In uno splendido libro uscito qualche mese fa (Walker Evans. Starting from Scratch, PUP, 2020), Svetlana Alpers mette in parallelo Cézanne e il grande fotografo americano Walker Evans. “Cézanne, che com’è noto considerava quasi impossibile terminare un quadro, è simile ad Evans, con la sua riluttanza a scegliere una stampa iconica” tra una serie di scatti realizzati in sequenza. E Alpers conclude, “Both of them rejoiced and also despaired in the practice of making images”. Gioire e disperarsi nel fare e nel farsi delle opere d’arte. Perché c’è un misto di piacere e sofferenza che non dipende dal risultato finale. Ma dal fatto che si vorrebbe restare indefinitamente dentro il processo artistico e nello stesso tempo si sa che quel processo dovrà prima o poi finire. Si prova piacere a fare l’opera, e si sa che quel piacere si esaurirà quando l’opera sarà fatta. Insomma, per dirla con Plinio, si vorrebbe che il faciebat non diventasse mai fecit, come infallibilmente invece accadrà.
Animata da questo piacere agrodolce, l’arte migliore (le grand art come dicono i francesi per spiccare l’ottimo dal mediocre anche nelle arti “maggiori”) è sempre arte che si nutre del proprio processo di produzione: gioisce nel seguirlo ed assecondarlo e ne trae le energie migliori. E come potrebbe essere altrimenti? Per un poco che si sia praticato un pennello o maneggiato un pugno di creta, si sa che a governare la marcia verso la forma finale non è (soltanto) la sua profezia intravista in una sorta di futuro anteriore. Ma una congerie di problemi interni alla produzione artistica stessa, che sorgono dai suoi procedimenti e ancor più dalle esigenze dei materiali coinvolti. È questione d’intelligenza pittorica, scultorea, musicale, ecc. che trova altrove e “fuori”, nel mondo, le sue occasioni e committenze, le sue lettere di incarico, e tuttavia cerca in se stessa e nelle pratiche che la contraddistinguono tanto i problemi con cui arrovellarsi che la paletta di soluzioni possibili per risolverli. Soluzioni talvolta e nel migliore dei casi del tutto impensate o inedite, perché il passaggio dall’intenzione all’opera è disseminato di fruttuosi imprevisti che ridefiniscono in ogni momento la direzione del processo creativo.
Il processo è talvolta così centrale che diventa il tema stesso dell’opera. Non però nel senso banale della metapittura, della metamusica, del metateatro. Piuttosto, mostrando come il rapporto dell’artista con i processi di realizzazione dell’opera costituisca una linfa che alimenta la creazione e la dirige dall’interno, rendendola più ricca e più densa. Gli esempi sono infiniti. L’accordo amorfo con cui si apre l’Oro del Reno o la struttura di Sinfonia di Berio – una meditazione sul farsi della musica nelle sue varie componenti, armoniche, melodiche, timbriche. La catarsi tragica portata in scena nel Filottete di Sofocle. Le Betsabee di Rembrandt o i rilievi di Agostino di Duccio che esibiscono cosa significhi posare e guardare un modello in posa e trasformare la pietra in forma. Ma anche dove il processo non è il tema principale, sempre, nei prodotti artistici più densi e compiuti, l’attenzione al farsi dell’opera finisce per innervare l’aspetto finale in maniera tale che la forma testimonia del processo grazie al quale e dal quale è emersa. E gran parte del piacere e dell’interesse sempre rinnovato che tali opere offrono allo spettatore deriva dal poter percepire questa solidarietà tanto sottile, profonda e fruttuosa tra forma e processo, quasi che lo spettatore potesse recuperare, solo osservando, il piacere che l’artista provava facendo.
