Considerando i libri che hanno fatto di lui quello che è, Se consideri le colpe del 2007 (proprio in questi giorni tradotto negli Stati Uniti da Archipelago Books) e Ogni promessa del 2010, era facile indicare in Andrea Bajani il “più romanziere” fra i nostri scrittori (quelli, s’intende, degni di questo nome). Il suo mentore, Antonio Tabucchi, a quei tempi poteva parlare di un’idea della letteratura, quella di Bajani appunto, «come memoria degli altri»; ed è significativo che ancora oggi uno dei suoi blurb venga affidato a Sandro Veronesi: il quale (a torto) passa per essere, a sua volta, un “romanziere puro”. Eppure da allora sono seguiti, nell’ordine: un memoir sulla morte appunto di Tabucchi (Mi riconosci, 2013), una raccolta di racconti brevi modellati sui Sillabari di Parise (La vita non è in ordine alfabetico, 2014), una fiaba per adulti (l’incantevole Un bene al mondo, 2016) e infine, addirittura, due raccolte di versi (Promemoria, 2017, e Dimora naturale, 2020). Non c’è suo passo, insomma, che non lo abbia allontanato dal feticcio del romanzo: la cui monocultura aduggia i nostri cataloghi di sempre più meccanici addendi seriali (ma lo stesso Bajani, per la verità, presentando Il libro delle case non s’è peritato di definirlo un «romanzo»).
Se è un romanzo, però, Il libro delle case si colloca agli antipodi dell’inerte macchina da intrattenimento che oggi si vuole a tutti i costi conservare. Prima contravvenzione alle monoregole, la struttura a incastro che allinea 78 frammenti lirico-narrativi (non di estensione regolare, come nella Centuria di Manganelli – ma quasi) anche apprezzabili, volendo, ciascuno in sé; e che – seconda grave contravvenzione – non si susseguono secondo un vettore lineare, alternandosi invece per sottili eco simmetriche (entrelacement per continui flashback e flashforward che ricorda – con tutt’altra filiera compositiva – le non meno mirabili Ripetizioni di Giulio Mozzi, per caso uscite negli stessi giorni da Marsilio). Terza contravvenzione, gravissima, il riferimento pressoché esplicito (come rivelano le date associate ai frammenti) alla biografia di chi scrive: colui «che per convenzione chiameremo Io» e che parla sempre di sé, dunque, alla terza persona («Io viene fatto a pezzi dall’oscurità, lascia pezzi di sé sopra il tappeto»).
Lo straniamento del materiale autobiografico, così ottenuto, è radicale: un altro narratore che non si vergogna della propria intelligenza, Francesco Targhetta, ha definito Il libro delle case un’«autobiografia esternalizzata». Rovesciato è infatti il vettore dello sguardo autobiografico che per tradizione si rivolge all’intimità di chi scrive, e qui invece si proietta appunto all’esterno: col paradosso che quel “fuori” del soggetto è poi, in effetti, un interno. Paradosso profetizzato negli anni Sessanta da Jacques Lacan, quando preveggendo l’alienazione umiliante dei nostri gloriosi tempi social, coniava il termine estimità: in cui si rovescia, appunto alienandosi, quanto una volta gelosamente si conservava nella sfera dell’intimità.
