Varco la soglia di “Sfregi”, la prima mostra antologica in Italia di Nicola Samorì (curata da Alberto Zanchetta e Chiara Stefani; voluta da Genus Bononiae, ospitata a Palazzo Fava), come uno studente impreparato, alle prese con le odiose traduzioni dal latino. Avrò fatto i compiti? Quintiliano mi osserva alzando un sopracciglio. È alle pagine dell’Institutio che penso, non so bene perché, mentre salgo le scale del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni. Il famoso cattedratico raccomandava la pratica dell’imitazione, ma con cautela, perché sapeva quanto fosse complicato raggiungerla. Rischi ovunque: banalizzazioni, superficialità, vigore espressivo. L’intera letteratura classica ha fatto i conti con sottigliezze stilistiche simili: «Almeno quelli che hanno avuto abbastanza senso critico da evitare i difetti dei modelli, non si accontentino di riprodurre le sembianze dei pregi, e, per così dire, solo la pelle o piuttosto le immagini che Epicuro vede emanare dalla superficie esterna dei corpi» (10, 2, 15-16) Così, con sguardo severo, Quintiliano mi accompagna tra le stanze della mostra. I dipinti di Nicola Samorì paiono prendere questo consiglio alla lettera, con gesto di sfida. La pelle delle immagini: non è forse questo il nucleo della sua riflessione pittorica? La pelle – e ciò che sta sotto la superficie: quella specie di vita della materia che affiora, si dibatte alterando le figure dipinte, sfigurandole. Immagine e materia.
Samorì non si accontenta di riprodurre sembianze, la superficie esterna dei corpi. Un diluvio di figure dipinte giunge dal passato per trasferirsi sui suoi supporti. Sono migrate superando i secoli, planando a velocità supersonica sulla Storia per finire riunite qui, raggruppate in un’ottantina di lavori. Dialogano fra di loro, oppure con i fregi dei Carracci, le donne cieche di Annibale, una Maddalena penitente del Canova. Figure dipinte, parata di Santi, residui biblici o mitologici, sono atterrati sui supporti che Samorì utilizza, testando la malleabilità della pittura ad olio, incidendo, lavorando in maniera inedita con bulino, operando su marmo, legno, lino, tela, onice, marmo di carrara, rame trattato, ottone, pietra di Trani, carta applicata su tela, marmo rosa del Portogallo.
Tiziano, José de Ribera, Holbein, Carlo Dolci, Bronzino, Mattia Preti, Giuseppe Maria Crespi sono i primi nomi che vengono in mente, i grandi modelli che Samorì declina, altera, gareggiando con loro, prelevandoli forse dalla sua memoria personale, sorta di inconscio ottico che fa capolino. Tutto un mondo di figure, di gesti, di espressioni ormai scollate dal loro primo contesto, vengono rielaborate in una sorta di secondo montaggio, che agisce liberandole dal loro contenuto, isolando o spostando elementi, come se queste immagini, che percorro con lo sguardo nelle stanze vuote, funzionassero come avanzi di memoria, residui di secoli di pittura. Ma non è solo questo. È la stessa memoria intima di Samorì che opera una selezione, convoca da un altro tempo queste figure, pronte a subire qualsiasi tipo di supplizio? Passione di immagine, montaggio infinito.

Dunque, ci muoviamo sui due piani della mostra, ci spostiamo lentamente dentro una centrifuga che macina secoli di modelli pittorici. Vediamo e insieme sentiamo le opere (Sfregi è un’esperienza di pura sensazione). Le dimensioni dei lavori variano, a volte esplodono smisurate, come nel caso del magnifico Valle umana (Malafonte) del 2018. Gigantesco affresco strappato, copre un’intera parete. Samorì riprende tre affreschi del Bronzino inclusi nella sua “Storia di Mosè”, eppure qui le figure si fanno caliginose, spettrali, quando non divorate da chissà quale sostanza parassitaria. I volti spariscono, lasciando in bella vista sagome nerastre: lacune ovunque. Magnifica rovina costruita su un equilibrio simmetrico, tanto che, vista da lontano, pare di essere di fronte alla tavola di un test Rorschach, Malafonte è un concentrato di parti anatomiche ormai orfane, come se Samorì vi avesse operato tenendo a mente certe tecniche del restauro, ma rovesciandole, accentuandone, accelerandone la devastazione. Quel nero che notiamo ovunque sulle figure non somiglia forse alla crittogama, quel fungo che attacca i freschi esplodendo in miriadi di piccole macchie nerastre che penetrano fin nell’intonaco? In modo simile, il volto della figura che campeggia in Simonia (J.R.S.R.) (2009) sembra divorato da sostanze simili a soda, nitro: gli acidi sfigurano questo magnifico ritratto, giungono a cascata fino alla mano sinistra, devastandola, mentre sulla sinistra un magnifico cane osserva il volto liquefatto del padrone. Qualcosa come una colatura chimica si fa carico delle operazioni e disfa l’anatomia della figura dipinta.