È a questo rapporto tra forma e processo che Davide Dal Sasso dedica il suo denso, ricchissimo saggio. Ma per invertirne il senso: non è la solidarietà ma la dissociazione tra processo e forma a costituire il tratto distintivo dell’arte (veramente) contemporanea, e senz’altro dell’arte dei tempi a venire. Il libro, trecento pagine fitte fitte, associa la risolutezza del pamphlet nell’enunciazione delle tesi e il passo lento e implacabile della dimostrazione, qualche volta quasi pedante, proprio della tesi di dottorato. Il senso e la struttura del saggio sono precisati nelle prime righe del libro, che vale la pena citare per intero:
L’oggetto di indagine di questa proposta è ciò che è stato chiamato “concettualismo” e che nelle prossime pagine considererò come un “codice operativo” ossia un insieme di regole che permettono alle artiste e agli artisti di fare arte in modi diversi da quelli che tradizionalmente conosciamo. La tesi principale del libro è che l’arte dopo il concettualismo sia dunque l’arte che ritorna all’ars, alla operosità umana. È arte che esprime il suo profondo legame con i progetti e le pratiche. È arte che rivela talune delle sue regole dando risalto più al fare che non alle apparenze, più ai processi che non alle forme, più alla creatività che non agli aspetti visivi delle opere. Dopo il concettualismo le artiste e gli artisti fanno arte nel segno dell’essenziale, ossia del minimo indispensabile perché si riconosca la sua natura di pratica umana e più che umana […] in conformità all’adozione […] [del] principio ordinatore riduzionista.
L’intento dell’autore è quindi triplice: a) precisare la natura del concettualismo come fenomeno storico, b) isolare una forma specifica di concettualismo, quello riduzionista, come caratteristico dell’arte “dopo il concettualismo”, ossia dell’arte della nostra più stretta contemporaneità c) trarre da tutto ciò una diagnosi sull’evoluzione generale della nozione stessa di arte, che conoscerebbe, nell’ultimo mezzo secolo, un cambiamento tanto radicale da costituire una rottura definitiva con la tradizione precedente e l’apertura di un orizzonte radicalmente nuovo.
Per quanto riguarda il primo punto, Dal Sasso propone in maniera convincente di distinguere l’arte concettuale dal concettualismo. La prima è un fenomeno storico, una corrente artistica, il secondo indica invece il tratto caratterizzante di un ”genere di arte” autonomo: quello fondato su un “codice operativo”, ossia su una matrice normativa fatta di regole e prassi che invertono l’ordine di priorità tra forma e processo. Sarà concettualista quindi l’arte che mira anzitutto e soprattutto a “esternare il processo creativo”, a “esplicitare i piani della progettazione”, a “portare in primo piano il fare, l’operosità umana”. Avremo quindi un nuovo “genere artistico che si sviluppa attraverso un variegato insieme di pratiche in cui primeggia il processo creativo anziché la forma come parvenza”. Lo scopo dell’artista è “rendere manifeste […] la disposizione strutturale, l’attuabilità attraverso la materia, la tensione tra idea, schema, sostanza”, se non addirittura “le variazioni del suo lavoro nel corso del tempo”.
Dal che, ed è il secondo elemento dell’analisi di Dal Sasso, la necessità di associare strettamente “concettualismo” e “riduzionismo”. L’autore vede nella storia dell’arte dall’antichità ad oggi un lungo scontro tra due orientamenti creativi: il primo, di lunga durata, dominato dal “principio ordinatore massimalista”, che conduce gli artisti a creare dando priorità alla forma. Il secondo, affermatosi invece nel Novecento, che, in quanto “riduzionista”, privilegia “i processi riuscendo inoltre a notificare idee e/o azioni dalle quali traggono origine” le opere. Ovviamente, l’arte che si voglia concettualista nel senso sopra detto, non potrà che essere riduzionista:
ciò che conta nelle opere concettuali non è infatti il loro aspetto, la parvenza, ma piuttosto: il modo in cui esse sono state realizzate, il progetto da cui traggono origine e attraverso il quale si possono evolvere, l’idea che le rende possibili, le informazioni che esse possono trasmettere. […] Concettualismo e riduzionismo, il codice operativo e il suo ordine di svolgimento pragmatico, permettono ad artiste ed artisti di spogliare l’arte in modo da offrirne i suoi elementi essenziali: ideare, progettare, fare condividere.
L’opposizione tra massimalismo e riduzionismo diventa perciò assiologia: il primato della forma è sinonimo di “travestimento”, “artificio”, “ottusità”, e parvenze “mitologicamente accattivanti”, laddove il riduzionismo è trasparenza del senso, “simbolizzazione immediata”, surplus di informazione e intensificazione dell’espressività.
