Il filtro è quell’oggetto che lascia passare qualcosa e impedisce a qualcos’altro di attraversarlo. Se stessi scrivendo un articolo sui serramenti, chiamerei quelle righe orizzontali semplicemente veneziane, tuttavia oggi tenterò di parlare di immagini, e la parola più corretta come punto di partenza credo sia filtro. Non a caso, visitando la personale di Luisa Lambri al PAC di Milano si può rischiare di scambiare per composizioni astratte e giochi di sfumature creati in digitale quelli che sono invece muri di famosi edifici sparsi in tutto il mondo. Allora specifico, la parola filtro, che trattiene la sua valenza di oggetto atto a un uso ben specifico, e al contempo è in grado di aprire a riflessioni di ambito meno materiale. Perché le fotografie di Lambri possiedono questa natura duale, da una parte raffigurano architetture importanti, dall’altra sono composizioni e giochi di luce, pure forme d’espressione e risultato dell’incontro tra l’artista e uno spazio che la affascina.
In una chiacchierata con Massimiliano Gioni, sulla rivista online Trax, Luisa Lambri ha parlato del digitale dicendo che, sebbene utilizzi metodi tradizionali “da un altro punto di vista, devo dire che la qualità delle mie fotografie rimanda allo spazio elettronico […] L’immaterialità della luce e la sua percezione hanno molto in comune con lo spazio creato elettronicamente, si tratta di un’architettura fatta di rapporti tra elementi astratti”.

Considerato questo aspetto del suo lavoro, la disposizione di strisce orizzontali fa pensare a un sistema di riproduzione video: la scansione interlacciata. Questo metodo di rappresentazione si affida al fatto che il nostro cervello è bravo a ricostruire una figura o una superficie anche senza avere tutte le informazioni necessarie: dunque se in un video, ad esempio, si proiettano i fotogrammi divisi in strisce orizzontali larghe 1 pixel, nel primo fotogramma tutte le strisce pari, nel secondo tutte quelle dispari e via così, noi quasi non notiamo differenza. Ogni immagine è incompleta, eppure la parte mancante viene colmata inconsciamente e automaticamente dalla nostra percezione.
Quattro anni dopo l’intervista, nel 2002, nasce questa serie di fotografie da Los Angeles; non so se scattandole Lambri avesse in mente la scansione interlaccaiata, però gli ingredienti per accomunare la sua opera al digitale ci sono tutti: la luce, assoluta protagonista; a seguire uno spazio creato elettronicamente e rapporti fra elementi astratti.
Torniamo al discorso delle veneziane come filtro. Effettivamente lo sono, ma in questa fotografia non filtrano solo la luce, filtrano un’immagine: foglie. Non so che pianta sia, ho tentato anche di trovarne la specie mostrando a Google Lens una fotografia degli appartamenti californiani. L’unico risultato è stato che il programma ha scambiato un cespuglio per una lince rossa, con l’algoritmo già pronto a sfoggiare migliaia di immagini di felini, se solo gliel’avessi chiesto toccando un pulsante. Se avrò modo, chiederò a un giardiniere. La cosa degna di nota, comunque, è che siano principalmente foglie. Di questa foto, Diego Sileo e Douglas Fogle, scrivono nel libretto dato ai visitatori del PAC: “Il motivo orizzontale delle stecche veneziane diviene un filtro diversamente modulabile con cui regolare l’apertura sul mondo e il propagarsi della luce: l’architettura fotografata, ma anche la parete fisica del PAC, diventano così una membrana porosa, quasi un’entità vivente che respira.”

Ogni parola richiama inevitabilmente a sé altre parole e sensazioni. Qui è chiara l’analogia con il diaframma della macchina fotografica, che ha un funzionamento simile alla veneziana. Ma andiamo oltre, sentiamo dentro di noi il brulicare, il movimento, il soffio di vento che emana dal respirare. Poi la porosità, che è ancora qualcosa che lascia passare un po’, non totalmente, una seconda specie di filtro. Ma se quell’albero di cui vediamo solo le foglie, ovvero la parte leggera, morbida, transitoria, al posto della delicata “membrana porosa” delle veneziane avesse incontrato l’intransigente ferro battuto.

