Soltanto da poco tempo è arrivato in Italia il lavoro di Mark Fisher. L’impareggiabile innesco e merito spetta a Valerio Mattioli che ha tradotto (e prodotto, diremmo) Realismo capitalista per Nero nel 2018 (la pubblicazione originaria risaliva a quasi dieci anni prima, nel 2009). Da allora minimum fax sta pubblicando gl’interventi che hanno segnato l’attività principale di blogger dello scrittore inglese (e non solo): a differenza della scelta editoriale anglosassone, che in un solo volume ha proposto al lettore tutta l’esperienza di «k-punk» (blog tenuto dal 2004 al 2016), l’editore romano ha scelto di scomporre l’opera in cellule tematiche, procedendo per isomorfismo epistemologico. Così, dopo gli scritti politici del Nostro desiderio è senza nome (2020) arriva adesso questo Schermi, sogni e spettri.
Che consistenza hanno le immagini di questo libro? Immagini evocate e mai mostrate, neanche come lacerti. Sono immagini porose, perdono in nitidezza anche se sono a ultra-definizione, grossolane anche se stereoscopiche e potenzialmente vertiginose (come per Avatar). Sono immagini ripescate da un archivio, impolverate, organizzate per pacchetti discreti, per quanti di energia fotonica (i drammi di Dennis Potter, la serie leggendaria Doctor Who); sono l’epitome del digitale, hanno cioè la consistenza molecolare degli spettri, compongono una sinfonia infestante.
«L’inevitabile fallimento delle nostre vite nel corrispondere all’Ideale Digitale è uno dei motori della passività lavoratore/consumatore del capitalismo, l’inseguimento remissivo di qualcosa che sarà sempre sfuggente, di un mondo privo di crepe e discontinuità». Si dovranno pur aprire le finestre, un giorno, dare aria alle stanze di questa casa soffocata nella mestizia, nel grigiore gocciolante dell’istruzione anglosassone, nella malinconia dei nostri orizzonti, nell’indifferente passaggio dei nostri corpi su questo terreno sterile, sulla waste land perpetuamente replicata che è un foglio di carta appiccicato con colla tossica sui muri di un distretto post-industriale, post-tutto, postumo a se stesso.
Il postmoderno è un mostro proliferante, una macchina d’infinite «permutazioni narrative», come Spider di Cronenberg: genera moltiplicazioni di sé, detour, continue erranze dal proprio centro. Del resto funziona, in termini culturali, perché è a-centrico, perché rifiuta ogni centralizzazione, ogni verticalizzazione; perché sulla superficie liscia delle sue immagini dissemina doppioni che sviano, come il Danny Torrance di Shining, che «ripercorre all’indietro i suoi passi». Tutto è fagocitato: lo stesso mezzo che Fisher usa non per “l’occasione” (come avrebbe potuto fare un suo progenitore letterario e filosofico, cioè Günther Anders), ma “a causa della situazione” – la blogosfera germina continue possibilità di scrittura, di espressione, ri-modula le disponibilità delle fanzine a intercettare fenomenologicamente fatti culturali, tendenze, linee di movimento – anche il blog «k-punk» («K veniva usato come sostitutivo visceralmente preferibile al cyber […] punk […] definisce […] una confluenza al di fuori di uno spazio legittim(at)o») è una «riasserzione del potere spettacolare». E allora di fronte a questo sortilegio ottico Mark Fisher prende a prestito un lemma che Derrida inventa in Spettri di Marx e lo usa come «sosia» del postmoderno: l’hauntologia, categoria che gli permette di saldare psicanalisi, critica ideologica, teoria culturale.
La condizione umana postmoderna – quella piena maturità moderna, per dirla alla Jameson: la sua ironia depressoide, il senso di paranoia, la lugubre giocosità in assenza di qualunque cosa che abbia senso – è determinata da una ormai impossibile realizzazione utopistica. Il secolo delle idee, delle visioni, delle ideologie, il Novecento è terminato: il carburante della Storia pare esaurito insieme al crollo sovietico. Anche questa messinscena postindustriale è un balletto ectoplasmatico: l’ideologia morde con più ferocia quando, come nel tardo capitalismo, si dichiara a-ideologica. Del resto, ogni promessa rivoluzionaria, il Sol dell’avvenire, il Regno cristiano sono adesso orizzonti negati. Tuttavia, è importante notare che queste visioni non sono semplicemente defunte: esse sono morte come larve, come potenziale senza atto, esauste, come dice Agamben a proposito del personaggio di Beckett (a sua volta filtrato da Deleuze): i sogni di liberazione – sociale, umana, economica, proletaria, rivoluzionaria, post-coloniale – sono stati disattivati, lasciati in uno stato di possibilità frustrata in partenza, possibilità che si è esaurita nell’atto senza esprimersi. Siamo nelle viscere del «non più».
