Della visita al Fitzwilliam Museum di Cambridge ricordo la poderosa versione tarda del Tarquinio e Lucrezia (1570) di Tiziano, con le tracce dei polpastrelli del maestro impresse a segnare le pieghe delle vesti in un gorgo di materia pittorica, ma anche, nella sala accanto, la tazzina di Henri Fantin-Latour. Una porcellana, appena sfaccettata, un oggetto d’uso, ma che emana una sua luce interna. Forse studio per composizioni quali la Natura morta con tazza e bicchiere, 1861 (Londra, coll. Astor of Hever), la tazzina non appare però come un appunto frammentario, anzi colpisce per la sua forma limpida, una sorta di haiku, nella quale il ricordo di Chardin si mescola all’interesse per l’arte del Seicento, soprattutto olandese, suscitato da pubblicazioni quali Maîtres d’autrefois (1858) di Théophile Thoré Bürger o dalla biografia di Eugène Fromentin dedicata a Vermeer, artista fino a allora quasi ignorato. Uno sguardo che ben traduce lo spirito con cui Fantin Latour risponde al clima di quei decenni, nella Parigi di Napoleone III, tra il caotico bazar delle Esposizioni Universali e i primi fermenti di poesia simbolista (simile tazzina ritroveremo infatti in un ritratto di gruppo, posata di fronte a Arthur Rimbaud e Léon Valade nel Coin de table del 1872). Una disposizione contemplativa che non ha più nulla a che spartire con l’échauffement del periodo romantico, quando il bozzetto traduceva invece la foga dell’ispirazione venuta all’improvviso: «il vento suona la mia vecchia arpa come gli piace suonarla, ha i suoi alti e suoi bassi, ha anche le sue défaillances, ma in fondo basta che l’emozione venga»[1] scriveva la romantica George Sand, intorno alla metà del secolo, a un posatissimo e rigoroso Gustave Flaubert, per il quale era invece motivo di soddisfazione l’aver corretto in una giornata otto righe di Madame Bovary. Nel disinteresse per qualsiasi aspetto suasorio, senza alcun indugio descrittivo, quella porcellana resta, nella sua spoglia apparenza, un recipiente pronto a accogliere pensieri diversi.
Finora sono riuscita a non nominare, parlando del dipinto di Fantin Latour, il genere al quale nella lingua italiana, francese, spagnola, si riferirebbe: natura morta. Avrei infatti dovuto dire natura viva o natura silenziosa, come nella tradizione del Seicento olandese (stilleben), poi adottata anche in ambito anglosassone. Perché pronunciare ora il colpevole aggettivo di morta, coniato nella seconda metà del Settecento, dovrebbe farmi sentire un po’ a disagio, come se stessi usando aggettivi quali “negro”, “sordo”, “cieco”. La definizione di natura morta risale infatti al francese nature morte, coniato nel 1756, perché prima si trattava di composizioni con fiori, frutta, o – quando erano presenti diverse varietà di uno stesso frutto o fiore – di “campionari”. Vasari per descrivere quei soggetti ricorreva, riferendosi a Giovanni da Udine, a frasi quali: «riusciva contrafare benissimo… tutte le cose naturali, d’animali, di drappi, d’instrumenti, vasi, paesi, casamenti e verdure»[2], mentre Carlo Cesare Malvasia riguardo ai seguaci di Caravaggio annotava: «Si son posti a seguitare la strada del Caravaggio, che tutta è intenta ad oggetti di ferma, non di moti vivaci, che vengono dall’intelletto, e che si eseguono con il possesso del disegno»[3].

Il mio commento leggermente ironico è suscitato dall’aver concluso la lettura di Pour en finir avec la nature morte, un saggio di Laurence Bertrand Dorléac edito da Gallimard nel 2020. Il volume aveva attirato la mia attenzione sugli scaffali della libreria parigina di Yvon Lambert, un po’ per il richiamo al titolo dell’opera radiofonica di Antonin Artaud del 1948, Pour en finir avec le jugement de Dieu, e un po’ perché Lambert mi stava mostrando, esposte negli spazi della libreria, alcune foto di Cy Twombly, che ritraevano interni della casa di un collezionista francese, oggetti, fiori, piccole sculture, immagini simili ad altri celebri scatti dello stesso pittore, con nature morte ‘alla Morandi’, bottiglie, rose ma anche marmi antichi.

Efficace, oltre al titolo, l’immagine di copertina del libro di Dorléac: la foto Cabeza de vaca (1984) di Andreas Serrano, un chiaro riferimento alla testa di mucca con l’occhio sgranato dipinta da Goya, ma anche alle membra umane tagliate, rese ‘nature morte’ sul tavolo di posa, di Théodore Géricault. Immagine che rimanda ad altre nelle quali Serrano ha ugualmente guardato al francese, come la serie Morgue (1992), frammenti di cadaveri all’obitorio – un piede, una mano, un volto – ritratti con gelida purezza, già presente nella testa di bue posata sanguinante su un piedistallo marmoreo. Più che una ricognizione sul genere della natura morta nei secoli, il proposito del libro, come lo stesso titolo Pour en finir avec la nature morte apertamente dichiara, è la messa in discussione, una volta per tutte, della definizione ‘morta’, che l’autrice indica, in modo molto perentorio, come «stupida» perché la natura morta «è sempre stata viva». Il suo statuto giuridico, ci avverte, è stato inoltre rivendicato da pensatori come Philippe Descola. Per lottare contro gli effetti dell’Antropocene è dunque importante, a giudizio dell’autrice, non solo ridare voce a piante, fiori, mele, conchiglie, coralli, nelle composizioni dei dipinti dei secoli trascorsi ma anche alle ‘cose’.

