Dopo il non scontato successo dell’esordio narrativo Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie 2016), Andrea Inglese colpisce ancora con La vita adulta, in libreria in questi giorni per lo stesso editore (pp. 372, € 16,80). Fra loro i due testi compongono un chiasmo. Mentre al centro della vicenda, nel primo romanzo-memoir, c’era un’immagine classica come La liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo (ad allegorizzare la psicomachia che illumina e incendia la storia d’amore del narratore col senhal “Andromeda”, e intanto incendia e illumina il testo con non meno amorose ekphrasis: già primo motore immobile del capolavoro di Inglese poeta, Commiato da Andromeda, pubblicato da Valigie rosse nel 2011), in questo secondo lavoro le immagini sono la vita stessa dei due protagonisti: la body-artist Nina e il critico d’arte Tommaso, che s’inseguono e si sfuggono in un caustico tour de passe-passe seduttivo, e un non meno catturante tour de force narrativo, altalenante fra Milano e Berlino. È un nuovo episodio, fra il molto altro, della fortuna significativa che di nuovo, dopo i bei tempi del kunstler-roman romantico, va incontrando la figura dell’artista visivo, e del suo mondo, nella narrativa che si fa oggi (si possono utilmente leggere, al riguardo, Artisti di carta di Roberto Pinto, Postmedia Books 2016, e il recente Il pittore come personaggio di Filippo Milani, Carocci 2020: che va da Carlo Levi a Francesco Pecoraro passando per episodi recenti, e maiuscoli, come Il brevetto del geco di Tiziano Scarpa e Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio).
Per presentare La vita adulta e meno allusivamente ricollegarlo al testo precedente, ringraziando l’editore, Andrea Inglese ha accettato di autoantologizzare per “Antinomie” un capitolo-chiave di ciascuno dei due libri, ricollegandolo alle sue imagines agentes: immagini che nei testi corrispettivi non figurano. Così operando una ri-mediazione cross-testuale (absit iniuria verbis) che conferma, ove ce ne fosse bisogno, la movimentazione diegetica, oltre che di genere, che le immagini sono in grado di introdurre nei testi letterari. A patto che letteratura siano, si capisce.
A.C.
Come si tenevano una volta gli album delle foto di famiglia, da sfogliare assieme in un rituale di coesione, di certezza dei legami, di continuità temporale, così si potrebbero realizzare degli album d’immagini, riproduzioni di dipinti antichi e moderni, ma in formato “figurina”, come a certificare che un giorno siamo incappati di fronte a certe immagini materiali, e la nostra mente ne è rimasta imbrogliata. Vi ha trovato una strana estensione di se stessa. Questo è quanto accade al protagonista di Parigi è un desiderio: si mette a sbrogliare quella porzione della propria vicenda amorosa che un quadro ha cristallizzato in superficie. Quanto a Nina, protagonista di La vita adulta, è una creatrice d’immagini viventi; il suo talento consiste nel costruire delle azioni dentro cui il pubblico possa rimanere catturato e smarrirsi.
A.I.
- da Parigi è un desiderio, Ponte alle Grazie, 2016
Il quadro
1.
