Pensando all’arte in Italia, alla sua distinzione tra antica e contemporanea e al ruolo patrimoniale oltre che culturale che essa ha in questo specifico territorio, non possono non essere notate contraddizioni in cui è chiaro che per garantire valore economico ad alcune opere si stia chiudendo un occhio sulla loro implicazione politica nel certificare il subumano.
Per quanto riguarda l’umanesimo, queste incongruenze emergono con chiarezza nell’opera forse maggiore di Francesco Petrarca (1304-1374). E l’interesse, e i dubbi verso l’umanesimo sono qui proposti alla luce di un limite del Post-human di Rosi Braidotti. Come evidenziato da David Lloyd in Under Representation: the Racial Regime of Aesthetics (2018), i termini che si riuniscono intorno al concetto di umano – libertà, autodeterminazione, diritti, proprietà – costituiscono le stesse linee di demarcazione che separano i soggetti umani dagli umani sottomessi. Nel Rinascimento – che potremmo dire iniziato proprio col Petrarca – l’essere universale è l’uomo bianco europeo. Il post-umano con le sue implicazioni scientifiche e tecnologiche è uscito da un desiderio di universalità? Come rispondere a questo quesito rispetto all’identità nera o sinti, per esempio? A chi appartiene l’universale (post-umano)?
Che cosa sono l’umano e il subumano nell’umanesimo petrarchesco? Questa domanda è posta rispetto all’opera che diede a Petrarca la gloria, quella per cui i suoi contemporanei lo premiarono con la corona di lauro in Campidoglio[1] sulle rovine della Roma classica: quest’opera è L’Africa.
La cultura Rinascimentale è strettamente legata alle espansioni geografiche, ma la relazione tra Rinascimento e “scoperte” ( vd. conquiste) ha per “tradizione” connotazioni positive. Nel XIV secolo viene riscoperta la letteratura greca, diffuso il superiore sapere dell’antichità, e avanzano i confini geografici – si pensi alla colonizzazione delle Canarie nel 1312 da parte di Lancelotto Malocello – il che non necessariamente implica una tolleranza di culture altre, anzi, può avere spinto l’italiano[2] rinascimentale a recuperare vecchi miti. È questo il caso de L’Africa, composta da Petrarca tra il 1339 e il 1343 e dedicata al re di Napoli Roberto d’Angiò[3]. Boccaccio (che negli stessi anni componeva De Canaria et insulis reliquis ultra hispaniam noviter repertis), e i circoli del primo umanesimo hanno in grande considerazione quest’opera, composta in lingua latina e appartenente al genere letterario dell’epopea. L’eroe protagonista dell’opera è Publio Cornelio Scipione l’Africano (Roma, 236 a.C. – Liternum, 183 a.C.), il vir vere Romanus che, dopo aver invaso l’Africa in risposta all’invasione dell’“Italia” da parte di Annibale, sconfigge quest’ultimo a Zame (202 a.C.). L’opera è un poema epico ispirato al Somnium Scipionis (54 a.C.) di Cicerone, il brano del De re publica in cui la seconda guerra punica viene narrata tramite l’espediente del sogno. A Scipione Emiliano compare in sogno Scipione l’Africano preannunciandogli glorie future e una morte prematura.

Il Petrarca decide di narrare la gloria di Scipione l’Africano dopo aver visitato Roma nel 1337, sospinto da uno spirito volto al ritorno delle grandiosità romane antiche. Per molti anni il poeta intrattiene uno scambio epistolare con l’imperatore Carlo IV, per il quale desidera che dia “inizio al rinnovamento del dominio romano sul mondo, cominciando con la liberazione della Terra Santa”[4]. Petrarca è il più celebre continuatore del sistema letterario classico, ed è fiero di questa posizione che egli vede in stretta connessione con un tipo concreto di civiltà. Egli desidera che l’imperatore risieda a Roma e che da lì, da questa componente “naturale” del mondo classico, governi il mondo. Per il poeta l’impero romano è un’idea eterna, la riappropriazione dell’antichità, dei suoi eroi mitici.
Petrarca sognava che L’Africa sarebbe stata riscoperta in futuro[5] e che, riemersa dalle tenebre, avrebbe dato origine a un nuovo rinascimento. Ebbene, il mito di Roma antica riemerge proprio nella propaganda fascista, che si propone come una riedizione delle vecchie glorie romane. E ancora prima di lui è l’inno risorgimentale di Mameli ad aprirsi proprio con l’elmo di Scipio, di cui l’Italia si sarebbe cinta la testa prima della guerra di indipendenza dall’Austria. Il cesarismo petrarchesco di Scipione l’Africano non lascia affatto indifferente né il risorgimento imperialista né il duce Benito Mussolini, che imita l’Imperatore Ottaviano.
