Giulio Mozzi, tornare all’inferno

Tutto è già successo. La vita si è giocata, si è persa o si è vinta, non ha importanza: l’azione è fuori campo, in un altrove declinato al passato. Pertanto, il narratore racconta al presente. Il presente è l’inferno: il ricordo, il lamento, il pianto purgatoriale (o la beatitudine paradisiaca: invisibile, inavvicinabile, abbacinante) sono elegia e il tempo dell’elegia è imperfetto. Invece il presente schiaccia l’orizzonte degli eventi. Ecco: un buco nero. Un’accelerazione materica stupefacente, terrorizzante. Sgomenti di fronte alla deglutizione energetica e alla poderosa mole solare ci si sfilaccia nella caduta. Si finisce all’inferno. Irredenti, per l’eterno, si ripete la propria pena. Mario, Bianca, Viola, Santiago, Agnese, eccetera: non possono cambiare, non hanno alcuna dispensa dal loop. Perciò rimangono nel circuito della dannazione, nel dispositivo refertante di questa drammaturgia. La diegesi è in quel tempo d’altrove, in quell’imperfetto, che non si può recuperare.

Il circuito della ripetizione, tuttavia, si può scomporre, frammentare: il tempo, del resto, non manca – anche se l’illusione è che non esista. Ogni particella si agglutina con altre particelle, si creano cellule narrative, le cellule si dispongono nell’ordine – freddo, analitico, numeratorio (diciamolo pure: è il tempo del Lager, questo) – della serie. La serie è una combinazione di materiali d’archivio: strisce – o «stringhe» (ne ha parlato Simonetti, nella sua recensione sulla «Domenica» del «Sole 24 Ore») – di fototessere, quelle che a Mario appaiono nell’epifania veneziana di una Biennale d’arte anni Settanta. La concatenazione seriale, al pari di una sinfonia atonale, esclude ogni linea melodica: quella che sarebbe, in altro sforzo narrativo, una catena deterministica d’eventi, un’obbedienza alla causa-effetto (niente di male, peraltro, a seguire questa linea di pensiero: uno degli autori più amati da Mozzi, Manzoni, ne è un fulgido esempio; epperò i memorabili carotaggi di Lanfranco Caretti sul Fermo e Lucia mostrano come la prima stesura del romanzo fosse improntata a principi di magnetismo narrativo: secondo serie, appunto, molecole di senso giustapposte, poi ri-calibrate nelle stesure successive), nelle Ripetizioni è sostituita da una logica dell’evento (niente di strano, peraltro: se già il Debenedetti del Romanzo del Novecento leggeva La noia moraviana o il Dottor Zivago come costruzioni romanzesche dominate da [vaghi] sapori di fisica quantistica). Le serie così giustapposte fanno fallire il romanzo continuamente: con profitto, s’intende. È per questo che il libro di Mozzi, così lungamente elaborato, più che un “romanzo” – ammesso che questa etichetta editoriale denoti ancora oggi qualcosa di preciso – è un libro, un oggetto artistico, una performance (ci torneremo).

Cerchia del Giorgione, Ritratto di gentiluomo

Si è molto insistito sulla logica simmetrica delle Ripetizioni, sulla sua temperatura onirica: nella «storia del bosso» che apre il romanzo (e ancora: nella replica delle date, il 17 giugno, nel quale si ambientano quasi tutti i frammenti) si evocano ricordi falsi, atti d’immaginazione che, come nel Doppio sogno di Schnitzler, sono reali quanto altri «misteriosi atti nostri» (secondo la formula memorabile del Come leggo io di Federigo Tozzi). Le relazioni tra i personaggi sono, ancor prima che di servo-padrone, relazioni di chi non può avere una volontà e si muove come un pupazzo tragico, manovrato da una forza che gli sta (letteralmente) sopra. I personaggi deambulano sonnambolicamente: sono fantasmi perché già morti, interdetti da forze trasformative di se stessi e del mondo. Il sogno, forse, non è la chiave di tutto (il narratore pare darmi ragione: «Io coltivavo sempre grandi aspettative sui sogni, ero sempre contento quando potevo portare all’analista un sogno, mi sentivo come il bimbo che ha fatto la cacca nel vasino o come il gatto che ti porta l’uccelletto morto. Inutile dire che era tutto sbagliato») eppure bisogna precisare, credo: il sogno c’è, ma è il sogno delle immagini: sono le attrazioni di fotoni che fanno comparire il personaggio di Bianca, come un’interferenza temporale, un’intersezione con un’altra timeline, nelle fototessere di Mario-giovane; il sogno è la natura di onda e, contemporaneamente, di corpuscolo della materia, la sua eventualità. La parola, forse, mente, ma le immagini, probabilmente, dicono il vero: perché le parole sono governate dal servaggio, dal dominio, dalla possessione, dalla reiterazione del contrappasso, mentre le immagini attraggono quanti associativi che slogano il significato manifesto e svelano.

