«Sul destino di Antonin Artaud siamo ancora incapaci di riflettere quanto dovremmo. Anche se sapessimo meglio chi fu e quello che gli accadde nel campo della scrittura, del pensiero e dell’esistenza, ciò non avrebbe per noi un senso sufficientemente chiaro. Eppure alcune verità parziali vanno momentaneamente precisate: fu dotato di estrema, tormentosa lucidità; la sua cura costante fu la poesia, il pensiero, e non, alla maniera dei romantici, la sua persona; andò incontro ad una esigenza di sconvolgimento tale da rimettere in causa i dati di tutte le culture, in particolare quelle del mondo contemporaneo…
Non siamo pronti a collocare nella loro vera luce gli ultimi dieci anni della vita di Artaud. È sconvolgente il fatto che, pur dominato dallo spirito che è fiamma, Artaud non si liberi mai dalla fedeltà alla luce che è spirito. Egli non tradisce l’uno per l’altra…
Quando parla della vita, egli parla del fuoco; quando nomina il vuoto, intende la bruciatura del vuoto, l’ardore dello spazio a vivo, l’incandescenza del deserto. Il Male è ciò che brucia, sforza, escoria. Anche se nell’intimità del pensiero e nella violenza egli ha sempre sentito l’assalto di un’entità malvagia, per lui questo Male non è il peccato, ma la crudeltà, l’essenza stessa dello spirito che “il cuore vero del poeta sofferente” è destinato ad accogliere. È vero che Artaud ha sofferto nella mente e per la mente. È vero che il suo pensiero è stato dolore e il suo dolore l’infinito del pensiero. Ma la violenza da lui sopportata con uno strano tormento innocente, la rivolta affermata dalla sua parola, ben lungi dal rappresentare un impulso particolare e personale, indicano l’insurrezione che sorge dalle profondità dell’essere: come se l’essere nel suo intimo fosse già non solo l’essere ma “lo spasmo dell’essere” e il “rapace bisogno d’involo” da cui furono sollevate senza posa la vita e la poesia di Antonin Artaud.»
Queste parole appartengono a Maurice Blanchot. Altre parole avrei dovuto scrivere per accompagnare l’uscita della mia traduzione della corrispondenza tra Artaud e l’editore Pierre Bordas ma perché non usare queste per dire ciò che non si può dire. Avrei potuto, effettivamente, mettermi sotto e imbastire un discorso su ciò che sento ogni qualvolta leggo qualsiasi cosa abbia scritto il Signor Antonin Artaud, cercando di interpretare qua e là il pensiero, trovando, forse, una nuova pista da seguire, cadendo per sbaglio in una di quelle intuizioni che renderebbero per un istante luminoso il cammino di ogni scrittore. Ma non sono fatto per questo. In qualche modo sono dalla parte di Socrate che prendeva in giro i rapsodi che, invece di limitarsi a leggere i poemi di Omero, avevano la pretesa di interpretarne il “pensiero”. L’interpretazione rimane infinita. È legittima, ma io sono fatto per altro.
Sono fatto per farmi letteralmente trapassare da ciò che leggo. Sono fatto per ascoltare i detriti, le schegge, ciò che rimane impigliato nella carne. Sono fatto per asciugare le lacrime di sangue. Sono fatto per essere sconvolto. Sono fatto per balbettare nel linguaggio. Sono fatto per essere innamorato – impalato – bruciato. Scrivere è tradurre, trascrivere ciò che amo. Tradurre Artaud. Trascrivere Blanchot. Scrivere è mettere in scena la morte del pensiero. È sacrificare la parte di noi che s’impone. Scrivere è esporsi alle raffiche incondizionate della vita.

Nel 1947 Antonin Artaud incontra nella galleria di Pierre Loeb l’editore Bordas. Da quell’incontro nascerà il libro Artaud le Mômo, apparso nel 1947. In un primo momento il libro doveva essere accompagnato da disegni di Picasso che in qualche modo declinò l’invito. Quali fossero i motivi per cui Picasso non ricevette Antonin Artaud, che più volte bussò alla sua porta per chiedere quei disegni, resteranno per sempre oscuri.
Artaud in quel periodo era al culmine del suo essere spezzato. Rileggendo le lettere che scrisse negli ultimi anni ai vari destinatari si avverte una deflagrazione del tempo. Tra mittente e destinatario si apre un abisso che nessuna lettera sembra poter colmare. Sicuramente non sarà stato facile per chiunque l’abbia incontrato. Anni fa ho avuto modo di leggere una sorta di intervista di Dubuffet in cui raccontava di tutte quelle volte che in piena notte Artaud bussava delirante alla sua porta per chiedergli i soldi dal fondo raccolto al Vieux Colombier. Ciò che mi aveva colpito è che ad aprirgli la porta era stata sempre la moglie Lili.
Prima che morisse, ho provato a chiedere ad André Berne-Joffroy, che è stata la prima persona ad andare a trovarlo al manicomio di Rodez e al quale lo stesso Artaud aveva lasciato una cassa piena di disegni e lettere, poi consegnata a Paule Thévenin, se sapesse qualcosa in riguardo alla faccenda del libro mancato con Picasso. Purtroppo non ne sapeva nulla, ma a suo avviso, l’irruenza con cui Artaud si presentava alla sua porta aveva probabilmente irritato Picasso.
Ad ogni modo il libro fu pubblicato e sappiamo che ad illustrarlo fu lo stesso Antonin Artaud.

