Ci sono scrittori che scrivono sempre e solo di sé stessi. Spesso questi scrittori si esprimono in versi; e chissà che quel “vertere” della scrittura su sé medesima, voltandosi indietro prima di giungere alla salvezza a fine riga (col gesto fatale compiuto da Orfeo agli Inferi, annotò una volta Maurice Blanchot), non sia più intimamente collegato di quanto si pensi: al guardare sé stessi, appunto. Altri scrittori, questo gesto, non se lo permettono mai: sono quelli che piace definire “narratori puri”, se non – con brutta parola che li aggioga all’alienazione merceologica di quest’attitudine – “romanzieri”. La loro persona è votata senza residui, almeno in apparenza, a farsi specchio delle vite degli altri, veri o semi-veri che siano: e sono quegli altri a portare i loro pensieri, i loro affetti e percetti, in giro per il mondo («Madame Bovary c’est moi»). Poi ci sono quelli che non hanno mai saputo bene che farsene, di quell’attrezzo ingombrante che da sempre gli sta addosso, e che preme di qua dai polpastrelli coi quali stringono la penna, o battono sulla tastiera; e che risale su, fino alla cortice cerebrale, o sprofonda giù, sino al plesso solare e oltre. A lungo quel peso imbarazzante che chiamiamo “io”, questi scrittori, sono riusciti a metterlo a tacere; o hanno creduto di farlo, piuttosto, facendogli fare capolino solo di sbieco, in ciò che scrivono: così sortendo l’unico effetto di farlo apparire tanto più rivelatore, agli occhi indiscreti dei lettori-inquisitori. Ma a un certo punto quell’inquilino invadente e rumoroso, quel tizio che da sempre alloggia nel nostro cranio, pretende di uscire allo scoperto e dire la sua. È a quel punto che cominciano i problemi. È allora che inizia la prova decisiva.
Uno di questi scrittori era Italo Calvino. Il quale, mentre si arrendeva col metter mano al libro “autobiografico” che nelle sue carte reca il titolo Passaggi obbligati, sospirava paradossale (col clic emotivo di un’insolita serie esclamativa): «come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!». Quel libro Calvino, chissà se per caso, non riuscì a finirlo (ne restano capitoli che sono fra i suoi capolavori: come Dall’opaco, Ricordo di una battaglia e la pagina che del suo autore personalmente più amo, Il nome, il naso). Ma per la verità lo scomodo diaframma s’era già affacciato al proscenio in precedenza: col tenue belletto dell’avatar chiamato Palomar.
A Calvino Marco Belpoliti ha dedicato uno dei suoi primi libri, il suo primo da critico letterario in effetti (dopo una vita anteriore da narratore poi culminata, e abortita, con un romanzo-mondo intitolato, guarda caso, Italo): una breve quanto pionieristica monografia pubblicata nel 1990 per un piccolo editore di provincia, a Rimini, col titolo Storie del visibile. Quell’esordio, insieme agli articoli inquieti e a volte “scoppiati” che da un pezzo andava scrivendo sulla gloriosa «Talpa» del «manifesto», attirò l’attenzione di un mentore editoriale di quelli “di una volta”, uno dalla vista proverbialmente lunga come Paolo Fossati, che lo chiamò da Einaudi (dove sei anni dopo quel libretto, ampliato, diventava il suo primo titolo “ufficiale” e più volte ristampato, il classico che è oggi L’occhio di Calvino). Il resto della storia, lo si conosce.