Le campagne coloniali sono strumentali per la creazione dell’unità nazionale italiana, e il loro precedente storico è proprio l’Impero Romano. Il recupero di una romanità fittizia è evidente anche nel film di propaganda fascista[6] Scipione l’Africano (1937). Questo colossal di Carmine Gallone rientra tra i tentativi di legittimare una continuità storica tra Roma antica e l’impero fascista, con lo scopo di portare Mussolini sul piano del condottiero latino Scipione. Per fare questo il regime non bada a spese, producendo uno dei fiaschi più clamorosi della storia del cinema[7].

L’impero romano è stato un “arsenale di miti” tanto per la nascita del Rinascimento quanto per la scrittura di miti fascisti. È molto poco spesso evidenziata la responsabilità del Rinascimento nel veicolare fantasie virili, mentre dà lustro alla sua committenza, qualificando l’immagine pubblica di uomini (mercanti banchieri, papi e capitani di sventura) che spesso hanno una reputazione improbabile[8]. Il machismo fascista è invece condensato in una retorica dietro a cui è celata la violenza di Stato.
L’Africa del Petrarca nei secoli è stata dimenticata, e dell’autore sono state tramandate soprattutto le poesie in volgare. Ma è proprio questo prolungato silenzio accompagnato dalla “copertura” delle cattiverie rinascimentali con l’ideale di Bellezza, ad aver stimolato in me l’idea che in qualche modo una radice del fascismo italiano possa risiedere proprio nell’intoccabile Rinascimento italiano. Non è forse questa tradizione classica una forma di giustificazione di un confine geografico e umanistico che segna una sorta di primato italico pre-moderno?
Un fattore caratteristico del fascismo eterno è proprio il culto della tradizione – quella, però, che Walter Mignolo (1995) definisce come il processo di ricordare e dimenticare -, poiché la sua cultura sincretistica tollera contraddizioni in nome di una verità primitiva[9], e tale verità potrebbe essere proprio il tentativo secolare di scrivere, di decretare l’esistenza, di un’italianità priva di origine.
E se la storia dell’arte ha condannato artisti come Mario Sironi per la loro relazione con il fascismo, perché i futuristi sono entrati in collezioni museali senza che la collusione politica alterasse valutazioni del loro operato se non marginalmente? Che ruolo ha la bellezza nelle rimozioni di certe parti della Storia? Come ha attecchito la retorica del classicismo nell’arte contemporanea?
[1] La corona d’allora fu offerta a Petrarca sia dalla città di Roma sia dall’Università di Parigi. Petrarca rifiutò il rito medievale offerto dalla seconda e optò per una incoronazione da parte del Senato di Roma e del suo popolo per patriottismo.
[2] Ovviamente si tratta di una generalizzazione geografica, perché non c’è stata nessuna Italia prima del 1861.
[3] Bodo Guthmüller, Il volgarizzamento dell’«Africa» di Fabio Marretti: contributo alla fortuna del Petrarca nel Cinquecento, Lettere Italiane, Vol. 32, No. 1 (GENNAIO-MARZO 1980), pp.43-53. Pubblicato dalla Casa Editrice Leo S. Olschki.
[4] Jiří Špička, Petrarca e l’impero romano, Lettere Italiane, Vol. 62, No. 4 (2010), p. 529. Pubblicato dalla Casa Editrice Leo S. Olschki.
[5] Nel Quattrocento i valori estetico-culturali dati alle opere di Petrarca mutano: il fatto che gli autori antichi fossero considerati irraggiungibili e idealizzati porta a una tendenza verso il purismo linguistico (con Virgilio e Cicerone come modelli esclusivi) e quindi a un allontanamento dall’ammirazione incondizionata delle opere del Petrarca in lingua latina. Per questa ragione opere volgari che il Petrarca stesso considerava di poco valore furono le più apprezzate di questo autore.
[6] Il cinema è “l’arma più efficace” secondo il regime fascista e la creazione della mostra internazionale di Venezia (1932) e la Fondazione di Cinecittà (1937) sono due esempi del rilancio fascista dell’industria filmica italiana
[7] Il film è riportato da The Hollywood Hall of Shame (1984) tra le follie fasciste a fianco del tedesco Kolberg (1945), nonostante gli enormi sforzi promozionali anche del Ministero della Cultura Popolare. Come evidenziato da Giuman e Parodo, fu Luigi Freddi – alla Direzione Generale per la cinematografia – a scegliere di evitare una propaganda troppo diretta del regime, favorendo la produzione di “filmi” quali Squadrone bianco (1936), Luciano Serra Pilota (1938) o L’assedio di Alcazar (1940). In Garrone è chiara l’equivalenza tra Roma dei Cesari e Roma fascista, e a noi la sua insensatezza.
[8] Alexander Lee, Il Rinascimento cattivo. Sesso, avidità, violenza e depravazione nell’età della bellezza, Bompiani, Milano 2013, p. 24.
[9] Umberto Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano 2017, pp. 34-35.
In copertina: Giovanni Battista Tiepolo, Scipione l’Africano libera Massiva, 1719-1721, Walters Art Museum di Baltimora