Le Lettere a Pierre Bordas di Artaud ripercorrono la storia del libro ma soprattutto vogliono essere la chiave per aprire quella porta a cui un uomo bussa per entrare nell’altro. E questo lo abbiamo fatto bussando alla porta di Nicola Samorì, un artista che non ha mai smesso con la sua opera di lacerare il tempo della visione. Dopo aver ritrovato, nell’archivio di Pierre Bordas, 4 pagine sciolte con la stampa litografata dei disegni di Artaud, probabilmente “prove di stampa” per la realizzazione del libro, abbiamo chiesto proprio a Samorì di leggere quelle “macchie” attraverso l’occhio del suo gesto, creando una sorta di secondo capitolo dell’immagine. Il risultato è una suite di disegni, di cui uno riprodotto nel libro, e una suite di quattro incisioni tirate a 10 esemplari, fuori testo, che accompagnano la tiratura di testa del libro.
Si presentano qui due lettere tratte dal libro “Antonin Artaud Lettere a Pierre Bordas“, a cura di Domenico Brancale, nota di Pasquale Di Palmo, edizioni Prova d’Artista 2021. Il libro contiene uno scritto di Pierre Bordas che racconta l’incontro con Antonin Artaud.
Domenico Brancale

Venerdì 3 gennaio 1947
A Pablo Picasso
7 rue des Grands Augustins
Pablo Picasso,
Non sono un debuttante alla ricerca di illustrazioni di un grande pittore per lanciare i suoi primi scritti.
Ho già cagato e sudato la mia vita in scritti che valgono poco più dell’agonia da cui provengono. Ma che bastano a se stessi e non hanno bisogno di un padrino o dell’accompagnamento di chicchessia per fare il loro piccolo cammino.
Tra tutte le opere scritte dopo la mia uscita dal manicomio di Rodez ho estratto cinque poesie che hanno invogliato un editore, il quale ha desiderato fossero illustrate da 6 sue acqueforti, se fosse stato per me non ci avrei mai pensato.
Anch’io sono capace di fare il mio ritratto e d’illustrare i miei testi con figure che cessano di essere disegni[1] per diventare dei corpi animati.
Infatti a Rodez non ho fatto altro che fabbricare corpi animati, motivo per cui l’amministrazione della polizia manicomiale non ha smesso di torturarmi.
Ho cinquant’anni.
Antonin Artaud

Parigi, 6 febbraio 1946.
A Pierre Bordas
Caro signore,
dovrebbe inviarmi un biglietto per fissare un appuntamento al fine di prendere una decisione in merito alla pubblicazione della raccolta delle mie 5 poesie «Artaud le mômo» ecc. Vorrei tanto che la pubblicazione di questa raccolta ora non fosse più ritardata. Dinanzi alla mancanza di Picasso adesso non vedo nessuna soluzione per quanto riguarda l’illustrazione delle mie poesie di un pittore qualunque. Non vedo nessuno che possa illustrarle, e non voglio fornire ad altro disegnatore che me stesso l’occasione di illustrare il mio pensiero. Lo stesso Picasso non poteva comprendermi come potrei fare io e sotto ogni punta di vista un libro delle mie poesie da me illustrato deve avere un valore più grande (anche nel mercato) che illustrato da qualcun altro. Poiché linearmente parlando costituisce un insieme che non potrebbe essere ottenuto con un altro pittore. Voglio illustrare queste cinque poesie con disegni presi dai miei quaderni e inscritti nel vivo della mia attività manuale di scrittore. Se il commerciante che c’è in lei non vede che il nome e la gloria del pittore, deve anche pensare alla gloria che a livello commerciale deve essere il risultato di un lavoro sorprendente per la novità e la sua originalità.
Non dimentichi che al Vieux-Colombier[2] c’erano 1000 persone per una sala di 350 posti e che hanno rifiutato 400 persone e che non è la gloria del nome ad aver attirato tutta questa gente ma l’idea della natura singolare dell’evento, la stessa natura singolare che si troverà nel libro illustrato da me.
Quindi, Sig. Pierre Bordas, è così che stanno le cose fra di noi: le propongo di illustrare queste cinque poesie con una decina di disegni che rappresentano dei totem, dei gri-gri, delle macchine operanti di un carattere misterioso e le suggerisco di mandarle, immediatamente, in stampa con la seguente composizione.
Se non crede di poterle pubblicare subito le chiederò allora di rescindere il nostro contratto.
Ho richieste da tutte le parti di pubblicare i miei testi le mie poesie e non mi viene mai fuori niente perché gli editori con cui ho firmato un contratto ritardano a tempo indeterminato la pubblicazione dei miei scritti.
La prego di inviarmi un biglietto per dirmi quello che avrà deciso.
Suo
Antonin Artaud
23 rue de la Mairie
Ivry-sur-Seine

[1] Le parole: essere dei disegni, costituiscono l’ultima riga della seconda pagina della lettera, in basso della quale, Antonin Artaud, al fine di dare a Picasso la prova di ciò che lui avanzava, ha disegnato un magnifico corpo animato.
[2] Per la conferenza del 13 gennaio 1947: Tête-à-tête di Antonin Artaud.
In copertina: Antonin Artaud