Ma ogni storia ha una preistoria, e chi ha confidenza con Marco sa quanto conti per lui tutto ciò che il Belpoliti “pubblico” precede: quanto ai suoi stessi occhi le tante esperienze fatte prima, di quella sospirata uscita dal guscio chiuso della provincia, abbiano condizionato il suo percorso successivo, “metropolitano” e (cautamente) cosmopolita. È vero per ciascuno di noi, certo. Ognuno conosce a perfezione, o crede di conoscere, il perché di scelte che ad altri non saprebbe spiegare in nessun modo. Ma se il mestiere, o il talento, ci fa usare le parole tutti i giorni, allora la tentazione di metterle nero su bianco, quelle ragioni che “si sanno” ma non si possono dire, diventa a un certo punto irresistibile. Se non altro per spiegarle per filo e per segno, una buona volta: a quell’altro così esigente, a quel lettore più degli altri inquisitore, che siamo noi stessi (non a caso la cornice retorica degli episodi di Pianura, di remota matrice calviniana a sua volta, è una lettera rivolta a un “tu”-doppelgänger che di “io” condivide l’estrazione e molti degli astratti furori). È allora, cioè, che viene il momento della prova.

La prova, proprio, s’intitola il libro gemello di Pianura. Sin dal titolo un testo “alla seconda” (pubblicato da Einaudi nel 2007 e da Guanda nel 2017), La prova ri-faceva a sessant’anni di distanza l’itinerario di un autore amato, il Primo Levi della Tregua: il diario di un viaggio nell’Europa dell’Est, svolto un paio di anni prima insieme a un amico cineasta, Davide Ferrario (che a sua volta, da quell’esperienza, trasse il travelogue per immagini intitolato La strada di Levi). Nella Prova l’“io” viene allo scoperto, sì, ma è un io da saggista. A Belpoliti, in quel libro, preme soprattutto il procedimento quasi scientifico – il saggio come essai: tentativo, esperimento, appunto “prova” – di far reagire il palinsesto di Levi sulla storia e la geografia del presente – tanto diverse da quelle di allora, ma che da quelle inesorabilmente provengono. Anche se l’autore sa bene come, per chi vive di scrittura, comunque la si metta quella di dire «io» resti la prova delle prove, appunto. A un certo punto dice di Levi: «sembra avere idee molto chiare su come funzionano i meccanismi della psiche umana. Traccia cartelle cliniche e insieme mappe geografiche. Ha una precisa idea anche dello spazio. Tra le due cose c’è un legame? Forse è la sua mente a funzionare come una carta geografica, sia per le persone sia per i luoghi. Sono attratto da questo aspetto».
Belpoliti sa meglio di chiunque come la chiarezza, da Levi perseguita lungo tutta la sua opera, sia piuttosto un “effetto di chiarezza” (per dirla à la Barthes). Fortunatamente per lo scrittore, quanto sfortunatamente per l’uomo, sino alla fine è restato in Levi un quanto di oscurità: che non gli ha mai consentito di pensare di averla portata a buon fine, quella prova. Ha provato e riprovato, con tenacia e ostinazione, spietato con se stesso quanto si sforzava d’essere pietoso col prossimo: finché le sue forze, all’oltranza sommergente di questa prova, non hanno ceduto. Non prima, però, di lasciare dei capolavori: sul campo di quella battaglia. Questo doppio legame (per usare un concetto, della chimica prima che della psicologia, che doveva essere il titolo del suo libro in progress, come quello di Calvino restato fra le sue carte) – fra l’«opaco» di un antefatto oscuro che va a tutti i costi illuminato, e l’«aprico» di una chiarezza di sé che non va mai conseguita del tutto (pena il silenzio, o la mera gestione del ruolo autoriale) – è la sostanza morale, prima che letteraria, della prova di cui si sta parlando.
Come La prova, Pianura è costellato di disegni dell’autore, che hanno la funzione – esplicita qui Belpoliti – di prendere note sul proprio stesso itinerario: di marcarlo con le dita come facevano, con ben più educati acquerelli, i viaggiatori del tempo di Goethe. Ma soprattutto, come nella Prova, “io” si dispiega in forma geografica. La carta è tracciata a mano, a matita grossa e in più punti ricalcata con decisione, e riportata all’interno della copertina e della controcopertina del libro: non solo prima del frontespizio e dopo il colophon, ma anche prima della carta di guardia e dopo il bollino della SIAE. Come dire che quel territorio contiene, senza residui, il libro e chi lo ha scritto. C’è chi ha studiato la storia delle carte geografiche riportate nei testi letterari, la cui funzione è tradizionalmente quella di far “orientare” il lettore fra le intricate peripezie dei personaggi. Qui però di personaggio ce n’è uno solo (anche se, come vedremo, “fatto” di tante altre persone), sicché la funzione della carta è un’altra.

