Reale virtuale letale. Pandemia e infodemia

Esce in questi giorni Pensare oltre di Marco Senaldi. È un libro stratificato che si pone a lato del dibattito di questi mesi sulla pandemia. L’autore cerca, attraverso diversi registri linguistici, una via di lettura filosofica del reale, un reale che sfugge nella sua moltiplicazione nei piani virtuali. Ogni capitolo del libro è accompagnato da un’immagine, in un gioco di specchi, non didascalico, tra la “cosa” e il suo doppio. Riproduciamo, per gentile concessione di autore ed editore, una parte del terzo capitolo.

… e non cessare di scolpire la tua propria effigie…
Plotino, Enneadi

Già Jean Baudrillard aveva colto che “tra viralità e virtualità c’è una complicità profonda”. Ora questo sodalizio è sotto i nostri occhi. Per capirlo dovremmo ricordare un dettaglio che di solito è poco considerato, cioè il fatto che, inizialmente, ad accorgersi che vi era una epidemia in corso non furono i virologi, ma gli esperti di intelligenza artificiale.
Infatti, la prima a individuare il sorgere dell’epidemia è stata la compagnia canadese BlueDot, fondata nel 2013, monitorando lo scambio mondiale di email.

BlueDot è un team multidisciplinare di medici, veterinari, ecologisti, ingegneri, data scientist e sviluppatori software, che utilizza le tecnologie digitali non solo per tracciare le epidemie, ma anche prevederle, capirne la possibile diffusione e per informare rapidamente il personale sanitario sui focolai, sugli specifici sintomi, sulle caratteristiche e le possibili cure. BlueDot considera una grande quantità di fonti informative per aiutare i governi a proteggere i propri cittadini, gli ospedali a proteggere il personale e i pazienti, e gli imprenditori a proteggere i propri dipendenti e clienti dalle malattie infettive. A proposito di dati, Lindsay Bryson, Chief Operating Office di BlueDot, evidenzia il fatto il problema dell’epidemia è di per sé molto complesso da affrontare e proprio per questo richiede non solo una molteplicità di competenze, ma anche l’analisi quasi in tempo reale (ogni 15 minuti 24 ore su 24) di dati molto variegati.

Tra questi dati spiccano in particolare il controllo dei voli aerei (circa 4 miliardi di biglietti aerei venduti per anno), ma anche dati sulle condizioni locali che possono portare un focolaio a diventare un’epidemia. Inoltre, BlueDot funziona come un vero e proprio archivio digitale, compulsando più di 10mila fonti ufficiali, “leggendo” più di 100mila articoli di stampa online al giorno in 65 diverse lingue e osservando blog e forum.
Già soltanto questi numeri fanno trasecolare, e ci fanno ben capire che vi è certo un legame tra virale e virtuale: anche se l’epidemia è un fenomeno “reale”, la sua propagazione può essere prevista osservando la “polvere informatica” che solleva il suo diffondersi. Per usare le parole stesse del fondatore di BlueDot, il medico ed esperto di malattie infettive Kamran Khan, in una sua recente intervista, “Noi crediamo che ci si debba porre con un certo grado di umiltà di fronte al fatto che siamo tutti su un unico pianeta quando abbiamo a che fare con malattie infettive”. Parole che spirano saggezza e sono rassicuranti.

Eppure, la riflessione di Kahn suona anche leggermente incongrua se pensiamo alla incredibile massa di dati che ogni 15 minuti il suo team di super-esperti computa, controlla e confronta da tutte le fonti possibili. Detta da lui, l’affermazione per cui siamo tutti su un “unico pianeta” è perlomeno discutibile: che cosa significa qui unico?
Nel caso della pandemia, tutti i dati che la Bluedot computa servono per scoprire cosa serpeggia nel “mondo” delle realtà tangibili. Anche Kahn, a capo di un team di studiosi dei dati virtuali, resta convinto che essi non abbiano la stessa consistenza delle cose reali. Queste ultime sono la sola vera “causa” di cui quelli sono solo l’effetto, per cui i dati sul virus aumentano solo se ne aumenta la diffusione.

