Per un caso, credo fortunato, mi sono trovata a leggere nello stesso momento i quattro libri di cui scrivo qui.
Somiglianze di famiglia di Matteo Pelliti (Industria Letteratura 2021), lo avevo letto tempo fa, in bozza, e mi ha raggiunto poi, pubblicato, nella forma definitiva. È un dialogo in cui parole e versi si dispongono a fare medicamento, luce fra assenze e presenze, fra coloro che non ci sono più e coloro che non ci sono ancora, fra coloro che sono nel tempo e coloro che da un altrove guardano coloro che stanno fra il passato e il futuro, sospesi nel fiume del presente e della genealogia, sgomenti, inconsapevoli, pietosi, frastornati, disattenti, impazienti, amorevoli e, direi, più di ogni altra cosa, stupefatti.
Essi, loro i pronomi della lontananza,
della distanza, della genealogia, della progenitura,
gli antenati, gli spettri evocabili,
avi, trisavoli,
siamo noi i loro fantasmi possibili,
noi evocati dall’anteriorità, noi
posteriori, prodotti ultimi e provvisori.
Essi, loro, i bisnonni ci chiamano al mondo
col loro casuale intreccio
di matrimoni, partenze, stanzialità.
Una danza onomastica ha variato
le doppie nei cognomi
per identità affidate all’udito dell’ufficio anagrafe.
Noi, discendenti imprevedibili.

Si potrebbe pensare questa raccolta poetica come un disegno fitto di rimandi fra padri e figli, nel senso in cui Luigi Zoja, in Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, (Bollati Boringhieri 2016) descrive il rapporto, cantato da Omero, fra Ulisse e i morti durante la discesa all’Ade: “Il poeta ci ha fatto sapere che il legame fra i vivi e i morti e quello fra padri e figli sono la stessa cosa. Sui padri possiamo sempre contare perché anche da morti il loro pensiero è con noi”. In Somiglianze di famiglia, nella voce che compita la vita nel presente, tessendo il racconto della genealogia, compito storicamente paterno, l’attesa dei figli e il ricordo degli avi trovano una misura straordinariamente affine, al punto che tecnologie avveniristiche, in grado di captare l’invisibile di chi sta arrivando nel Tempo, e vecchie foto che il tempo ha scolorito, assumono, attraverso la parola, un identico riflesso, sorta di documentazione misteriosa generata da un Ufficio Metafisico di cui solo a tratti si può sospettare l’esistenza.
Tramite una specie di radio clandestina,
un trabiccolo beige buono per radiolondra,
captiamo il battito cavallino, al galoppo,
dell’astronauta alla sua diciassettesima settimana
di missione (140 battiti al minuto).
L’esperienza ricorda da vicino
le voci rubate, di cosmonauti russi,
da improvvisati marconisti stellari,
due fratelli piemontesi degli anni Sessanta.
Anche noi drizziamo le orecchie tra i flutti,
i flussi, le interferenze radio in cerca
del codice binario, ritmo, che dica: vi-vo.
Luigi Zoja, nella sezione del saggio dedicata a Ulisse, scrive: “In Ulisse la memoria non è sigillo d’archivio, ma flusso di una creazione che avanza; non registra quello che è morto, ma alimenta ciò che è sospeso, che è vitale completare e a cui è essenziale tornare. È la prima vera memoria del mondo, e a noi sembra che la sua potenza sta nel riassumere, d’un colpo, insieme al coraggio assoluto, dispiegato con troppa facilità dall’epica antica, l’invenzione della fedeltà a se stessi e al proprio retroterra. Quello era la temerarietà senza debiti di coerenza, ciecamente autodistruttiva, di Achille; questa si sdebita in una contabilità interna che valuta non solo l’atto, ma i suoi costi e i suoi tempi.”

Non tracciano passato e futuro in disegno e ricomposizione, piuttosto indicano una loro inevitabile disgregazione, i sedici racconti raccolti da Matteo Marchesini in Miti personali (Voland 2021), in cui l’evanescenza, la follia, il disagio, la vanità, la furia dei personaggi maschili ritratti in momenti di estrema sofferenza o perdizione, sembra derivare da una tragedia del padre, da una sua mostruosa assenza o presenza, il risultato non cambia. “La gran scena paterna”, come viene definita nel racconto dedicato a Giacomo e Monaldo Leopardi, è una rappresentazione imbarazzante, di quart’ordine, che contrappone al genitore compiaciuto dei propri miserabili pezzi di bravura l’angoscia abissale del figlio che: “Non sa se si vergogna più per se stesso o più per lui, se è umiliato o furibondo.”
Sono figli e padri abbandonati a se stessi e da se stessi, i personaggi di Marchesini, mai riconosciuti, impazziti, dominati, resi incapaci di relazione prima di tutto con un femminile che è presenza puntiforme, lontanissima, in queste pagine, incarnazione di un reale particolarmente inavvicinabile, capace di innescare una proliferazione del mentale inarrestabile, sorta di sostanza secreta dal corpo in reazione a una ferita psichica insanabile: Giobbe di fronte alla figlia, Atteone in presenza della Dea, Edipo prigioniero della madre Giocasta, per dirne alcuni.