Per fermarci all’enciclopedia degli autori di cui si parla in Pianura, quest’uso ne ricorda un paio di precedenti. Uno è remoto da Belpoliti, non tanto cronologicamente quanto per indole e Kunstwollen, ed è l’Andrea Zanzotto che nel suo libro-chiave, Il Galateo in Bosco (1978), riporta una cartina del Montello e della cosiddetta «Isola dei morti» sulle rive del Piave: per segnare a dito, e con le dita appunto, la traccia rimossa ma incancellabile del sangue sessant’anni prima versato dalla Grande Guerra. L’altro invece, di Belpoliti, è uno dei maestri più amati: il Gianni Celati che in Narratori delle pianure (1985) inserisce (dopo frontespizio e dedica) una «Carta delle pianure» pressoché identica a quella di Belpoliti: dall’hinterland di Milano si scende sino a Piacenza incrociando la Via Emilia, che di lì in avanti diventa la direttrice-guida, la falsariga che, al netto di tante digressioni, fa da timone al viaggiatore sino al mare alla fine del percorso: orizzonte prima remoto e inconcepibile poi, man mano, sempre più vicino. Le «pianure» sono dunque «la pianura»: quella per antonomasia, che prende il nome – con singolare e un po’ misteriosa etimologia – dal grande Fiume che la spartisce in due.
A Celati, e al suo fratello per immagini Luigi Ghirri, sono doverosamente dedicati i primi capitoli di Pianura, che all’inizio sembra un commento a «un libro di Celati. Il suo più bello» (cioè appunto Narratori delle pianure, ancorché mi pare che il titolo non sia mai esplicitato): alla loro inesauribile analisi delle Condizioni di luce sulla Via Emilia (così s’intitola una delle Quattro novelle sulle apparenze, il più “filosofico” dei libri di Gianni, uscito due anni dopo i Narratori: dove, sostiene a ragione Belpoliti, il «pittore d’insegne Menini» – profeticamente passato prima del tempo a miglior vita – è trasparente avatar dell’amico fotografo), alla loro malinconia sottile, al loro essere-per-la-morte.

In una delle ultime foto scattate da Ghirri, nel ’92 (prima di morire, non ancora cinquantenne), si vede un fossato di campagna, in quel di Roncocesi, che spartisce «due rive erbose di color verde-marrone» immerse nella nebbia, puntando all’«ultimo orizzonte» che lo attende, e componendo uno squarcio di luce d’acqua che anziché concava pare convessa, un’irregolare «piramide». È uno schema visivo consueto, nel Ghirri tardo, che allude sempre a un’“oltranza” metafisica, a un inoltrarsi verso l’Aperto. Che qui, però, ha un evidente sottinteso testamentario («un che di sacro», commenta l’assistente di Ghirri che guida Marco nei posti dove quella foto è stata scattata): «in quella piramide bianca lui vede qualcosa che va verso l’infinito e lo raggiunge».