Tuttavia, che queste ultime non siano manufatti ‘inanimati’ non è certo una novità: Dorléac stessa, peraltro, propone rimandi letterari, che vanno da Victor Hugo nelle Contemplations («et l’oreille pourrait avoir sa vision/car les choses et l’être ont un grand dialogue»), a Henri Michaux, il quale, per porre argine al suo stato di irrequietezza, mette una mela sulla tavola e poi si “mette” nella mela trovando pace, fino a Francis Ponge, che chiede di dar voce agli umili, «il ciottolo, l’operaio, il gamberetto, il tronco d’albero e tutto il mondo inanimato», azzerando quindi le differenze tra umano e ‘altro’. Agli esempi ricordati da Dorléac ne potremmo aggiungere tanti altri: le cose quale stimolo per evocare ricordi del passato, come in Marcel Proust; sintomo della nausea del vivere, come in Jean-Paul Sartre; «merci opache di cui si può cogliere la poesia solo considerandone la marca e disponendole in serie e in elenchi», come in Georges Perec; «misteriose e giocose entità indipendenti» come in Alain Robbe-Grillet[4], oppure icone che condensano in sé l’intero svolgimento narrativo, come in Hitchcock.
La peculiare difesa del genere artistico compiuta da Dorléac, ricordando che nella tradizione olandese/anglosassone si tratta fin dal Seicento di «natura immobile/silenziosa», ha però l’accento di una sorta di rivendicazione politica: la dignità della natura morta/immobile da riconquistare è quella di una minoranza cui dar voce, come a altre minoranze, etniche, di genere, o a quelle immagini cui Mitchell, nel 1992, chiede cosa ‘vogliano’. Dorléac è anche la curatrice, insieme a Dimitri Salmon (collaboratore scientifico del Louvre), della grande mostra Les choses che si terrà dal 12 ottobre 2022 al 23 gennaio 2023 al Louvre e che reca come sottotitolo Histoire de la nature morte depuis la préhistoire. Il pretesto è quello di celebrare la storica esposizione dedicata alla natura morta dall’antichità al XX secolo, curata da Charles Sterling nel 1952, ma con l’intento di rinnovare le prospettive, di «aprirsi su altre culture» nelle quali gli oggetti sono rappresentati «in maestà», «integrando tutto quel che ha rinnovato le nostre prospettive, sia riguardo l’arte antica e contemporanea, sia riguardo letteratura, poesia, filosofia, botanica e ecologia», come si legge nel sito del museo. Mutare insomma il nostro sguardo sul passato e sul presente, ragionando sulle relazioni che si stabiliscono tra mondo vivente e non vivente, allineandosi alle teorie di studiosi quali Arjun Appadurai, Nancy Farriss e Lee Cassanelli, i cui scritti sulla vita sociale delle cose portano a guardarle non più come «segni», alla Roland Barthes, ma come «attrici» vere e proprie.
Considerare ciò che è «fermo», apparentemente inerte, come un essere vivente, è anche il tema di un saggio di Remo Bodei. Ne La vita delle cose (2009) è infatti chiarito il passaggio dall’«oggetto» a «cosa» in quanto derivazione del causa latino. Non l’oggetto fisico, dunque, ma quel che riteniamo così importante da coinvolgerci e da farci intervenire in sua difesa. Se investiti di affetto, gli oggetti (dal latino obiectum, participio passato di obicĕre, cioè gettare contro) si liberano della loro concretezza materica e funzionale e divengono cose, simboli e concetti, distinguendosi dai valori della merce, d’uso e di scambio. In quanto causa, una cosa ci coinvolge, ci rende partecipi, empaticamente, di una vita unica e irripetibile. Non più un ostacolo da superare né da sottomettere, le cose, inerti, non sembrano ricambiare i nostri investimenti ideali, ma se prestiamo orecchio alla «voce inascoltata della realtà» (René Girard), esse ci guidano «nella direzione del loro progressivo rivelarsi», a superare la nostra mediocrità. Tornado a Dorléac, amare le cose, non solo gli alberi o gli animali, ci porterebbe, forse, perfino ad amare di più gli esseri umani. A tali conclusioni erano peraltro giunti, negli anni Ottanta, David Miller e Fiona Panott, svolgendo un’inchiesta a Parigi tra i residenti della rue de Londres. Le persone più legate alle cose erano parse più capaci di manifestazioni affettive nei confronti dei loro simili. Una tesi, quest’ultima, che sembrerebbe scontrarsi con quella formulata da Jean Baudrillard nel Sistema degli oggetti (1968), il quale vedeva anzi nell’attaccamento ad essi il surrogato di un rapporto umano. La mania del collezionismo, notava Baudrillard, è infatti propria dei bambini prima della pubertà per poi tornare a manifestarsi nelle persone mature, mentre diminuisce nella stagione della vita che ci vede più capaci di attrazioni fisiche. Un’applicazione molto schematica di questa teoria la troviamo nella trama del film di Giuseppe Tornatore, La migliore offerta (2013) col protagonista battitore d’asta, innamorato della propria segreta raccolta di ritratti femminili, che perde il controllo della sua collezione solo quando si innamora di una donna in carne e ossa.