Allo stesso modo, la pervasività delle tecnologie digitali, il quasi automatico salvataggio di tracce scie luminescenti assalti al cielo, ha permesso che essi sopravvivessero sotto forma di archivi, in sottosuoli digitali. «Shining» – si legge nell’articolo Sei sempre stato il custode – «riguarda fondamentalmente il problema della ripetizione. […] Derrida definisce l’hauntologia come lo studio ciò che si ripete senza essere mai presente». E ancora: «è il fantasma della rivoluzione a ossessionare Marx e [Chris] Marker, ossia il timore che la rivoluzione alla fine si dimostri fantasmatica […] se Marx e Marker temevano che la rivoluzione sarebbe stata soltanto un fantasma, il nostro sospetto è che non si rivelerà mai neppure quello, che i suoi spettri sfibrati siano stati spazzati via una volta per tutte (e neanche la “morte del comunismo” è abbastanza per i guardiani del nuovo status quo».
Siamo nel «non ancora». «Non più» e «non ancora»: è questo il limbo terrificante – che riprende, rovesciando i poli dialettici, l’esperienza di Anders riferita alle generazioni umane nell’intervallo tra gli spasmi sulfurei delle ipotetiche rivoluzioni e l’eschaton eventuale delle esplosioni atomiche – nel quale viviamo e del quale Fisher ci parla. Fatalmente, le élites utilizzano a proprio beneficiola consistenza spettrale del tempo utopistico della possibilità: lo svuotano di significato e lo rivestono con una pellicola seducente; lo convertono cioè in un «modello nostalgico» (la «retromania» di cui parla Simon Reynolds, partner in crime di sempre)
Fisher sapeva di essere un “sintomo” più che un interprete. Come scrive Pietro Bianchi nella sua recensione invano si cercheranno tracce di estrema originalità e forza nelle pagine fisheriane: tuttavia si troverà sempre uno scrittore all’opera, un pensatore la cui pragmatica interpretativa del reale si auto-aggrega in costrutti teorici, i quali non possono fare a meno degli oggetti della cultura pop che studiavano, perché è sempre stato «attraverso» e non «su» la cultura pop che Fisher – e tutta la band della CCRU – tessevano la loro mappa fenomenologica.
Quei prodotti culturali, quelle immagini che provenivano dal passato o dal presente, che chiedevano di essere goduti con un’energia imperdonabile, con il sentimento ammalato per il tempo perduto, erano macchine mitologiche, armamentario neoliberista, seduzione narcotica per le masse. Immagini extra-lucide, depurate di scorie e, dunque, sterili. «Nel mediocre melodramma che ci chiedono di chiamare realtà adulta quello che sparisce non è la fantasia ma il perturbante: il senso che non tutto è come sembra, che la prosaica quotidianità è una facciata dietro cui complottano forze parassitarie e aliene che ci possiedono e controllano, o che hanno piani su di noi. In altre parole, la credenza soppressa della fiction perturbante è che è QUESTO mondo, il mondo del senso comune liberal-capitalista, a costituire un palcoscenico fatto di mura traballanti».
Per la loro estrema pulizia, come dopo un passaggio della gomma arabica, ogni immagine-prodotto si offriva allo sguardo di Fisher nella sua forma di merce: a quel punto lui trovava aperture, fenditure su quella levigatezza. Si metteva in cerca di quelle fessure che potevano aprirgli un varco, che potevano non tanto essere decrittate, ma “giocate” molto seriamente all’interno di un continuo gioco di superficie che è il terreno dove, almeno secondo Lacan, si gioca la partita dell’inconscio.
Nel suo celebre pamphlet Realismo capitalista Fisher aveva capito che la nostra realtà è una «simulazione». Del resto, si legge qui, il realismo capitalista, «sulla base di una serie di presupposti (gli esseri umani sono irrimediabilmente egoisti, la Giustizia sociale è un’utopia) […] proietta intorno a sé una visione di ciò che è “Possibile”» (a proposito delle differenze tra il Batman di Frank Miller e quello della saga di Christopher Nolan). I pezzi su A history of violence di David Cronenberg, sulla persistenza del fantasma della matrice che genera occultamento del reale, su Kubrick, su Dennis Potter permettono di essere letti sotto la luce unificante della realtà come simulazione. «La capacità di evidenziare come le finzioni strutturano la realtà, e il ruolo della televisione in questo processo, porta in primo piano una serie di questioni ontologiche che autori più importanti e tradizionali dediti al realismo sociale nascondono o distorcono. Non esiste nessun realismo, afferma Potter, al di là del Reale dell’antagonismo di classe».
Proprio quell’antagonismo è il contrappunto dolente a ogni discorso: gli oggetti culturali sono anzitutto oggetti di politica culturale: in queste pagine emerge con forza, più ancora che in quelle esplicitamente politiche (vale a dire, appunto, il precedente libro Il nostro desiderio è senza nome) il ruolo di neo-propaganda che hanno avuto le immagini – quelle altre, quelle che hanno cambiato il paradigma del pensiero, che hanno simulato le condizioni perché il realismo capitalista si presentasse come un efficiente poliziotto della società, un vigilante che togliesse i grilli per la testa ai tragici sognatori proletari («Grande Fratello e reality tv hanno […] significato la sconfitta dell’impulso audace che spingeva il proletario a diventare di più (non sono niente ma vorrei essere tutto), un impulso che negava i Fatti Sociali attraverso l’invenzione di Finzioni Soniche»).
