. Se per raggiungere il famigerato ‘pubblico medio’ la produzione sperimentale degli anni Sessanta ha ancora bisogno di una massiccia campagna di (ri)edizioni – che rendano universalmente accessibile il patrimonio librario verbo-visivo, attualmente appannaggio di Fondazioni illuminate (oppure ostaggio di qualche collezionista lungimirante) –, l’università sembra essersi finalmente accorta di aver liquidato troppo facilmente una stagione culturale complessa e stratificata. Questo processo di rimozione ermeneutica era destinato, prima o poi, a restituire al mittente il proprio ingombrante ‘rimosso’, e questo è avvenuto significativamente in un’epoca a dominante iper-visiva, in cui anche i filologi più testuali sono stati costretti ad ascoltare la sirena dell’interdisciplinarietà. Tuttavia, trasformare queste Cenerentole in regine del ballo delle debuttanti (fuor di metafora, il gran gala della canonizzazione borghese) richiede alcune cautele metodologiche – per evitare che, sotto al trucco e ai lustrini, queste due ragazzacce svelino la propria indole demistificatoria, esibendosi in una sonora linguaccia di fronte al pubblico dei dipartimenti d’italianistica.
Il libro di Teresa Spignoli, in primo luogo, ha l’enorme merito di ‘fare spazio’ (letteralmente) al discorso sulla produzione verbo-visiva degli anni Sessanta e Settanta, attraverso una rete di studi, riflessioni e conferenze maturate a margine del progetto Verba Picta. Interrelazione tra testo e immagine nel patrimonio artistico e letterario della seconda metà del Novecento (Università di Firenze, 2012-2016). Il volume si articola in tre capitoli, che rappresentano altrettante modalità di avvicinamento alla questione verbo-visiva. Il primo segmento (intitolato L’eredità dell’avanguardia) costituisce la necessaria premessa storiografica, che ripercorre – anche a uso del lettore non specialista – la genealogia ideale di queste scritture. In particolare, dopo aver ricordato l’esperienza proto-collagistica del papier collè, Spignoli individua nel paroliberismo futurista l’autentico antenato della poesia visiva e concreta. La ricostruzione di questo albero genealogico si rivela particolarmente significativa non soltanto (e non tanto) per la necessità di contestualizzare diacronicamente il fenomeno verbo-visivo – già avvertita e sistematizzata in alcuni importanti contributi, come il poderoso Visual Poetry. L’avanguardia delle neoavanguardie (a cura di Giosuè Allegrini e Lara-Vinca Masini, Skira 2014), ma piuttosto per un’implicita scelta di campo di fronte al raccoglitore (troppo spesso mescolato e dispersivo) delle cosiddette avanguardie storiche. Accentuare la matrice futurista significa, infatti, evitare il presenzialismo della vena surrealista considerata, nella vulgata critica, l’unica madre putativa degli sperimentalismi secondo-novecenteschi. E forse sarà opportuno riflettere, prima o poi, sull’influenza parallela e più insidiosa del dadaismo – la più dimenticata tra le avanguardie tradizionali, quantomeno nei resoconti bibliografici italiani.

Nei capitoli successivi (intitolati, rispettivamente, La poesia concreta e l’utopia di un «umanesimo scientifico e La poesia visiva e l’«avanguardia di massa») Spignoli propone, invece, un’analisi strutturata in forma di dittico speculare, in cui le due pratiche verbo-visuali vengono chiamate a testimoniare la propria versione dei fatti, in una sorta di intervista doppia sui delicati rapporti intrattenuti con l’iconosfera e con il contesto culturale degli anni Sessanta. A partire dalla sollecitazione di alcune parole-chiave particolarmente significative (che potremmo riassumere nella triade di spazio, supporto e società), Spignoli mostra con invidiabile chiarezza espositiva le diverse risposte formulate dai due movimenti. In primo luogo, mentre la poesia concreta si rivolgerà prevalentemente verso uno «spazio interno» (quello della pagina tipografica, su cui vengono distribuite architettonicamente e plasticamente le lettere), la poesia visiva tenderà a espandersi verso uno «spazio esterno» ed estroflesso (quello del cartellone pubblicitario o dell’installazione ambientale-performativa). Per quanto riguarda il supporto, invece, la comune fuoriuscita dal perimetro del libro, considerato ormai un contenitore del tutto inadeguato per veicolare (e, quindi, per modificare) il presente, comporta una ‘diffrazione’ del messaggio linguistico, che colonizza la superficie murale insidiandosi addirittura nei meandri della viabilità pubblica. La «parete» della poesia concreta e la «strada» della poesia visiva rappresentano le due dimensioni di una nuova interfaccia artistica concorrenziale rispetto al foglio tradizionale.