Mentre leggevo l’analisi di Zoja della figura di padre che costruisce Omero con Ulisse (e sono diverse le figure paterne che in Miti personali coincidono con quelle esaminate da Zoja), sono incorsa in tali e tante somiglianze fra i personaggi di Matteo Marchesini e i padri/non padri di Il gesto di Ettore che mi è venuto fin da dubitare della loro legittimità, sospettandole frutto di suggestione. Poi ho fatto caso alla copertina di Miti personali che fino a quel momento mi ero limitata ad ammirare (e cos’altro è il padre se non questo: il mito personale per eccellenza), che riporta una foto di Paolo Ventura, fotografo e pittore, scenografo, costumista, dal titolo Homage to Saul Steinberg (una serie di tre fotografie in cui si dà conto della metamorfosi del padre in figlio), in cui si vedono l’artista e suo figlio piccolo l’uno accanto all’altro: il bambino si allunga, il padre rimpicciolisce.

Spiega Ventura: “Tutto nasce da una fotografia di Saul Steinberg che ho sempre amato: nell’immagine c’è lui che tiene per mano se stesso bambino, una riproduzione a grandezza naturale di quando aveva 8 o 9 anni. Quanta parte di te bambino riesci a tenere crescendo e quanto scompare diventando adulto? Questo è il senso del lavoro, una domanda che resta aperta. La divisa che indossa Primo, mio figlio, nelle mie foto l’aveva fatta fare mio padre per me quando avevo la sua età: in questo modo, io torno bambino tramite mio figlio, non solo sotto forma di desiderio ma anche “rimpicciolendomi” realmente, in un gioco evidente di vero/ falso, teatro/realtà che lascia spazio alle ambiguità e alle contraddizioni del presente: diventare adulto, restare bambino.”
Segnalo che Joahn & Levi ha appena pubblicato Autobiografia di un impostore, di Paolo Ventura, in cui parte del racconto riguarda proprio il rapporto con il padre, celebre illustratore, del quale, in quarta di copertina, si legge “Era il carnefice che ci rinchiudeva e quello che ci offriva le chiavi per evadere”).

Spiega Zoja a proposito di Ulisse: “Ulisse può essere bambino e adulto, uomo e donna. Con lui è nato ormai un essere complesso che cerca di amministrare tutte le risorse del carattere amministrandole a tempo debito. Solo da questa economia interna può nascere quella esterna. La personalità è ora un sistema educativo e sociale in miniatura: non sarà più come per gli eroi precedenti, una collana di capricci uniti a caso dal filo della vita. … Con questa autoeducazione, hanno inizio confronto e dialogo interiore come base per poesia, narrazione introspettiva moderna e psicologia.”
E a proposito dei Proci, gli antagonisti più pericolosi dell’intera vicenda di Ulisse (che in un racconto di Marchesini è l’impostore per eccellenza, essenza stessa di una costante volontà di falsificazione della verità, nell’atto stesso di affermarla), Zoja scrive: “Di giorno in giorno, senza vincoli, queste farfalle umane non volano verso una condizione adulta, ma verso una fluttuazione psichica senza origini e senza fini.” E specifica che il racconto di Ulisse “riassume la nascita travagliata di una responsabilità familiare e insieme di una capacità di scelta.” È, insomma, “la forma riassuntiva dell’autodomesticazione del maschio”, forma sempre a rischio, precaria, nella sua essenza culturale, sempre sul punto di franare, come avviene nel racconto di dissoluzione psichica e fisica dei protagonisti dei racconti di Marchesini, che sembrano non disporre di alcuno strumento per fare fronte alla realtà, scissi fra corpo e mente, impulso e pensiero.
La maledizione contemporanea in questo quartetto di titoli sembra additata nella costante minaccia di “una fluttuazione psichica senza origini e senza fini”. La vocazione alla distruzione, da una parte, e quella alla genealogia, dall’altra, in eterno conflitto.

In Autobiografia di un impostore, Paolo Ventura ricorda il gioco della guerra del padre con i figli.
Poteva capitare che il sabato piovesse, allora rimanevamo a casa, e uno dei giochi preferiti era costruire centinaia di soldatini. Arrotolavo un pezzetto di carta intorno al manico di scopa, lo fermavo con un po’ di colla, disegnavo la faccia, l’elmo le armi, le insegne, a quel punto lo sfilavo, e il soldatino era pronto per combattere e cadere in battaglia.
Giocavamo noi tre figli e mio padre. Passavamo pomeriggi lunghissimi in sala, schieravamo gli eserciti, quelli a cavallo, i fanti, gli artiglieri, le retroguardie. Le bandiere erano fatte con gli stuzzicadenti lunghi. E poi due contro due, con la cerbottana rinforzata dalla carta stagnola, puntavamo, soffiavamo e tiravamo giù il nemico. Mio padre non voleva perdere. Barava. Iniziavamo a giocare dopo pranzo e andavamo avanti fino alle otto di sera. Mio padre diceva: Andate a preparare che facciamo la guerra. La guerra è diventata il mio mondo. Mi sembrava naturale essere in guerra, ascoltavo racconti di guerra, mi muovevo come in guerra, c’erano le imboscate, gli attacchi, le punizioni, gli ordini, la reclusione. Mio padre se la prendeva soprattutto con me, perché io l’affrontavo a viso aperto, a modo mio, da bambino.
In copertina: Paolo Ventura, Homage to Saul Steinberg, 2014 (particolare)