Emerge qui un aspetto cruciale dell’opera di Samorì: il rapporto tra controllo sul dipinto, eseguito con spettacolare maestria, e alcuni gesti che ne alterano l’equilibrio. Azioni che lo stesso artista compie manualmente, o che egli orchestra. Il risultato di ogni lavoro emerge spesso da questo doppio movimento: simili a un lancio di dadi, questi atti decidono della finitezza dell’opera. Strappi, leggere incisioni, scavi profondi, abrasioni, corrosioni chimiche: ci vorrebbe il vocabolario e l’armamentario di un chirurgo per comprendere meglio il suo lavoro. E viene in mente il famoso “Discours aux chirurgiens” pronunciato da Paul Valery il 17 ottobre del 1938, nell’anfiteatro della Facoltà di Medicina di Parigi. Il “Fare” della mano è ciò che sembra unire la professione del chirurgo a quella dell’artista. «Il nome stesso della vostra professione, Signori, mette questo fare in evidenza, poiché Fare è proprio della mano. La vostra, esperta in tagli e suture, non è meno abile ed educata a leggere, della polpa del palmo e delle dita, i testi tegumentari, che a voi diventano trasparenti; oppure, rimossa dalle cavità che ha esplorato, può disegnare ciò che ha toccato o palpato nella sua oscura escursione. […] A volte mi stupivo che non esistesse un “Trattato della mano”, uno studio approfondito delle innumerevoli potenzialità di questa prodigiosa macchina che unisce la sensibilità più sfumata con le forze più delicate».

La mano opera, legge i testi tegumentari. Ma cosa sono i testi tegumentari? Il termine lo desumiamo dal latino tegumentum: ciò che copre, ciò che avvolge; sottile involucro della superficie esterna, composto dell’epidermide e del tessuto mucoso. La parola si addice anche a un vestito che dissimuli nello stesso istante in cui riveli. Il tegumentum appartiene sia all’ordine cose delle cose fabbricate che a quello delle realtà naturali (come se l’elemento costruito fosse una sorta di doppio, di imitazione, di copia di ciò che vediamo in natura). È insomma una pelle, una pellicola che separa l’interno del corpo dall’esterno; ciò che il chirurgo scruta prima di incidere. Allo stesso modo, questa sottile pelle è ciò che separa la superficie di un corpo dipinto dal suo interno. Ma al di sotto (nei dessous) non troviamo organi, solo la pittura che mostra il suo corpo, i suoi strati: una massa cromatica. Nelle operazioni di Samorì, l’incisione può essere a volte così profonda da giungere fino al supporto, infine esibito magnificamente, come in Anulante (2018 – olio su rame). La pelle di questa figura dipinta, le braccia muscolose, alzate, le mani legate, corrose, viene incisa all’altezza del volto, che resta occultato, fuso nel nero del fondo; la pelle viene aperta, dischiusa come fosse un sipario, lasciando in bella vista il supporto cremisi del rame trattato (spesso con zolfo). E questo sipario crea una sporgenza, uno spazio aggettante a tre dimensioni.