La pagina cartacea, anche laddove sembra ancora in uso presso i poeti concretisti, verrà in realtà assunta – à la Derrida – come «soggettile» (attivo) e non come oggetto (passivo) di un riuso inerzialmente tramandato dagli albori della civiltà della stampa. Di fronte alla società, infine, l’«utopia di un umanesimo scientifico» enunciata dalla poesia concreta – alla ricerca di una chimerica fusione dei saperi (il cui paradigma ideale è rappresentato dal collettivo interdisciplinare del Bauhaus) – verrà contrapposta, nell’analisi duale di Spignoli, alla strategia messa in atto dalla poesia visiva, che risponderà con la provocatoria formula dell’«avanguardia di massa». Al laboratorio abitato da designer e architetti che sognano, dalle finestre del proprio studio, raffinate (quanto radicali) rivoluzioni urbanistiche, il Gruppo 70 (fondato a Firenze, nella primavera del ’63, da Lucia Marcucci, Eugenio Miccini, Luciano Ori e Lamberto Pignotti) contrappone insomma una vitalistica «guerriglia semiologica» combattuta direttamente sulla pubblica piazza, contendendo alla società dello spettacolo i suoi stessi territori (murali, editoriali, pubblicitari). Sicuramente l’urbanistica rappresenta, per Spignoli, il vero punto di sutura tra le ricerche della poesia concreta e visiva – in una sintesi finale sancita proprio dal Festival Parole sui muri di Fiumalbo, che, come specifica l’autrice nella Premessa, «costituisce un esempio di sintesi tra le diverse istanze delineate nel volume». Se, fin dai tempi del saggio di Roland Barthes su Semiologia e urbanismo (1967), la città rappresenta un sistema di segni quasi concorrenziale, a livello di densità semantica, rispetto al codice verbale, per questi due movimenti poetici il tessuto urbano si trasforma senza ombra di dubbio nel nuovo ‘libro’, da scrivere e sovrascrivere attraverso il pennino affilato del collage. Poesia visiva e poesia concreta si trovano così a braccetto nella missione di convertire esteticamente le città (e i loro abitanti), in un ‘lieto fine’ urbanistico delle reciproche avventure.
Se una pecca si vuole trovare al volume di Spignoli – come, del resto, è compito ingrato di qualsiasi recensione –, è proprio che i conti tornano troppo, e l’avventura rischia di diventare, a tratti, un matrimonio di comodo. La volontà di far quadrare il bilancio storico – il famoso vestito elegante cucito su misura nella boutique degli studi specialistici – non mette sufficientemente in evidenza le differenze e i punti in cui le cuciture inevitabilmente saltano (e, non di rado, è proprio là dove viene a strapparsi il bottone del significante, al contrario, che si riesce a intravedere la pelle del significato).

A un’iniziale contestualizzazione storiografica Spignoli predilige, nel resto del volume, un approccio sincronico, disponendo su un unico asse sintagmatico le diverse tecniche inventariate – ad esempio, l’utilizzo dei ritagli dai rotocalchi in Stelio Maria Martini presentato come ‘omologo’ dei manifesti futuristi. A questa consanguineità trans-storica, sul piano degli esiti formali, non corrisponde, tuttavia, un affondo relativo a quelle specifiche pratiche che, negli stessi anni, si servivano (apparentemente) della medesima prassi collagistica – si pensi soltanto al décollage di Mimmo Rotella, oppure al grande convitato di pietra della Pop Art. Cosa significa incollare un ritaglio di giornale dopo il trionfo di Robert Rauschenberg alla Biennale? È ancora praticabile un rapporto ermeticamente chiuso con le avanguardie storiche senza il fardello della stagione pop, con cui questi artisti si trovavano (volenti e, più spesso, nolenti) a fare i conti?
E infine è davvero possibile separare rigidamente il discorso sul Gruppo 70 dall’egemonia culturale esercitata dal Gruppo 63 e dai poeti del Mulino di Bazzano (Adriano Spatola, Corrado Costa e Giulia Niccolai)? Nonostante le indiscutibili differenze, sul piano della prassi e su quello (ancor più spinoso) dell’ideologia, l’analisi delle stesse riviste interdisciplinari citate da Spignoli (da «Documento Sud» a «Marcatrè») rivela una rete di scambi e sovrapposizioni ben più ‘meticciata’ di quanto non possa sembrare attraverso le tassonomie antologiche a cui la manualistica ci ha ormai didascalicamente abituati. Sarà necessario, forse, riscoprire le poesie visive di Antonio Porta e di Alfredo Giuliani, ad esempio, per iniziare a vedere quanto, negli anni Sessanta, ‘visivo fosse il mondo’ (e non soltanto lo sguardo dei poeti concreti o propriamente visivi).
A partire dall’eliminazione di queste barriere eccessivamente intradisciplinari sarà possibile tracciare una doverosa storia delle differenze. Dopo un libro sullo spazio interno e sullo spazio esterno delle scritture verbo-visive, insomma, aspettiamo l’avvento di un volume sullo spazio intorno, ossia rivolto al contesto culturale che costituisce il campo di azione e reazione in cui, sulla base di alcuni comuni stimoli provenienti da un’iconosfera denunciata e ‘cannibalizzata’ dall’intera comunità degli scrittori coevi, la poesia concreta e visiva sono riuscite a elaborare un effettivo scarto rispetto agli altri movimenti a dominante visuale. E proprio questo clic differenziale, che non risiede soltanto nella metamorfosi della pagina o della pubblica piazza, rende ancora (o soprattutto?) oggi questa stagione verbo-visiva absolutement (anti)moderne.
Teresa Spignoli
La parola si fa spazio. Poesia concreta e Poesia visiva
Pàtron, 2020, 232 pp., € 23
In copertina: Lamberto Pignotti, Rivolta e poesia, 1965, collage su carta, 365 x 505 mm