Occorre dunque ripartire
da questa superficie […]
in cui si dispiega tutto il lavoro della pittura; […]
un livello non più profondo
o più nascosto – in superficie, anzi –
ma dimenticato
Louis Marin
Che il trompe l’oeil abbia a che vedere direttamente con un certo qualcosa di ingannevole, ebbene questo è risaputo sin dall’antichità (si ricordi la famosissima tenzone tra Zeusi e Parrasio narrata da Plinio, Naturalis Historia, XXXV). Ma cos’è che per la precisione fa di questo stupido inganno un qualcosa a cui non ci si può mai ben abituare? O, detto al rovescio, qual è il vero inganno della pittura al di fuori di quello messo al lavoro dal meccanismo del trompe l’oeil? Si prenda per un istante in mano quel famoso quadro di Cornelis Norbertus Gysbrechts intitolato Trompe l’Oeil. The reverse of a framed painting (1670 circa, olio su tela, 66,4x87cm. National Gallery of Denmark – “SMK”, Copenhagen). Cosa succede? Sono certo – poiché sarebbe giustificato, è evidente – che davanti a quest’opera si rimarrebbe quantomeno inizialmente per un istante interdetti, poiché qualcosa parrebbe non tornare: perché infatti la Galleria Nazionale danese avrebbe dovuto appendere un quadro alla rovescia sulle sue prestigiose pareti? Ma no, è un trompe l’oeil! Come in un trucco di magia ben riuscito siamo ante litteram davanti a quello che parrebbe essere il rovescio del quadro e che tuttavia – è questo il trucchetto – è comunque (è proprio!) il suo fronte. “Il pittore – e questo ipotetico osservatore direbbe tutto ciò con un sorrisetto compiaciuto e sardonico – mi ha fregato! Ma cosa? Mi ha fregato anzitutto l’immagine. Voglio dire, dov’è quell’immagine che il quadro, per sua natura, dovrebbe sempre promettermi (di vedere)?” Ma procediamo con ordine: 1} la prima ipotesi dell’osservatore è che l’immagine sia proprio lì dietro, cioè sul rovescio di questo quadro appeso con apparente sbadataggine sulla parete. Ma è solo quando 2} ci si avvicina alla superficie (magari proprio – perché no? – per sbirciarci dietro) che si capisce effettivamente dove l’immagine sia, e cioè: esattamente qui in questo reverse, poiché è proprio questa – e non altro – l’immagine da vedere – è la superficie stessa che, nella distanza ravvicinata, rivela (suo malgrado!) la vera natura pittorica di cui è composta –. Solo allora 3} ci si ritrova subito saturi di questa piccola trovata: risolvere con facilità il gioco – non per merito della nostra arguzia, bensì per la fallacia della mimesi pittorica – fa scemare l’attenzione dal quadro in questione verso altro, portando l’osservatore ben subito altrove[1]. In più, se a tutto ciò si aggiungesse il fatto per cui il pittore ha deciso di titolare questo quadro proprio Trompe l’Oeil, ebbene il godimento di questa osservazione sarebbe ancor più breve e ancor più minimo, poiché si scoprirebbe ben subito il trucco che tiene in piedi il quadro stesso (cioè che quello che sto vedendo, benché l’iperrealismo della sua realizzazione sembrerebbe voler turlupinare fino in fondo l’osservatore, non è altro che proprio un dipinto – e precisamente: il dipinto del retro di un dipinto, “The reverse of a frame painting” –).

Fino a qui, niente di nuovo: siamo ancora entro l’inganno anzitutto mediale, in cui ciò che appare non è quel che in realtà è (l’uva dipinta di Zeusi). Ma se da questo quadro passassimo ad una tela di Luca Bertolo intitolata Melancholic Landscape ebbene qui le cose potrebbero svilupparsi più in profondità. C’è una qualche sorellanza tra questo lavoro e quello appena osservato di Gysbrechts? Certamente. Anche qui è ben visibile il verso di una tela, e tuttavia – ed è questa la prima differenza lampante con il precedente lavoro – senza che all’immagine corrisponda la viva volontà d’ingannare l’osservatore. Si prenda in esame una piccola porzione di entrambi i lavori, per poi compararle l’un l’altra puntigliosamente. La superficie di Bertolo, a differenza dell’altra, non ha alcuna velleità iperrealista: addirittura mi verrebbe da dire che la pittura che la compone sia abbastanza annacquata, spesso sghemba, in una parola sempre pittorica (ma del resto il colore qui è maggioranza acrilico): la superficie, potrei dir così, non nasconde mai le sue umili origini – anzi, se possibile, le ostenta.