Questo atteggiamento, che altri definisce «spirituale» – termine che turba Belpoliti e lo lascia condivisibilmente insoddisfatto –, è quanto divide Pianura dal testo che d’acchito viene spontaneo accostargli, Verso la foce. Anche Celati, in quel testo (originato d’altronde proprio dal Viaggio in Italia di Ghirri), iscrive il suo viaggio lungo il grande Fiume in un itinerarium mentis che si spinge sino alla prefigurazione della propria morte, cioè di un ultimo “trip” verso un’irresistibile fusione panteistica col Tutto. Ma il viaggio di Belpoliti è diverso: almeno altrettanto retrogrado che proiettivo. Non a caso lo accosta a quello allegorizzato da un altro autore distante da lui, il Montale dell’Anguilla: «freccia d’amore in terra» che viene dal Baltico (in realtà – annota Belpoliti con un puntiglio, da lui stesso definito «da sussidiario scolastico», che a tratti aduggia la sua scrittura – dal Mar dei Sargassi) e «giunge ai nostri mari», «risalendo in profondo […] di ramo in ramo […] / sempre più addentro, sempre più nel cuore / del macigno». Per questa scrittura andare avanti, verso l’orizzonte, significa almeno altrettanto risalire, a ritroso, verso l’origine. Certo «quando arriva dove è nata, l’anguilla ha finito la sua vita», e solo retoricamente ci si chiede se «l’origine sia il punto di partenza e anche quello d’arrivo». Ma resta il fatto che è più «per capire da dove viene», che per vedere dove va, che chi dice «io» «scrive queste pagine». Si scrive sempre, almeno per temperamenti come quello di Belpoliti, «cercando qualcosa» che non si «sa bene cosa sia. Forse questo è l’unico modo per trovare».
Il «Delta» del Po col suo aspetto metafisico, inevitabilmente connotato dal precedente di Verso la foce, è ben presente in Pianura; ma non a caso il testo si conclude altrove, ben di qua dal «gran mare de l’essere»: nella chiesa di San Prospero degli Strinati, a Reggio Emilia (la città «losanga», a forma di «mandorla», di cui tanto si parla in precedenza) dove sono sepolti i genitori, i nonni e gli zii dell’autore. Una fine che è a sua volta, dunque, un’immagine di morte; ma, ad anello, anche di origine. La tomba di famiglia è «di pietra lasciata ruvida, non lisciata, così che dà la sensazione di una roccia poggiata a terra, appena rialzata. La pietra è al naturale, per questo quando piove si formano piccole pozze d’acqua nelle concavità e si è tutta annerita. Sembra un pezzo staccato dall’Appennino, un masso rotolato qui». Mentre Celati e Ghirri sono anzitutto demoni dell’Aria (e della Luce), Belpoliti qui si presenta come «uomo fatto in definitiva solo di terra» (come Zanzotto definiva l’uomo di Montale nel saggio decisivo, L’inno nel fango, da Pianura non a caso citato), e quindi di buio.

Uno dei capitoli più belli del libro è dedicato a una singolarissima figura di ecclesiastico disegnatore, originario dell’hinterland di Pavia e operante nell’autunno del Medioevo, Opicino de Canistris. «Un artista psicotico nel medioevo», lo ha definito Ernst Kris; Kris esagera ma certo Opicino, per i suoi tempi, era un «visionario» e un bell’«eccentrico» (Pianura è anzitutto un albero genealogico di «eccentrici», in senso tanto geografico che temperamentale), e lo si ricorda – ne parla anche Calvino, in uno dei saggi di Collezione di sabbia – per le «carte immaginarie e insieme reali del mondo che conosceva, cioè la nostra Pianura». Molte delle carte geografiche fantasiosissime, di questo schietto antenato di M.lle de Scudéry e della sua Carte du Tendre di tre secoli dopo (tanto cara a Lacan e a Zanzotto), sono “umanizzate”: una del Mediterraneo, in particolare, evoca un corpo umano («il viso è il profilo della Turchia; ha una coda nella zona africana verso il delta del Nilo […]; in basso distinguo dei piedi e anche un deretano, anche se sopra c’è il pube, però senza il fallo, e una mano che si sporge verso quello e con un dito sembra sfruculiarlo»).