Questa messa a punto concettuale permette a Dal Sasso di vedere nel concettualismo, “ossia il codice operativo basato sul principio ordinatore riduzionista”, il punto di svolta nella storia dell’arte contemporanea e l’annuncio di un “rinascimento creativo”, attualmente in corso e destinato a prolungarsi nei decenni a venire. Il concettualismo produce in effetti una mutazione essenziale dell’ontologia stesa dell’opera d’arte, con l’emergere di una specifica “forma riduzionista” e più in generale una rinegoziazione totale del concetto stesso di “arte”. L’opera d’arte concettualista mirerà soprattutto “a trasmettere informazioni che favoriscono la riconoscibilità e la condivisione pubblica dell’idea e/o dell’azione che determina” il lavoro dell’artista. Di rimpallo, questo permette anche di distinguere le espressioni specifiche del concettualismo (Performance Art, Land Art, Minimal Art, Arte relazionale, Sound Art, Installation Art) da altre figure ibride di arte in qualche senso concettuale ma ancora legate al massimalismo. Ma la coscienza del “concettualismo” come un genere artistico a sé permette anche a Dal Sasso di denunciare i limiti della “idea standard di arte concettuale” spesso vigente nel dibattito critico e gravata da una “catena invisibile” di preconcetti e preferenze estetiche che inducono spesso a vedere nel concettualismo soltanto una variante, magari negativa, dell’arte tradizionale massimalista.
Questo breve riassunto è del tutto inadeguato a rendere la ricchezza del saggio che qui presentiamo. Una ricchezza che è innanzitutto concettuale, con uno sforzo ammirevole da parte di Dal Sasso nel forgiarsi una sorta di lessico tecnico per nominare le istanze del concettualismo in tutta la loro novità. In questo senso il lettore troverà pagine di una grande lucidità dedicate alla struttura della prassi artistica analizzata a partire dal concetto di “primitivo decisionale”, allo statuto delle produzioni prototipiche nell’ambito dell’arte concettuale, ma anche al rapporto tra rappresentazione e medium (a partire dalla nozione di “variante rappresentazionale”). Talvolta questo proliferare di categorie o di nozioni nuovamente battezzate dall’autore rende la lettura ardua (così come la ripetizione formulare di “le artiste e gli artisti”, “le osservatrici e gli osservatori” e l’uso talvolta idiosincratico dell’italiano). Ma è senz’altro il prezzo da pagare per una proposta teorica che si vuole fondatrice o rifondatrice della concezione stessa di che cosa si intenda con il termine “arte”.
Alla ricchezza concettuale si associa poi la ricchezza della ricostruzione storiografica. Tutte le proposte teoriche che abbiamo riassunto sono infatti avanzate dell’autore a seguito di un dibattito serratissimo con le varie voci dell’estetica contemporanea. E qui sarebbe veramente difficile rendere conto dell’ampiezza degli interlocutori convocati dal Dal Sasso, che vanno dagli storici dell’arte, ai curatori, ai nomi fondamentali della filosofia dell’arte del Novecento, agli infiniti contributi recenti, soprattutto in ambito di estetica analitica. Da notare soprattutto, per l’originalità dell’uso che l’autore ne propone, il confronto molto intenso con le tesi di Langer e Migliorini. È proprio da questo confronto critico estremamente dettagliato che emerge la specificità dell’approccio di Dal Sasso rispetto all’arte concettuale che l’autore definisce riduzionista ma non per questo immaterialista o idealista. Anzi, secondo Dal Sasso, è solo e soltanto nella riduzione della materialità e della forma alla nudità dell’essenzialità che risiede la possibilità di fare dell’opera un “simbolo del processo della sua creazione” e “un’enunciazione concreta di una poetica”. Ne esce così una storia del riduzionismo in arte che è quasi una sorta di contropelo a quella raccontata con straordinaria verve e più spiccato senso del ridicolo da Tom Wolfe in The Painted Word.