Tuttavia, lo scopo principale della sua società consiste proprio nel cercare di invertire (o almeno frenare) quel rapporto – ad esempio pre-vedendo ciò che accadrà, e quindi spingendo chi prende decisioni a mutarle in base a quelle pre-visioni. Così facendo, ecco che BlueDot “esce” dalla neutralità della telecronaca, entra direttamente in campo, modifica l’andamento della partita – entra a far parte delle “cose reali”.

Quasi un secolo fa, questo paradosso era già stato notato dal cinema che “descriveva” il crescente potere della stampa. In una godibilissima commedia del 1936, Big Brown Eyes (Occhioni scuri, diretto da Raoul Walsh), Joan Bennet recita la parte di una giornalista che, pubblicando lo scoop della confessione di un delinquente prima che lui l’abbia veramente resa, lo spinge a confessare effettivamente il suo crimine. Lei stessa commenta ciò che ha fatto ammettendo con Cary Grant: “Ho solo raccontato i fatti prima che accadessero!”.
Per quanto suoni strano, BlueDot ragiona come Joan Bennet: racconta i fatti prima che accadano, anzi, fa qualcosa di più, spingendoli ad accadere. La realtà alimenta i dati, che modificano la realtà che di nuovo li alimenta: in un processo che non è semplicemente infinito, a perdere, ma ricorsivo, a stringere. Sì, come dice Kahn, siamo in un unico mondo – ma questo Uno è univocamente annodato al suo gemello virtuale, al suo Uno-bis, e viceversa.

Per capire questa situazione possiamo fare riferimento a tre visioni, sia pur apparentemente lontane fra loro, cioè l’Enneade V, 1, di Plotino, una nota a Sul Perturbante di Freud (1919), e una scena di Total Recall, di Paul Verhoven, del 1993.

Effettivamente, Plotino, che basa la sua filosofia sulla centralità dell’Uno (tò én) si trova davanti un problema: la questione non è solo “come risalire dal molteplice all’Uno”, ma: “perché, se esiste l’Uno, è dato anche il molteplice?”. La risposta sta nella seconda Ipostasi (o realtà suprema) che si chiama Intelletto (Nous), che è la “prima immagine” dell’Uno. Uno e sua immagine formano perciò un Due, generando un inevitabile dualismo che sorge dal riflettersi stesso dell’Uno. La cosa straordinaria, qui, è che proprio nel tentativo di difendere il suo Uno, Plotino non possa fare a meno di pensarlo in termini di un Due. L’Uno qui, più che una salda realtà “positiva” (un Dio monoteista, una Verità unitaria, un Credo univoco, ecc.) sembra un posto vuoto, una mancanza al centro delle cose, letteralmente un “buco nero” dove l’energia si autostrangola e a cui non possiamo accostarci se non col nostro ineliminabile dualismo. Ed è proprio qui che Plotino ci offre una incredibile visione che pare anticipare la nostra condizione di sdoppiamento virtuale: infatti afferma che ogni uomo è simile “a colui che, guardando la propria immagine, e ignorando da dove provenga, provasse a inseguirla” (Enneadi, a cura di G. Faggin, 1992, pp. 907-909).

In altre parole, siamo nella stessa condizione di Doug Quaid, il protagonista di Total Recall, interpretato da un magistralmente goffo Arnold Schwarzenegger. All’inizio del film, Quaid, e noi con lui, realizziamo che la “realtà” non è come sembra: storditi, ci troviamo in un posto che non conosciamo, forse derubati della nostra identità, con una pistola in una mano e uno strano aggeggio nell’altra. Ad un certo punto, nell’incerta luce del deposito abbandonato dove Quaid-Schwarzenegger è finito, compare una figura: né noi né il protagonista abbiamo il tempo di capire chi sia, e perciò siamo tutti con lui quando per difendersi gli spara. Poco dopo però la figura riappare incolume: stavolta capiamo che è vestita esattamente come il fuggiasco, il quale perciò si nasconde, ma esita, cerca di capire chi o cosa sia. Ancora un momento – ed ecco che il fantasma si rivela per quello che è: un ologramma generato dallo strumento che Schwarzenegger ha nell’altra mano. Adesso, invece di sparargli, egli inizia a capire come funziona: risponde a dei comandi, anzi no – replica esattamente la postura del fuggiasco; è quindi un avatar, utilissimo per spaventare i nemici, fargli credere di essere dove non si è, e colpirli alle spalle