Il quadro si presenta stranamente affollato, le figure sembrano molte, addirittura troppe, tanto che si fa presto a dimenticarle; tutte quante è impossibile tenerle a mente, e pur enumerandole, con l’implacabile cadenza matematica che isola e definisce, anche in tal caso qualcuna sfugge al conto, si sottrae alla somma finale. Quante persone ci sono, in definitiva, raccolte sulla spiaggia, e sparse nell’intero paesaggio? Gli agglomerati di individui in primo piano, veri e propri capannelli, non permettono un conteggio sereno: sulla sinistra spuntano dei copricapo (turbanti, panama di paglia con piume di struzzo), poi bisogna spiare tuniche, gambe, piedi e calzari, e sulla destra, infine, acconsentire all’intrusione discreta, parziale, di un viso. Se escludiamo la coppia di protagonisti, gli spettatori del dramma – che in realtà voltano ad esso le spalle – potrebbero essere ventidue, ma allargando la visuale a colline, promontori, villaggi ancora ben distinguibili, possiamo aggiungerne ventidue ulteriori (figure umane, antropomorfe), ma senza dubbio ne tralascio ancora alcune, le più remote, nascoste nelle pieghe della rocca di sinistra, intorno o appena sotto le due grandi fattorie – per altro è difficile discernere i viventi dalle statue nel gruppo di figure che popolano, sulla destra, il villaggio e i suoi dintorni, soprattutto se, come accade a me, si osserva il dipinto in un’unica riproduzione, grande quanto una pagina A3. Non vorrei occuparmi troppo di questa folla, che si comporta in modo imprevedibile e disomogeneo, che non sembra appartenere a un’unica famiglia, e che, comunque, più che come clan o comunità agisce come moltitudine, animata da divergenti passioni e interessi: alcuni, stremati dal dolore, non riescono a mantenersi eretti, piegano le ginocchia, si torcono a terra, e neppure offrono il volto allo spettatore tanto è sfigurato e avvilito; altri invece, con schietta impudicizia, ballano e suonano, come ignorando qualsiasi calamità, o proprio per sormontare la minaccia e il ricatto dei lutti a venire, lanciando un esuberante motivo di gioia attraverso le note di bizzarri strumenti a corda e a fiato. Basterebbe in realtà dedicarsi a queste figure, riunite in bande opposte sulla spiaggia, i sofferenti e i gaudenti, gli stremati e i festeggianti, i malcapitati e gli allegri errabondi, basterebbe lasciarsi trascinare da questa faida emotiva, che alterna come una nenia ipnotica tristizia e gioia, lacrime e risa, spasmi nervosi e passi di danza, basterebbe questo ritmo umano, elementare, per calmare la mente che vuole invece intessere storie, biografie, episodi, ruoli. Ma alle spalle del variopinto gruppo dei ventidue, tre decisive figure campeggiano, anzi quattro, dal momento che una di esse appare duplicata: si tratta di una donna seminuda, di un mostro che ingombra (un capidoglio ibridato con anaconda e sauri) e di un guerriero agile e intraprendente. La donna, come in molti sogni erotici, è legata per le braccia, e offre il suo corpo nudo dai fianchi al petto: una veste bianca, o un prosaico lenzuolo, la avvolge accuratamente, coprendole avambracci e gambe. Il suo sesso appare e scompare, è un suggerimento: la stoffa che le cinge i fianchi si piega verso il basso, all’altezza del pube, in modo tale che il pensiero, vorace, vi insista. Ma è la posa, di completo abbandono, con la testa reclinata sulla spalla destra, gli occhi semichiusi (chi può dirlo?), i seni spinti in fuori, il busto lievemente piegato verso terra, è questa condizione di schiava sessuale, ormai arresa alla giostra di sevizie che l’aguzzino le prepara, è questa spossatezza, che la rende in qualche modo intollerabile allo sguardo, non davvero mai a lungo contemplata dallo spettatore, che preferisce spostare l’attenzione sul mostro, il quale campeggia terribile e sconfitto, rovesciato di tre quarti, al centro del quadro. E su di esso, quasi in punta di piedi, con discrezione, l’esecutore al lavoro, il giovane killer armato di sciabola: Perseo.
Di tutte le figure, pur essendo la meno accomodante, quella del mostro (il cetaceo draghiforme) è di certo la più fedele: essa si fa guardare in continuazione, raccoglie su di sé l’ostinata curiosità dei vivi, l’indiscrezione degli spettatori, la malagrazia di coloro che altrove, oltre loro stessi, cercano un approdo: un disgraziato episodio da rimirare, appena compassionevoli, con la risaputa sete di rivalsa. Il mostro è lì, perfettamente calato nel suo ruolo di obbrobrio, stolido e pericoloso, eppure in qualche modo dimesso: volge al suo carnefice la giugulare, sprofonda su un fianco, si candida ad essere sempre, consensualmente, ammazzato. Il mostro ha delle strane e fulve barbe, che tutte vibrano sulla parte posteriore del profilo, mentre dalle narici schizza filamenti d’acqua e guarda, con presumibile tristezza, Andromeda: sa che non la vedrà più, che mai l’ha posseduta, che non ha avuto tempo, a causa dei suoi fitti impegni di rapitore, di concedersi un attimo di pace con lei. Perseo è discreto e grazioso: uccide con una disarmante eleganza, tutto piegando il braccio verso di sé, come un tennista che prepari un rovescio abnorme, così che la sciabola rimanga per un attimo sospesa dietro la sua nuca, prima di calare, secca, sulla gola del drago acquatico.