Nel suo bellissimo Dominio, Marco d’Eramo ha parlato di «contro-insurrezione» e, più profondamente, di come la riconversione a un paradigma esclusivamente economicistico, per il quale tutti gli aspetti della vita (dal lavoro alle adozioni di bambini) sono letti e di conseguenza si trasformano in componenti della macchina economica: per raccontare la vera metamorfosi, la vera Apocalisse scatenatasi sul mondo, quella che ha portato all’instaurazione del regno neoliberista. In questo regno tutto può essere letto come un rapporto tra costi e benefici: tutta la vita può adattarsi alla metafora mercantile, adattarsi con tanta efficacia da diventare la vita essa stessa, da permeare ogni spazio neurale dei cittadini. Alla fine, per Margaret Thatcher dire che non esisteva la società, ma soltanto individui, non fu così dirompente: il corpo nel quale affondava il virus neoliberista era già abbondantemente depresso. Nei manuali della contro-insurrezione, sui quali si è plasmato il dominio neolib degli ultimi cinquant’anni, si invitava a studiare il nemico, a partecipare – senza complotti o infingimenti: tutti i flussi di denaro citati da d’Eramo sono alla luce del sole – alla guerriglia su un piano anzitutto culturale. È a partire dalla cultura, accademica e popolare, che si cambia la testa della gente. Fiumi di dollari dalle Fondazioni alle università private sono serviti per creare centri di costruzione del pensiero neoliberista.
Ci aspetteremmo da Fisher pagine infuocate proprio contro gli oggetti primari della guerriglia contro-insurrezionale, ma non li troviamo. Il Nostro, infatti, non sfiora il cinema americano di cassetta, quel flusso di narrazioni reaganiane che servirono per plasmare un’idea virile e irrevocabilmente libertarian di maschio robotico e vincente, narcisista (ma con qualche eccezione: «La struttura fantasy di Famiglia, Nazione ed Eroismo perciò non funziona affatto come rappresentazione, falsa o meno, ma come modello cui adeguarsi»: si parla di Star Wars).
Ma era questo lo scrittore Fisher, il militante, il compagno Mark Fisher che si è ucciso: le immagini che trattava nella sua officina bipolare, dove la depressione, il down e l’arresto del pensiero si alternavano alla maniacalità bulimica che triturava pagine su pagine, quelle immagini non potevano essere i freddi reperti autoptici di un’analisi che, peraltro, Fredric Jameson o Slavoj Žižek (per non parlare di colui che, non parlando di politica e cultura, aveva parlato di tutto, cioè Jacques Lacan) avevano già compiuto con maggior forza e analiticità. L’hauntologia è postmodernismo critico: è sì un sosia, un agente infestante, che «insiste senza essere mai esistito», ma ha anche la consapevolezza della propria natura spettrale. Il rumore bianco che dis-articola le registrazioni di musica hauntologica è la chiave di volta dell’intero concetto: è la riflessività consapevole che denuncia la macchina mitologica della nostalgia.
E allora la compagine degl’interventi di Schermi sogni e spettri non può che contare, per la maggior parte, su prodotti dell’immagine che possano respirare, che abbiano – o abbiano avuto, come gli show televisivi di Dennis Potter o il Doctor Who anni Sessanta – quel grado di auto-comprensione critica che ha interrotto, in un certo momento, l’empatia fallace da parte dello spettatore. Ciò non impedisce che i film o i serial analizzati siano di grande successo naturalmente, anzi. Shining è letto come un reperto hauntologico – forse il più fulgido esempio della raccolta – sulla «politica della famiglia», ci parla sì degli «orrori della famiglia e della storia», ma è anche uno straordinario film pop(olare), di grande successo commerciale e critico. Tuttavia, come si diceva, le immagini trattate da Mark Fisher debbono essere non completamente aderenti al realismo capitalista: devono essere stratificate, contenere sfoglie di pura ideologia dominante e sfoglie d’inattesa critica, spesso nella stessa entità: la saga nolaniana di Batman è un esempio eccellente.
La «theory fiction» che in fondo nasce proprio da «k-punk», e da tutta l’esperienza connessa alla cultura londinese e inglese post-anni Novanta, non ha che questo genere di materiali a disposizione: seriali, catalogati, allineati, ma al tempo stesso anche difformi, incongrui, colmi d’intercapedini. L’hauntologia è uno strumento di evocazione e sondaggio, permette l’immersione e la critica nelle immagini spettrali e d’argento che costituiscono, o simulano, i nostri ricordi e il nostro presente.
Mark Fisher
Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione. K punk / 2
traduzione di Vincenzo Perna
minimum fax, 2021, pp. 266, € 17
In copertina: una scena di The Shining, di Stanley Kubrick, 1980