Questa scena pare l’aggiornamento di un’altra, assai famosa, che vede come protagonista nientemeno che Freud. Nel suo breve testo Sul Perturbante (del 1919, un secolo fa!), Freud racconta che su un treno gli capitò di trovarsi “seduto, solo, nello scompartimento del vagone letto, quando per una scossa più violenta … la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione … e che fosse entrato da me per errore, saltai su per spiegarglielo: ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa dallo specchio fissato sulla porta di comunicazione” (in S. Freud, Opere scelte, a c. di A. Semi, 1999, p. 1046).

Quasi ottanta anni corrono tra l’esperienza di Freud e la fantasy di Total Recall, altri trenta tra Schwarzenegger e noi, e molti secoli tra tutti quanti e le Enneadi di Plotino: però dobbiamo ancora imparare il significato profondo di questa autentica “epifania” che ci fa osservare noi stessi (la nostra immagine “vivente”) come se fosse quella di un altro. Ci vuole del tempo a capire che quell’immagine è molto più che speculare: è un ologramma che corrisponde sì alle nostre mosse, ma lo fa in maniera inversa, per cui se andiamo a destra va a sinistra, se ci avviciniamo si allontana – e così per ogni altra nostra azione.

Il rapporto tra universo dei dati e universo delle cose, tra dataverso e ontoverso, è strutturato allo stesso modo: non possiamo certo sperare di liberarcene, dato che lo generiamo noi stessi – è un effetto collaterale della nostra coscienza, “siamo” noi stessi, come nostra è l’ombra che proiettiamo. La nostra immagine si agita al nostro agitarsi: 4 miliardi di voli all’anno generano altrettanti miliardi di dati (e forse molti di più), quindi l’ontoverso influisce sul dataverso. Ma quello che fatichiamo a capire è che il dataverso retroagisce sull’ontoverso: è (ri)leggendo attentamente proprio quei dati che noi capiamo che mosse fa il nostro corpo sociale. Siamo in un mirror-site spaziale, ma anche in una mirror-hour temporale, in cui le previsioni tendono a far accadere i fenomeni, in cui le profezie che si auto-avverano non sono l’eccezione, ma la norma, e gli ologrammi di noi stessi rischiano di ingannare proprio noi che ce li siamo fabbricati.  

È difficile da digerire, ma non dovremmo scordarci che a Wuhan si studiavano i coronavirus per cercare di “prevedere” che cosa si sarebbe dovuto fare nel caso di una nuova pandemia, come quella sfiorata nel 2003, della Sars (che poi la “fuga” incontrollata del virus sia la vera causa della pandemia, diventa, a questo punto, del tutto secondario). Nell’universo mirrorico di un laboratorio si cercava di capire, in anticipo, che cosa sarebbe avvenuto nell’universo reale: nel frattempo, nell’universo reale, si gettavano tutte le premesse per cui queste previsioni laboratoriali accadessero, tra cui quella di realizzare un laboratorio avanzato di studi sui virus molto pericolosi. L’immenso archivio istantaneo di dati in cui il nostro mondo si sdoppia e rispecchia è quello che ha permesso a BlueDot di captare il diffondersi della pandemia come malattia polmonare: ma non dovremmo forse cominciare a pensare a quest’ultima come al riflesso di una ossessione per i dati, un enorme e insostenibile scambio di informazioni, una infodemia, che è il vero artefice del modo in cui la realtà non solo si plasma – ma anche si ammala? Il legame perverso e reciproco tra pandemia e infodemia non si spiega solo in termini di causa/effetto, di evento/previsione, e nemmeno di reale/virtuale: il “cloud” di dati da cui siamo assediati è una nube tossica, che letteralmente ci “impedisce di respirare”, non diversamente dal Covid19 che “ruba” ossigeno al sangue e conduce alla morte per asfissia. E non è una metafora.