In questa vicenda per nulla lineare o moraleggiante, ma che di continuo insinua il dubbio, quasi che tutto si fosse svolto troppo facilmente, senza fatica né vero attrito, salvo poi riservare imprevedibili e funeste sorprese, in tutta questa irrisolta tensione, che cresce proprio alla fine invece di scemare per sfogo catartico, le onde, loro, compiono un miracoloso aggiustamento: sanano ogni sospeso, debito, ritardo, danno involontario. Quel ricamo di onde, onirico ed ironico, svagato e scientifico, è un messaggio sempre attuale di possibile calma e padronanza di sé. Ogni onda, infatti, si collega ad una forza tremenda e devastante, che è stata però compiutamente, con classicità, domata, chiusa in una cilindrica espressione d’acque: i serpentoni intortigliati, che finalmente docili, accasati, costruiscono il luogo proprio del mostro e dell’episodio che intorno a lui s’articola, per rive e promontori, strazi e ludi, seni a vista e piedi alati. Le onde concentriche, solide e ben levigate, tutto infatti tengono assieme e tendono come corda d’arco, spingendo ai lati opposti i capannelli e le rive di destra e sinistra, incardinando al centro il mostro, in modo tale che funga, di notte e giorno, con vento e pioggia, da plancia, basamento, spianata d’atterraggio per l’eroe, il Perseo volante, un po’ Flash Gordon, un po’ Yves Klein, tuffandosi ad angelo dalla finestra.
[…]
2.
È d’altra parte risaputo: se c’è un mostro, esso è quasi sempre nostro. È San Giorgio che secerne il drago; tutto San Giorgio è un’apparecchiatura complessa ad energia animale con la camera di compressione in metallo –l’armatura – e il filiforme tubo di scarico – la lancia –, da cui sibila, prendendo peso e forma, gonfiandosi d’acchito, lo scaglioso e lutulento drago. Disarmato e scavallato, San Giorgio è indiscernibile dal mostro, se lo porta nelle viscere; il mostro lo segue come ombra, sta incollato ai suoi gesti, ma montato finalmente il solenne apparecchio, con cavalcatura, sella, mantello, maglia metallica, armatura, elmo, guaina, spada, lancia, finimenti e criniera, tutto l’insieme ben regolato, connesso, avvitato, il mostro è pronto per essere distillato da San Giorgio. È espulso di forza, schizza fuori all’esterno, separato e solido, sufficientemente a distanza per essere preso di mira, combattuto e inforcato. L’estroversione del mostro implica nobiltà d’abiti, solenni strofinature di corazza, gonfaloni e cavalli selezionati. Un indigente, senza l’alambicco d’acciaio e il quadrupede, il mostro se lo porta addosso, glielo si legge in faccia. Per questo, quando la folla lo piglia, senza troppi distinguo tra dentro e fuori, gli piazza la corda al collo, come a un sol l’uomo, all’indigente e al suo mostro, che nessuno li distingue né da vivi né da morti.