Tuttavia, la ‘vita’ delle cose che preme ribadire alla curatrice della mostra parigina, docente a Science Po, riguarda precisamente la loro agency indagata da Igor Kopytoff, o da Bruno Latour, che insiste sulla interconnessione e reciprocità tra cose e esseri umani, invocando un loro parlamento in quanto «actants». Le cose difese da Dorléac non possono essere quelle evocate da Jorge Luis Borges, che «ci servono in silenzio come schiavi / cieche e misteriosamente segrete! / Dureranno ben oltre il nostro oblio; / non sapranno mai che ce ne siano andati»[5]. Tuttavia, abbiamo davvero bisogno di chiamare gli oggetti «natura viva» per ricordarci che le cose hanno una loro vita? Il guardare a una tazzina come a qualcosa che vive e respira, ci renderà davvero più buoni e consapevoli del mondo che ci circonda? E, se la crociata di Dorléac può anche esser frutto di una riflessione sugli scritti dell’antropologo Tim Ingold, che in Making (2013)contrappone il produrre con il pensiero, proprio del filosofo, al pensare tramite il produrre, proprio dell’artigiano – il quale pratica l’arte dell’indagare, stabilendo una relazione di ‘corrispondenza’ con il mondo -, ciò che traspare nel tono della studiosa è un leggero disprezzo nei confronti del diciannovesimo secolo, molto diffuso tra gli intellettuali e mai scomparso dal tempo delle avanguardie storiche.
L’Ottocento, colpevole di aver usato l’aggettivo morta per i soggetti di un genere pittorico, è spesso indicato come il secolo delle tazzine, delle «buone cose di pessimo gusto» care a Guido Gozzano, del mondo conservatore e reazionario, nel quale lottano, pensando alla Francia, eroi come Courbet e gli impressionisti. Una simile idea stereotipata, ma storicizzabile, si coglieva visitando la mostra Arts and foods. Rituali dal 1851 del 2015 al Palazzo della Triennale di Milano, ideata da un pur grande curatore: Germano Celant. Il tema dell’alimentazione, argomento dell’Expo, era affrontato proprio a partire dal XIX secolo che occupava le sale del pian terreno. Il visitatore era calato nel presunto spirito del tempo da aiuole di prato di erba finta sul quale erano carrozze e calessi, da vetrine di legno, da piccole specchiere e credenze ripiene di porcellane o di altri ninnoli, da mobili da bistrot e da dipinti di non grande qualità (anche se opera di maestri notevoli) oppure da altri esposti smembrati, come nel caso di Asfissia di Angelo Morbelli (1884), il cui titolo era reso incomprensibile dalla sola visione di una tavola ancora apparecchiata con i resti di un pasto, avendo omesso il pannello con i due amanti suicidi sul divano nella stanza fumosa. Al termine di un percorso faticoso ma che volutamente rendeva poca giustizia alla complessità di quel secolo, si accedeva al piano superiore, l’empireo, dove erano invece opere contemporanee di gran tono e significato. Un atteggiamento simile a quello espresso negli stessi anni da Cristiana Collu nel riallestire la Galleria Nazionale di Roma, dove buona parte dell’Ottocento non relegato nei depositi (eccetto alcuni grandi esempi di dimensione monumentale) è quello più lezioso, patetico, funzionale a una lettura precostituita, in modo da far poi emergere, come da un grande lavacro, l’arte del XX secolo.
Resta da chiedersi se la mostra Les choses al Louvre, il cui taglio critico, in maniera giusta, legittima ed accattivante, intende riattivare il dibattito intorno a quel genere pittorico, non vedrà però calare sull’Ottocento la solita scure revisionista, politicamente corretta, ma tesa a mantenere quel secolo in una prospettiva forse troppo limitata e limitante.

[1] G.Flaubert – G. Sand, Correspondance (1884), ed. cons. a cura di A. Jacobs, Flammarion, Parigi 1981, p. 47.
[2] G. Vasari, Vita di Giovanni da Udine in Le Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori e Architettori, Firenze, 1568.
[3] C.C. Malvasia, Felsina pittrice, Vite de’ Pittori Bolognesi, Bologna, 1678, II, p. 63.
[4] Le definizioni sono di O.Pamuk, in Romanzieri ingenui e sentimentali (2010), Einaudi, Torino 2012, pp.75-76.
[5] J.L. Borges, Le cose, in Elogio dell’ombra (1995), Adelphi, Milano 2017, p. 56-57.
In copertina: Henri Fantin-Latour, Tazza bianca con piattino, 1864