Mi si perdoni questa eretica giustapposizione di immagini così diverse, eppure non posso essere l’unico a vedervi una somiglianza, non nell’immediatezza del colpo d’occhio, è chiaro, ma secondaria, enigmatica, che si lascia scoprire lentamente. Proverò a spiegare cosa vedo.
Prima però qualche cenno sulle due artiste. Entrambe prediligono la fotografia. Per loro è questione di immediatezza, è intuizione che si fa immagine. “Quello che mi è sempre piaciuto della fotografia è che è un modo così diretto di mostrare ciò che mi passa per la testa” (1,000 words. Zoe Leonard talks about her recent works, intervista a cura di Matthew DeBord, “Artforum”, Gennaio 1999) e “con altri strumenti dovrei preoccuparmi di ricostruire qualcosa che la fotografia, invece, rende con immediatezza” (Luisa Lambri, Documentario sentimentale, intervista di Massimiliano Gioni, “Trax”, 1998). Non è necessario che dica chi ha scritto cosa, non serve. Piuttosto, spendiamo qualche parola sul concetto di immediatezza, che se abbinato alla fotografia — ai miliardi di fotografie — è troppo spesso scambiato per velocità o semplificazione. Immediato significa etimologicamente “senza nulla di mezzo”. Il fattore immediato, cioè appena conseguente, siamo noi. Così le due foto non sono frammenti di realtà immortalati in un veloce lampo di ispirazione, sono immagini pensate, immagini che sono state cercate, e in virtù di questa ricerca si sono fatte più vicine a noi che le guardiamo: immediate, perché, in fondo, per essere lette non hanno bisogno che di loro stesse.
Non meno interessanti sono gli estremi biografici. Leonard nasce nel 1961 e la prima grande esposizione in cui appare è Documenta IX, curata da Jan Hoet, 1992. Lambri nasce nel 1969 e guadagna notorietà con la sua presenza alla Biennale di Venezia del 1999, curata da Harald Szeemann. Quasi un decennio separa le loro nascite e le loro salite alla ribalta, queste ultime due situate rispettivamente all’inizio e alla fine degli anni novanta, e che ci portano qualcosa da quei tempi ormai distanti. Negli anni novanta ci sono a malapena nato, dunque mi limiterò a parlare esclusivamente di queste due fotografie.
I due lavori sono molto diversi, però vorrei tentare di mettere in luce una somiglianza che si ritrova nonostante le distanze. Come due stelle in realtà molto lontane, ma che guardate dalla superficie del nostro pianeta sembrano vicine a tal punto da formare una costellazione, così certe prospettive rivelano dei punti in comune. Come nella costellazione, queste vicinanze potrebbe darsi siano mere suggestioni, ma non prive di fascino. Inizio l’elenco.
Primo: il viaggio. Il viaggio è il motore del lavoro di Lambri, il suo rapporto con le architetture è un rapporto intimo, frutto di uno sguardo e di un cuore che cercano di abitare quei luoghi, che sono svelati e al contempo nascosti dalle sue fotografie. Ne parla approfonditamente in un’intervista con Hans Ulrich Obrist. Il risultato sono fotografie che a un tempo parlano di lei, esprimono sentimenti, e rispettano profondamente le scelte architettoniche dell’edificio con cui la sua mente e il suo obiettivo stipulano questo contratto emotivo. Citando l’artista: “Nel lavoro fatto in Finlandia l’opera di Alvar Aalto non è riconoscibile, ed è stata rispettata solo accidentalmente”. Questa accidentalità è certo frutto di tanta osservazione e passione per i luoghi che immortala. I suoi soggetti sono opere di grandi architetti, in genere della prima metà del Novecento. Ad esempio la fotografia di cui stiamo parlando è scattata in un edificio concepito da Richard Neutra nel 1937.