Cosa accade invece nel Trompe l’Oeil? Del tutto al contrario nel lavoro di Gysbrechts l’iperrealismo di matrice fiamminga è a tal punto accentuato che è il pittore stesso ad esigere che la sua superficie debba essere infine scambiata con l’oggetto lì rappresentato – ed è per questo che essa appare così poco pittorica (ma del resto in questo caso il colore è totalmente ad olio): potrei dire, e non credo di sbagliarmi di molto, che in definitiva questa sia una tela più lignea che pittorica, o quantomeno è certamente così che essa vorrebbe apparire allo sguardo. A questa prima grande differenza visiva ne va aggiunta sicuramente quantomeno un’altra, a dire il vero ancora più sostanziale. Se nel trompe l’oeil di Gysbrechts il quadro viene “smontato” dal titolo rivelatore, al contrario nel lavoro di Bertolo la titolazione gioca certamente a favore del meccanismo iconico. Poiché qui, quello che sembrerebbe essere non altro che il dipinto sommario di un verso, è in realtà – ci viene detto – un Melancholic Landscape. Questo rovescia gli equilibri del gioco in una sola mano, poiché lascia intendere che da qualche parte, cioè forse proprio qui dietro a questa superficie, debba trovarsi effettivamente questo paesaggio di cui si fa menzione[2]. Ma allora il fatto è sorprendente, e bisogna cercare di analizzarlo più a fondo: nonostante questa immagine di Bertolo sia evidentemente pittorica sin dal suo apparire – cioè, lo ribadisco ancora una volta, molto poco realistica –, ecco che essa promette addirittura qualcosa di più reale rispetto a quel reverse così fedelmente dipinto da Gysbrechts. Perché? Perché in qualche modo questo lavoro fa intuire che la pittura, come ben dice Jean Baudrillard in un suo famoso scritto, «È troppo superficiale per essere veramente nulla»[3]. Essa nasconde cioè certamente un qualche segreto, un qualcosa che si mostra agli orizzonti del paesaggio (landscape) come però in sempiterna fuga (land-escape).
Cosa si dà a vedere allora nei margini figurativi di questo quadro? Poiché se da qualche parte – un altrove illocalizzabile – c’è quel Landscape di cui non si è riusciti ancora a trovarne l’immagine più recta (e cosa c’è di più melancolico, per un pittore, di questa impasse figurativa?), è pur vero che su questo verso la superficie non si lascia intendere con semplicità: è questa infatti la mera rappresentazione – più semplice possibile tra l’altro – del retro di un dipinto e basta? Ho già detto di come questa superficie m’appaia traballante, ma forse è meglio essere più precisi: alla pittoricità evidente dell’immagine – le graffe appena accennate con un piccolo tratto di un pennello punta fine, il telaio tirato in alcuni punti con pennellate liquide, etc. – si contrappongono quelli che potrei definire dei piccoli residui di realtà: qualcosa cioè che abita la tela, ma che tuttavia non appartiene alla figurazione spiccia, bensì piuttosto al mondo “là fuori”. Non solo quei due evidentissimi segni spray, ma anche quelle piccole macchie di colore sparse qua e là sulla tela (che, detto per inciso, sono gli unici indizi reali sulla figurazione di quel Landscape che non troviamo), così come il gruppo “titolo/firma”. Cosa sono questi tre luoghi se non quello che sono – o, detto altrimenti, quello che la realtà imporrebbe loro di essere anche al di fuori del piccolo spazio di questa superficie, cioè nel mondo reale? Voglio dire insomma che, a ben vedere, non esiste differenza alcuna tra la rappresentazione e la realtà di questi tre segni (Sign): a ben vedere cioè quello spray è lo stesso spray che l’innamorato usa di nascosto sul muro esterno della scuola («GLORIA TI AMO»), quelle macchiettine sono le stesse macchie – sostanzialmente parlando – che compaiono di solito sul risvolto di una tela e quella firma, lungi da essere frutto di una qualche astrazione od invenzione, è proprio la firma di Bertolo – la stessa che comparirebbe dietro ad un suo qualunque altro quadro o sopra un biglietto di auguri.
Ecco cos’è quell’illusione comunque sempre presente anche nella più integerrima pittura: uno stare tra qui e là, tra rappresentazione e realtà, tra finzione e certezza. La buona pittura è allora quella cosa che non può essere avuta con nitidore, cioè stabilizzata fermamente all’interno del nostro occhio. Forse, aggiungo, essa è qualcosa che non può nemmeno essere compresa dalla vita stessa, e che tuttavia non può essere altrimenti che vissuta.
[1] Questa “noia” davanti ad un meccanismo facilmente (o, al contrario, impossibilmente) risolvibile si mette in moto evidentemente in tutte le opere che, per complicarmi la vita, potrei definire sbrigativamente più concettuali che superficiali.
[2] Del resto è Bertolo stesso – con un sorriso (lo stesso forse avuto a suo tempo da Zeusi nei confronti degli uccelli che scendevano a beccare la sua uva null’altro che dipinta? O piuttosto forse come quello di Parrasio, che invece degli uccelli riuscì a turlupinare proprio lo stesso Zeusi?) – a confessare di aver visto più di una persona sporgersi dietro al suo Ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan (2013, olio su tela. 252X369cm, collezione Nunzia e Vittorio Gaddi, Lucca), anche perché è la particolare modalità installativa dell’opera stessa (solitamente appoggiata contro al muro, con il lato lungo a pavimento) a dare questa possibilità all’osservatore.
[3] J.Baudrillard, Le Complot de l’Art, Sens&Tonka, Paris 2005 trad.it.: Il Complotto dell’Arte, SE, Milano 2013, p.38.
In copertina: Cornelis Norbertus Gysbrechts, Trompe l’Oeil. The reverse of a framed painting, 1670 ca., olio su tela, 66,4x87cm (National Gallery of Denmark – “SMK”, Copenhagen)