C’è mostro e mostro, e diverse sono le soluzioni di congiungimento tra l’urbana eleganza e il rurale abominio; le donne, ad esempio, lo usano spesso come bilancia, nastro di scorrimento, surrogante della cyclette: la Santa Margherita di Giulio Romano – al Kunsthistorisches Museum di Vienna – con annoiata indifferenza vi poggia sopra il piede sinistro, quasi a saggiare la consistenza di conduttura limosa in caucciù, già fallata, con la voragine aperta sullo spettatore, ma nondimeno ancora gonfia e vibrante, convessità maligna, di abnorme rettile, che però allena e rassoda le gambe della santa così come affiorano dalla veste castigata, toniche e piene. Uno sport sorvegliato, una lotta narcotizzata, quella tra il gigantesco serpe e la giovane Margherita, a meno che non sia un tutt’altro senso che affiora, e l’intera fisionomia da rovesciare: un satana che si struscia gattescamente alla santa in uno stato d’istupidimento beato, e lei, quasi distratta, a farsi sfiorare le cosce e il bassoventre, entrambi dentro il vibrato grave, ipnotico, delle fusa. Un’oscena moina amorosa dunque, con il maschio nudo, implorante, che si fa verme pur di ottenere un ginocchio da insalivare, e la donna algida, intunicata di tutto punto, a differenza di come vuole, ancor oggi, il cinema, che denuda lei per le spicce, e fa copulare in calzamaglia e pantaloni di flanella lui. Ma non sia trascurato il fitness della Santa Margherita del Louvre, in cui Giulio Romano e Raffaello coniugano la loro scelleratezza visiva, proponendo una santa che sembra quasi pedalare a demonio, azionando col piedino la sua ala cartilaginea, e le fauci spalancate a fare da tubo di scappamento. Questa dimestichezza femminile con i mostri, atletica e sensuale ad un tempo, questo metterci i piedi sopra, quasi a farli delirare dal tanto eros, se fossero minimamente feticisti e avidi di essere calpestati, non è più sorprendente, in definitiva, dello sferragliante apparato dei san Giorgi? Non sono forse – i vermoni luciferini – partoriti in silenzio, poco prima che il pittore arrivasse, posando cavalletto e pigmenti, e si mettesse di lena ad osservare, trasporre, pennellare? Magari proprio espulsi dal sesso santo, ma lentamente, come un liquido oleoso, che vai poi ispessendo a terra, gonfiando e facendosi duro e cilindrico, con squame, apparato digerente, dentatura, e persino branchie, ali di pipistrello, coda multipla a seghetto? O peggio, non sono queste sante Margherite acconce al bambolo gonfiabile, versione pitone o luccio sproporzionato? E dopo esserselo gonfiato, pure se lo godono, scalcagnandolo per bene?
- da La vita adulta, Ponte alle Grazie 2021
Hai mai imboccato un’artista emergente?
Per Nina non era stato difficile diventare un’artista, o convincersi di essere tale. Non aveva dovuto, come invece molte persone conosciute nel suo ambiente, attendere la “svolta”. La sua fortuna artistica fu davvero precoce. Era cominciata nella sua città natale, Milano, con una performance intitolata Nutri l’artista / Feed the artist. Lei era seduta spalle al muro in una piccola cabina chiusa sui due lati da pannelli di compensato. Il varco centrale che permetteva di raggiungerla era stretto; ci passava una persona appena. Il pubblico era invitato a imboccare l’artista, e chi stava al gioco aveva a disposizione cucchiai e scodelle piene di cibo da cui attingere, per andare poi a riversarne il contenuto nella bocca di Nina. Non era subito evidente a chi guardasse la scena da lontano, ma lei aveva le mani legate dietro lo schienale della sedia ed era completamente in balia di chi l’imboccava. Costui trovava all’entrata della cabina due tavolini tondi. Su quello di destra vi erano frutti freschi, macedonie e frullati; su quello di sinistra passati di verdura, pasticci di carne, risotti. Ognuno era libero di scegliere quale porzione di cibo introdurre nel corpo dell’artista, e col suo cucchiaio in mano doveva percorrere lo stretto corridoio che portava alla bocca di Nina, stabilendo con lei un momento d’intimità forte. Oltrepassato il varco tra i due pannelli laterali, la persona si trovava faccia a faccia con l’artista, dando le spalle al pubblico. L’azione accadeva senza testimoni esterni, senza che ci fosse uno sguardo collettivo a temperare lo spirito e anche la fisicità del gesto. Chi la imboccava, infatti, era anche colui che, rispetto al pubblico circostante, oscurava la scena. E poteva gioire di una sovranità straordinaria sul corpo di Nina, che si offriva al riparo e nel silenzio della cabina. Non vi era neppure la difficoltà di sostenere o d’incontrare il suo sguardo, dal momento che lei indossava degli occhiali da sole.