La serie di foto di Leonard, Tree + Fence, origina anch’essa da un viaggio, un modo di spostarsi e abitare tuttavia molto diverso da quello di Lambri. In un articolo apparso su “Artforum” nel gennaio 1999, l’artista ci racconta come nel 1994, in Alaska, abbia fatto un’esperienza più diretta della natura, sperimentando in parte un’economia di sussistenza, tramite la pratica di gesti semplici e vicini alla natura, come lo scaldarsi col legno e la caccia. Anche questo è un modo di abitare un luogo. Se però Lambri ci prova con l’eleganza e la delicatezza dei suoi sguardi, Leonard ha incontrato la natura dell’Alaska anzitutto col proprio corpo. Quando è tornata a New York, qualcosa nel suo modo di vedere è cambiato: “Queste immagini — mattatoi all’aperto, flora di strada che che combatte il tessuto urbano — segnalano uno sforzo di abitare un’economia che la maggior parte di noi solo intravede”. (These pictures—outdoor abbatoirs, streetscape flora that combat the urban fabric—signal an effort to inhabit an economy that most of us only glimpse.)
Secondo: i luoghi. Lambri fotografa opere d’arte architettoniche, che se non fosse per la specificazione interna al titolo di ciascuna, potrebbero risultare irriconoscibili nelle singole foto. Leonard fotografa gli angoli anonimi, i luoghi di tutti e di nessuno dove la natura può rivalersi sulle gabbie che la opprimono, fondendosi a esse, avvolgendole e piegandole con la sua forza cieca. Negli edifici delle foto di Lambri ci si va in gita, sono importanti e la nostra società li conserva in buono stato da decenni. Le strade rese da Leonard sono frutto dei decenni di incuria, in cui si è preferito passeggiare lungo il marciapiede, con lo sguardo rivolto altrove, verso una meta situata altrove.
Terzo: la composizione. Davanti c’è una griglia, un filtro. Il primo è raffinato, ordinato ed elegante, filtra la luce e lascia intravedere le innocue foglie, che se ne stanno dietro, a farsi cullare dolcemente dal vento della California. Il secondo è duro, è metallo, liscio e ostinato. Dietro di lui un tronco che, ancora più ostinato, lo sommerge, e quel duro legno sembra quasi venirci incontro come un denso liquido grigio. Questa foto è ruvida, opprimente, il nostro sguardo non può vagare oltre la finestra per osservare cosa sta dietro, è lo stesso “dietro” — che doveva rimanere un semplice e muto fondale — a superare la ringhiera. La scansione orizzontale della prima fotografia è formata da linee sottili, e il suo bianco si intona con la luce dello sfondo, pur non lasciando adito a dubbi su cosa sta dentro e cosa fuori. Tutto è in ordine, in armonia, e in quello spazio misterioso regna il silenzio. Nella seconda la scansione è verticale, le sbarre sono poche e spesse, calano dall’alto come una grata che vuole impedire al tronco di passare. Il tronco non si arrende, avanza e assorbe la parte inferiore della grata, quel duro metallo si riduce a una cicatrice sulla corteccia. Cosa è dentro? Cosa è fuori?
Due filtri, il primo sottile e ordinato, che quasi non vorrebbe essere notato: le veneziane; il secondo caparbio, un cancello, costruito proprio al fine di non lasciar passare.
Due punti di vista sulla natura, il primo di ordine estetico, il dolce fruscio delle foglie che allieta un nostro pigro pomeriggio estivo; il secondo che parla di una resistenza, la lenta e costante crescita del tronco che supera qualsiasi muro.
Due artiste, due fotografie, due modi completamente diversi eppure affini di parlare di un’esperienza che ormai ci accomuna tutti. Seduti ad aspettare nelle nostre case volgiamo gli occhi alle finestre, ai cancelli che ci separano da quel fuori che ora ci è vietato, e in qualche modo ci rapportiamo a quello spazio che è distante, ma continuamente ci parla.
Luisa Lambri. Autoritratto
a cura di Diego Sileo e Douglas Fogle
PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea, via Palestro 14, Milano
aperta fino al 19 settembre 2021
In copertina: Luisa Lambri, Untitled (Sheats Goldstein House, #14),2007 Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano e Thomas Dane Gallery, London (particolare)