Proprio l’asettica e burocratica disciplina detta estimo, in effetti, parrebbe guidare il gioco di Bajani. Perché sua contrainte decisiva è che ogni stazione di questo giuoco dell’oca, ogni tessera di questo puzzle è rappresentata da una delle case abitate da lui, o dalle persone a lui più vicine (anche prima del 1975 della sua nascita nonché, in un’occasione, nel futuro di un 2048 solo ipotizzabile); e le mappe catastali di dieci di queste case sono riprodotte con puntiglio nel testo:
Tutto quanto esuli da quelle mura, da quelle suppellettili, dagli eventi che vi hanno albergato, viene minuziosamente cancellato («dire di più sarebbe soltanto non resistere al pettegolezzo»). Il narratore gioca dunque a rimpiattino col lettore, chiamato a ricostruire su base indiziaria le vicende di una famiglia d’origine luogo di tutti i deficit, di una serie di febbrili avventure sessuali in gioventù, di un matrimonio compassionevole e dunque sbagliato (la cui «felicità», che pure «è stata», è l’omissis più risoluto), di una nuova avventura nel lontano più lontano di tutti (più in là, c’è solo da prendere il volo verso la Luna). Ci si ricorda allora del disegno posto in copertina a Un bene al mondo, che riassumeva quella “trama” elementare in una ulteriore schematizzazione onirico-infantile, vera e propria fiabesca Carte du Tendre del testo:

Non mancano precedenti, alla costruzione del romanzo (Pot-Bouille di Zola, 1882; High-Rise di Ballard, 1975; La vita: istruzioni per l’uso di Perec, 1978; il sottovalutato Flat di Mark Macdonald, 2003) o dell’autobiografia (La casa ispirata di Savinio, i mirabili Ricordi d’infanzia di Tomasi di Lampedusa – che già riproducevano, a mano libera però, le piante di quei cruciali intérieurs –, La casa della vita di Mario Praz), sulla falsariga degli interni di un edificio (la metafora architettonica, del resto, è la più gettonata fra le moderne poetiche del romanzo); ma la particolarità del Libro delle case consiste in questo loro plurale. “Casa”, strutturalmente, può essere di volta in volta un’utilitaria (come la Renault 4 in cui trova la sua estrema dimora la figura proiettiva di Aldo Moro), il guscio pure semovente della Tartaruga-avatar infantile, persino la figura emblematica della fede nuziale (perfetta allegoria del «fuori» che è «un dentro rovesciato»: al pari di ogni nucleo famigliare, come si dice con metafora inavvertita quanto eloquente).

«Ho cambiato trentasei case, dieci città»: così, una volta, Anna Maria Ortese ha sintetizzato la sua vita; e anche nel caso di Bajani la dis-continuità abitativa è il contrassegno di una dis-continuità esistenziale che ha trovato la sua sigla nella forma dis-continua, frammentaria, di questo suo libro: il migliore, senz’altro, dall’exploit di Se consideri le colpe. Ma il precedente più diretto, nella nostra tradizione, è un altro. Quando in due o tre caselle “vuote” del mosaico, prive infatti di data, colui «che per convenzione chiameremo Io» lamenta che permangono zone, della sua memoria, inattingibili al più scrupoloso degli scandagli, ai suoi sforzi di recupero più insistiti, usa la metafora di un braccio meccanico che tenti invano di artigliare questi ricordi da un contenitore trasparente, sì, ma pieno di sabbia. È solo una delle numerosissime metafore di cui è intessuto Il libro delle case, che in tal senso ricorda la lingua cristallina e perentoria del Calvino tardo: quello che, senza (quasi mai) scrivere un verso, è stato il più poetico dei nostri grandi narratori. La morte precoce interruppe il suo gioco a incastri autobiografico, Passaggi obbligati: che nel proprio episodio più cruciale tornava su quella che è stata la sua metafora ossessiva, la metafora appunto della sabbia. In un saggio di quegli anni paragonava l’identità individuale, Calvino, a «una specie di sacco o di tubo in cui vorticano materiali eterogenei cui si può attribuire un’identità separata e a loro volta questi frammenti d’identità d’ordine superiore via via sempre più vaste». Un contenitore di sabbia, come il serraglio della tartaruga che mai verrà raggiunta dal nostro inseguirla, è una casa fatta di tanti istanti-cristallo: che scorrono uno dopo l’altro, nell’imbuto stretto della vita, ogni giorno avvicinandoci alla sua fine. Di qui lo struggimento, tanto severo quanto innegabile, di un libro come questo.
Andrea Bajani
Il libro delle case
Feltrinelli, 2021, pp. 251, € 17
Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Sole 24 ore» l’11 aprile 2021