In alto, sul muro contro cui poggiava la sedia, vi era un manifesto grande con la scritta: “Nutri l’artista. Feed the artist”. I tavolini con le scodelle piene di cibo invitavano a un gesto festoso, ludico, innocuo. Si veniva condotti su di un terreno familiare, quello del cibo, dei pasti quotidiani, della condivisione, dell’arte culinaria. Ma ci si trovava poi in una situazione imprevista, ambiguamente situata tra il gesto del carnefice e quello dell’amante. Nina attendeva immobile, perfettamente truccata, la massa di capelli più verticale e vistosa del solito, un abito bianco scollato, delle scarpe eleganti coi tacchi alti, la bocca che si socchiudeva all’avvicinarsi dell’ospite, ma che accoglieva in modo reticente la porzione, lasciandola in parte scivolare fuori dalle labbra. Questo infatti era l’esito finale di quel succedersi di atti di nutrizione, di riempimento progressivo: il mento, la gola, il torace di Nina erano a poco a poco ricoperti di strati di cibo diverso, di residui che, a volte, erano stati ricacciati fuori di bocca dopo esservi entrati. I cibi scelti e preparati da Nina erano tutti molto colorati, e di colori vivi, connotati eroticamente. Nel corso della performance, Nina assumeva i tratti di un idolo al contempo attraente e spaventoso, con un volto sfigurato, quasi fosse stato preso a pugni. La sua persona appariva ancora più vulnerabile, suscitando soprattutto nei maschi un sentimento di potenza; d’altra parte, quel vestito insozzato di resti la rendeva ripugnante. E la passività dell’artista si dimostrava, alla fine, più illusoria che reale, come un bambino dispettoso che avesse di continuo risputato quanto gli adulti pretendevano che ingurgitasse. Lo spettatore, nelle fasi finali della performance, sperimentava l’indecisione tra disgusto e desiderio, tra vergogna e trionfo. Nessuno, infatti, da un certo momento in poi, aveva più il coraggio di andare a imboccare Nina. Anzi, le persone presenti, alcune delle quali erano state i partecipanti attivi di quella situazione, si guardavano a un tratto imbarazzate, come se si rendessero conto soltanto alla fine di essere state complici di qualcosa di sporco e violento. E non solo nessuno osava più dirigersi verso di lei, ma a poco a poco il pubblico si disperdeva altrove, constatando che l’esito di quella simpatica performance sul cibo era insopportabile da guardare.
Con Nutri l’artista / Feed the artist, Nina aveva conquistato tutti: il pubblico ingenuo e quello disincantato, gli artisti suoi coetanei e quelli già affermati della generazione precedente, i galleristi più potenti e stimati e quelli giovani e aggressivi, e persino i critici, sia gli entusiasti che i nostalgici. Era il 1999, e la sua performance faceva parte di Countdown, una mostra collettiva che acquistò immediatamente i tratti mitici dell’evento sfrontato e inatteso, di cui tutti in seguito avevano cercato di appropriarsi. Countdown aveva anche il sapore della festa sconclusionata e dell’assemblea sovversiva. Di fronte a un tale evento, organizzato senza sponsor e guide spirituali da un gruppetto di artisti in gran parte sconosciuti in una cascina alle porte di Milano, gli addetti ai lavori si sentirono vergognosamente in ritardo, tagliati fuori da qualcosa di molto giovane, di molto selvaggio, di molto promettente per il rilancio delle loro carriere, sia come critici che come galleristi, ma anche come artisti maturi in cerca di nuove leve da accudire. E gli altri, ossia la massa sparpagliata degli aspiranti aggiornati, fiutarono innanzitutto un nuovo verbo, un’atmosfera, una tendenza che, pur non essendo ancora ben definita, aveva sicuramente futuro, e poteva quindi distribuirne un po’ a tutti, a patto che loro per primi iniziassero a parlarne, a farla entrare nelle loro vite, a esserne in qualche modo partecipi. Una nuova tendenza artistica o culturale è sempre un piccolo regalo di futuro, a chi teme di non averne abbastanza; è la promessa di una nuova vita, in cui si penetra assieme a un numero ristretto di persone, e questo dà la garanzia che l’esperienza non sarà consumata tutta e subito, come avviene invece con i comportamenti di massa; qualcosa di prezioso ne resta intatto, salvaguardato, una porzione ancora in parte misteriosa, dal sapore acceso e imprecisato.

In copertina: Piero di Cosimo, Liberazione di Andromeda, 1510 o 1513 (particolare)