Come quella del bizzarro Opicino (che, di lui quasi coetaneo, viveva ad Avignone negli stessi anni in cui vi risiedeva Petrarca: e pochi temperamenti quanto questi due paiono antitetici, sebbene il Petrarca di Belpoliti sia quello – “padano” appunto, e ben terrestre – genialmente “inventato” da un altro maestro come Piero Camporesi), l’auto-cartografia che è Pianura si dispiega su un fondo terroso, e terragno, ma – a differenza di quelle di Gottfried Benn, Robert Smithson o appunto Zanzotto – non si spinge in profondità, non vuole stratigrafare la propria geologia. Al contrario vuole sempre distendere una prospezione di sé longitudinale: la più estesa e inclusiva possibile. Un testo di Levi a Belpoliti molto caro è La ricerca delle radici (1981): dove si fa lo spoglio della propria biblioteca più intima e si scopre quanto, di sé, sia fatto di altri. Quelli che abbiamo letto, ma anche quelli che abbiamo incontrato e vissuto: come gli interlocutori di Pianura (da Giuliano Della Casa a Yervant Giankian e Angela Ricci Lucchi, da Pier Vittorio Tondelli a Giulia Niccolai). Una radice che ignoravo, di questa preistoria, sono appunto gli studi di geologia fatti da Marco ai tempi del liceo (liceo scientifico, certo: che dell’autore fa un fiero outsider quanto il Ghirri che all’arte approda dall’Istituto per geometri), che più avanti lo faranno appassionare all’Uomo dell’Olocene di Max Frisch. Era questi un personaggio che «cercava di ricostruire il suo mondo che andava in pezzi. La geologia non serve forse a questo?»: chi scrive «sta forse cercando di rimettere insieme i pezzi sparsi della sua vita» (Belpoliti, scientista, evoca al riguardo il preistorico olo-continente di Pangea; ma la metafora è topica, nel campo dell’autobiografia: rinviando una volta di più all’insospettabile Petrarca che nel Secretum promette di ricomporre gli «sparsa anime fragmenta», e questo appunto farà nei versi in volgare che gli daranno la gloria).
I pezzi e l’insieme. Il capitolo più emotivamente abbandonato è quello dedicato a una radice più fonda delle altre, quella cui Marco appena uscito dal Dams (dove il professor Celati lanciava agli studenti – con fare non si capisce quanto ecumenico e quanto ostile – le copie, già allora introvabili, di Alice disambientata; e dove il professor Giuliano Scabia usciva in strada coi suoi Giganti di cartapesta) dedica i suoi primi e più “scoppiati” articoli. Finita da un pezzo l’avventura punk-paranoica dei CCCP, il troppo tornato all’ordine Giovanni Lindo Ferretti confesserà: «Vivevamo in un mondo frantumato, senza che vi fosse la possibilità di mantenersi integri: nulla era più integro, né la nostra terra né l’ideologia. Non eravamo altro che lo specchio di quella frantumazione e non potevamo che essere frantumati a nostra volta». In questo identikit generazionale Marco, dichiaratamente, si riconosce appieno.
Si capisce meglio, così, la scelta fatta a suo tempo: di prendere le distanze da queste terre frantumate (frantumate, si vuol dire, non solo dalla storia anche tragica che le ha percorse, ma dalla loro intima scissione: segnata in profondità, probabilmente, proprio da quel loro prendere l’anima, oltre che il nome, dal grande Fiume che le nutre ma anche le spartisce: in due versanti che, da sempre, si guardano almeno altrettanto rivali che fraterni), e trasferirsi prima nell’operosa e in apparenza nient’affatto «paranoica» Brianza (anche se Gadda – autore mai citato, in Pianura, forse pour cause – avrebbe qualcosa da obiettare), poi addirittura in quell’anti-Emilia che, a tutti gli effetti, è Milano. Il Belpoliti che abbiamo conosciuto, e che tanto ha contato nella nostra formazione intellettuale e culturale, è quello di Milano: l’uomo che ha fatto la scelta di «vivere nel presente, non nel passato e neppure nel futuro, ma proprio nel presente». Un nome come doppiozero è, in tal senso, un manifesto. La matrice di quella frantumazione è detta nel capitolo che (quasi come quelli “chimici” del Sistema periodico di Levi) s’intitola Aceto: quello prodotto artigianalmente da suo padre, secondo l’uso modenese, e la cui «Madre» (come per tradizione viene chiamata la flora batterica prodotta dal vino lasciato aperto, in cantina, che a contatto con l’aria forma appunto l’acido acetico) «è rimasta in fondo alla cantina della casa in cui sono andato ad abitare […], sotto il monte San Genesio». Ma il Figlio ha trascurato quell’eredità e «la Madre è morta sul fondo della damigiana». Essersi lasciato alle spalle l’aceto della propria identità di provincia equivale ai sin troppo zelanti ravvedimenti di Lindo Ferretti (o a quelli, raccontati altrove, di Giovanni Jervis dopo aver firmato, a suo tempo, l’interpretazione per eccellenza sessantottesca di quell’altro avatar che è Pinocchio). Chi si volge indietro, in questi casi, reca una traccia persistente di quell’aceto: e al se stesso d’antan guarda con un misto di intenerimento etilico e inacidita irritazione. Un altro eroe di Pianura, Antonio Delfini, ha brevettato proprio questo sentimento ambivalente nei confronti della propria «Eterna Provincia» (come la chiamava, spietato, un altro grande non casualmente trascurato da Pianura, Tommaso Landolfi).