In Cavacarne (2014-15 – olio su rame), la pelle della superficie dipinta, ciò che tiene l’immagine, viene abbassato creando una sorta di arco, come se la parte superiore del dipinto avesse ceduto formando una sorta di amaca su cui poggia amorevolmente la mano della figura dipinta. L’opposto di Pentesilea (2020 – olio su ottone), dove il gesto di levare e sottrarre è tutto in superficie. Come in Caino (2020 – olio su lino), dove nella lotta tra i due fratelli la figura del soccombente, schiacciato, appare cancellata, scorticata. E poi Clessidra (2020 – olio su marmo rosa del Portogallo), dove gli occhi di un superbo volto femminile sono stati trapanati con una punta sottilissima, rilasciando polvere che si è posata sulle gote dipinte, producendo una specie di lacrimazione pulviscolare. E che dire del Seminatore (2021 – olio su rame). La maestria con cui Samorì dipinge questa figura di vecchio dalla pelle marcita, intento a strappare (o a sostenere) la pellicola nera del dipinto che giunge a coprirgli il volto, è rimarchevole. Come se la perizia, la magnificenza e la bellezza delle figure risultasse eccedente e, di conseguenza, Samorì si divertisse ad assaltarle, aggredirle.

Diversi sono i gradi di incisione sul corpo della pittura. In superficie, con tocchi minimi (piccoli prelievi di strisce di colore, minuscoli nastri di pelle), oppure decisamente in profondità. Può accadere che un ritratto, composto da strati monocromi ammucchiati uno sull’altro, poi abbassati con le dita, con un colpo di mano, finisca per somigliare a un millefoglie scavato, creando una specie di effetto fisarmonica. Si forma una specie di massa, un bozzo sporgente di materia dipinta. Mentre me lo mostrava, Samorì mi diceva che se in quell’istante l’avesse inciso vi avrebbe certamente trovato del colore ad olio ancora fresco, non seccato. C’è una vita sottostante, a fior di pelle. Come se la materia cromatica vivesse sotto lo strato tegumentario, sotto la quiete, il sonno della superficie. Farla emergere, esporla, forsennarla, è ciò l’artista si prefigge. Questo è ciò che tiene insieme i corpi, le figure. Lo dimostra uno dei lavori più complessi, Cammino cannibale (2019 – affresco strappato). Sei strappi successivi, una sorta di spellatura della figura dipinta, fino a giungere all’intonaco. Forse non a caso citavamo in precedenza l’operazione del restauro, ma a rovescio. È un po’ come se i gesti di Nicola Samorì, questi sfregi, tendessero ad accelerare la distruzione dei suoi dipinti. Riprendo qui una sollecitazione di Federico Ferrari. Proprio qui egli sembra incontrare Lucio Fontana. Le lacune, le incisioni, gli strappi, queste operazioni in profondità sul corpo della pittura tendono a rompere la dimensione finita dell’opera. Come se Samorì volesse accelerarne la fine, esibirne la mortalità, affermandola come costitutiva dell’opera stessa. La distruzione apparterrebbe dunque all’opera, come sua intima alterità.

Questi sfregi sono forse un ponte verso l’abisso, o verso il nero infinito del cosmo. E ripenso a un magnifico testo di Jean Louis Schefer, dedicato proprio a Fontana: «Ma è più o meno lo stesso: come il pensiero, un’opera detiene un potere incoativo – inizia uno spostamento temporale in cui si accumula non una certezza stabile (un’immagine del mondo) ma qualcosa di sconosciuto perché questo abisso a volte mascherato, a volte aperto è il collegamento attraverso il quale il soggetto pensante (e pensante come artista, mettendo in gioco, in proiezione in una finzione dello spazio sul piano, in cose divenute, qualcosa del corpo che il pensiero abbandona) lacera con la superficie del mondo l’ultima pelle che mantenga l’identità dell’io. Cosa sta simultaneamente aprendo, colpendo, in poche parole, cosa sta tenendo aperto? Questa ferita melodica per cui il mondo immaginario dell’arte diventa davvero la superficie cinestetica della sua immaginazione e realtà». Questi sfregi sono allora sacrifici. «Come se questa bocca d’ombra aperta sulla pelle che è l’ultima superficie di contatto tra il mondo e l’io mantenesse nella sua ferita l’illusione ultima per cui il nostro pensiero, sempre, fosse l’irrealtà del mondo».

Al piano terra, nei pressi del bar, di fianco a un suo lavoro, Viduitatis Gloria (2008 – olio su rame), troviamo esposto un magnifico Fontana: Battaglia (1951). Tutto torna.
Nicola Samorì. Sfregi
a cura di Alberto Zanchetta e Chiara Stefani
Palazzo Fava, Bologna
Via Manzoni 2
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