Di fronte a questa ricchezza concettuale, che fa sì che, quasi ad ogni pagina, l’autore si situi con precisione quasi millimetrica all’interno di un dibattito articolatissimo, stupisce un po’ l’esiguità di esempi concreti convocati. Se la nozione di concettualismo assume, pagina dopo pagina, tratti sempre più definiti, la manciata di opere d’arte analizzate in dettaglio dall’autore (soprattutto di giovani artisti italiani contemporanei, Arena, Frapiccini, Inverni, Mariotti) lascia un po’ interdetti perché gli esempi risultano quasi sempre troppi vaghi per incarnare come ci si aspetterebbe la postura radicale del concettualismo riduzionista. E talvolta si ha l’impressione che l’ekphrasis concettuale proposta da Dal Sasso sia fin troppo generosa rispetto alle ambizioni teoriche delle opere presentate. Ma come abbiamo detto, l’analisi dell’autore si vuole soprattutto come la diagnosi di un orizzonte creativo nuovo per l’arte a venire, ed è forse saggio lasciare all’arte del futuro il compito di confermare la validità e illustrare più compiutamente le posture teoriche definite dall’autore.
Come si sarà compreso, il saggio di Dal Sasso costituisce un contributo importante e innovativo nel dibattito sulla natura dell’arte contemporanea. E in questo senso le ipotesi avanzate susciteranno certamente un confronto tra gli specialisti di estetica – un dibattito che è senz’altro opportuno lasciare ad altra sede ed a interlocutori più competenti. Chiudiamo piuttosto tornando al punto di partenza e alla tesi maggiore del saggio, a proposito dell’inversione di priorità tra processo e forma come tratto caratterizzante della contemporaneità in arte. Si potrebbe avanzare qualche dubbio sulla validità di questa diagnosi, forse troppo condizionata da una ricostruzione che si basa più sul dibattito in ambito estetico che sui contributi migliori della storia dell’arte recente (dopotutto uno storico dell’arte come Baxandall, qui citato ma poco discusso, aveva puntato su un approccio che mirasse, prima e più che alle forme, ai Patterns of Intention). Ma anche ammettendo la diagnosi di Dal Sasso come valida, resta il dubbio sulla fiduciosa affermazione da parte dell’autore che l’arte in regime di concettualismo riduzionista assicuri una accentuazione e arricchimento dell’esperienza estetica.
Dopotutto, il prerequisito – non discusso (un pregiudizio, positivo certo, ma sempre un pregiudizio) è che l’artista abbia qualcosa da dire. E cioè, per dirla in maniera meno spiccia, che l’espressione sia “il punto di partenza”, cioè “la necessità degli artisti di dichiarare e condividere quello che vogliono dire, quello che vogliono fare o anche entrambi – e, allo stesso tempo, il loro principale obiettivo”. Insomma “nell’arte concettuale l’espressività è garantita dalla trasmissione di informazioni mediante opere che sono simboli, ossia veicoli materiali che offrono indizi concernenti l’idea e/o l’azione dell’artista”. Se le opere massimaliste, quelle sottomesse al vecchio primato della forma, rappresentano, l’arte nuova afferma, si rende “portatrice di conoscenze ed esperienze”, convoca lo spettatore a capire, interagire, partecipare. Forse. Ma di fronte a questa arte messa a nudo e ridotta all’osso dalle opere riduzioniste, che sempre richiede, però, qualche passo più in là, sul muro del museo o della galleria, una lunga spiegazione che chiarisce, precisa, svela (per finire magari per enunciare delle banalità), ci si concederà di rimpiangere almeno un poco l’ambiguità fruttuosa di quell’arte “di prima”. Un’arte che nei casi migliori faceva del reciproco e discreto gioco di processo e forma il motore segreto dell’interesse che avevamo a non smettere di starle di fronte – un gioco che ci invitava a scoprire, confidando nel nostro acume di spettatori senza bisogno di cartelli esplicativi, e ad alimentare. Vanità, si dirà. Ma appunto, come diceva l’Ecclesiaste, una vanità “di cui l’occhio non è mai sazio”.
Davide Dal Sasso
Nel segno dell’essenziale. L’arte dopo il concettualismo
Rosenberg e Sellier, Torino 2020
pp. 376, € 28
In copertina: Jeff Wall, Picture for Women, 1979