Ma Pianura, se non d’identità, segna un cambio di passo. Nel portare alla luce radici tutte ancora intrise di terra, e scivolose come il corpo lutulento dell’anguilla, affronta una Prova ben più impegnativa di quella di un quindicennio fa. Si tratta di tenere insieme il Marco ribelle punk-paranoico emiliano, e sin troppo incline al ripiegamento nel «magone», e il Belpoliti sovraefficiente, e a volte sin troppo impersonale, manager culturale ambrosiano: senza voler rinunciare a nessuno dei due. L’impresa è ardua: come sempre, del resto, i conti che si fanno con sé stessi e le proprie trasformazioni. Ma Pianura ci riesce: specie nei capitoli dove trova la quota giusta. Il paradosso della pianura – specie per un temperamento visivo come quello di Belpoliti – è che, confinati sul piano, di quanto ci sta intorno vediamo ben poco. E nulla, appunto, di quanto è alle nostre spalle. Per poter vedere qualcosa bisogna essere molto alti di statura (e Marco ce l’ha messa tutta); ma, anche, un minimo sopraelevarsi. Non troppo, ché il dogma etico è quello di «stare schisci, come si dice a Milano, schiacciati a terra, per non farsi vedere». La vocazione di chi è di Pianura è di «stare rasi a terra per necessità e per modestia» (queste le ultime parole del libro): per questo non ci si può permettere l’ebbrezza stratigrafica, lo sprofondare nelle psico-viscere dell’«artificiosa terra-carne» di Zanzotto, né l’innalzarsi nelle stratosfere di uno sguardo vertiginosamente, narcisisticamente aereo (come, poniamo, quello di un altro assente, Alighiero Boetti).
Ma se quel vivere «proprio nel presente» lo si vuole riconciliare con quanto lo precede, almeno un po’, bisogna alzarsi e «volare rasoterra» (come dice Belpoliti del suo demone più perturbante – insieme a quello dell’«Annarella» dei CCCP, questa Cindy Sherman della Bassa –, la Ermanna Montanari del Teatro delle Albe: detta «ctonia», col medesimo connotato a suo tempo attribuito da Contini a Zanzotto, ma anche «demone della pianura, un essere che scorrazza sulle zolle appena rivoltate, che sfiora l’erba dei prati»). Non a caso occhieggia spesso, significativa eccezione in un testo che mette fra deliberate parentesi tutti i rimbecillenti paraphernalia della comunicazione contemporanea, l’ottica del «drone»: un occhio che si solleva appena dal piano, senza mai dimenticare il filo di luce che lo ricollega a terra. Ma che, in questo modo, riesce a spingere il proprio sguardo oltre la foce.

Marco Belpoliti
Pianura
Einaudi 2021
pp. 296, € 19,50
In copertina: Luigi Ghirri, Formigine, 1985 ©Eredi Luigi Ghirri