Un esempio viene proprio da uno dei dati-chiave esaminati da BlueDot, quello dei voli aerei: nel 2017 la ricercatrice Kim Cobb che studiava i dati dei cambiamenti climatici si rese conto che la sua impronta ecologica era dovuta, all’85 per cento, ai suoi viaggi in aereo, compiuti per partecipare a decine di convegni sparsi per il mondo. In altre parole, muovendosi con aeromobili, non faceva che aumentare le emissioni di gas serra che alimentano i cambiamenti climatici, modificando evidentemente quei dati stessi che lei andava a studiare… Ne è nato addirittura un sito, No Fly Climate Sci, che raccoglie oltre duecento studiosi di varie discipline, che hanno rinunciato a volare.

Come è evidente, la scoperta straordinaria di Cobb e soci non sta nell’impatto ambientale dei voli aerei, ed è forse più importante della scoperta del Climate Change stesso: loro hanno capito che il Climate Change è un ologramma che manovriamo noi, anche se si muove in verso opposto. Per accumulare sempre più informazioni sui danni che arrechiamo al pianeta ci muoviamo nel mondo reale generando una gigantesca polvere di dati, che ricade sulla realtà, finendo per inquinarla: e per liberarla da questo inquinamento pensiamo che la cosa migliore sia osservare quei dati che noi stessi solleviamo, generando ancor più inquinamento… È sintomatico il fatto che la compagnia hi-tech ARHT, che si occupa di “ologrammi in telepresenza” per scopi didattici, si sia già appropriata del paradosso, e pubblicizzi la sua tecnologia adducendo che il primo motivo per cui dovremmo farne uso è per “diminuire drasticamente l’impatto dei voli per i conferenzieri”.

In questo scenario offuscato e controverso, anzi decisamente ob-verso, ci troviamo dentro un mondo che è annodato stretto a un altro mondo, perché la struttura della nostra stessa consapevolezza si nutre – come aveva capito Plotino – di uno sdoppiamento chiamato non a torto “ri-flessione”. Ora, questo abbraccio che, per esseri riflettenti come noi, è “vitale”, sta però diventando letale. Il legame sta diventando un nodo scorsoio. Persino chi dovrebbe sapere contare, visto che si occupa di numeri, come BlueDot, non lo sa fare, dimostrando di non essere capace di governare questo rapporto, facendoci sparare a vuoto contro quell’ologramma che siamo noi stessi.

Marco Senaldi
Pensare oltre
Piemme 2021, pp. 171, € 17,50

In copertina: Sidney Harold Meteyard, ‘I am half sick of shadows,’ said the Lady of Shalott, 1913

PhD, filosofo e teorico d’arte contemporanea. Ha insegnato estetica e arte contemporanea in varie università e accademie e ha curato mostre internazionali come “Cover Theory – L’arte come reinterpretazione” (2003). Ha scritto su molti artisti contemporanei e ha pubblicato numerosi saggi tra cui “Enjoy! Il godimento estetico”, Meltemi, 2003 (e 2006); “Van Gogh a Hollywood. La leggenda cinematografica dell’artista”, Meltemi, 2004 (nuova ed. 2021); “Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea”, Bompiani, 2008 (vincitore Limina Award 2008 come miglior saggio di cinema); “Definitively Unfinished. Filosofia dell’arte contemporanea”, Guerini, Milano 2012; e recentemente “Duchamp. La scienza dell’arte”, Meltemi, giudicato il miglior saggio sull’arte del 2019. Ha collaborato per anni a Flash Art; i suoi articoli e interventi sono apparsi sui principali quotidiani nazionali e su riviste come Alfabeta2, Juliet, Exibart; dal 2012 firma la rubrica “In fondo in fondo” su Artribune. È stato inoltre autore televisivo di programmi culturali per Canale 5, Italia Uno e RAI Tre e nel 2019 ha realizzato “Genio & Sregolatezza”, programma televisivo a puntate sulla storia d’Italia vista dagli artisti, 1950-2000, andato in onda su RAI Storia (ora disponibile su RaiPlay).

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