Si potrebbe dire, infatti, com’è stato detto (sempre Simonetti) che al centro del vuoto di Mario c’è il vuoto creato da una morte giovane, da quello spettro che si è (dis)incarnato in un «arto fantasma»: un amore di gioventù, spazzato via dal cruento non-senso della vita. Ma non c’è solo il vuoto di una presenza, in quello straziante episodio: c’è la storia di un occhio. Il corpo dell’amata, steso sul tavolo autoptico, manca precisamente di un occhio. Un occhio «che non c’è più» dentro un volto sfigurato. L’angoscia della carne, come nei corpi martirizzati di Bacon o di Lucien Freud (non a caso le prime scelte di copertina, poi scartate per ragioni di diritti) o, naturalmente, di Bataille, si offrono come crudeli allegorie dell’inferno dell’esistenza. E al pari di Crash, l’equivalente più baconiano delle opere di David Cronenberg (1996), anche i personaggi di Mozzi rimangono immutabili. Non c’è arco narrativo per loro: ci sono abbagli, lampeggiamenti, scrostature su pannelli assai statici (il che naturalmente non significa che non ci siano avventure, vicende, passaggi di tempo: c’è tutto quello che serve a un romanzo, ma il romanzo è già stato; come dire che il sottotitolo poteva essere referto di un romanzo o anche: sondaggi di un romanzo). I personaggi vivono di serie giustapposte, come nei trittici di Bacon, nelle sequenze di Cronenberg, nelle distorsioni da tabloid di Andy Warhol.

Basso Cannarsa, Ritratto di Mario ©Basso Cannarsa

Sì, il male è naturale in Mozzi (come il titolo omonimo di una sua raccolta di racconti del 1998), ma nelle Ripetizioni c’è una sorta di sterilità mortifera effettiva. Non si torna indietro dagli epifenomeni demoniaci (nel senso cristiano e dostoevskijano dell’aggettivo) di Santiago o della brutalità di certi padri, è vero, ma ovunque, anche nella sequenza finale di immane spietatezza[1], nell’atrocità commesse da questo sicario luciferino (con la complicità ergonomica di Mario), ovunque pare di assistere a un torture porn, più che a un male effettivamente perpetuato. Più Hostel che Abu Ghraib (per quanto anche le sevizie carcerarie del deserto siano giunte a noi sottoforma d’immagini, con tanto di coreografie grottesche).

Assistere, appunto. Vedere. Anche la visione della sofferenza è una performance: l’annegamento, il taglio, la ferita inferta sono aperture, tagli fontaniani, squarci per indovinare la luce oltre il buio, per sollecitare una ierofania; una estasi del sangue, il prologo angoscioso alla transustanziazione. Il sacro, poi, s’imprime sulla lastra fotografica: Madonna fotografica è il titolo di un’opera “sacra” del Gas, il Grande Artista Sconosciuto (sotto le cui spoglie letterarie si cela un pittore realmente esistente amico dell’autore, Claudio Laudani). È singolare che sia lui l’unico personaggio a mutare. Egli, dopo anni di tentativi artistici, colmi di una fiducia un po’ narcisistica, ma sostanzialmente senza grandi risultati, giunge alla maturazione con un dipinto, Discorso attorno un sentimento nascente, del quale Mario è stupefatto. Con un artificio metatestuale, tipico di Mozzi, il dipinto “reale” di Laudani (si noti che, nella loro gestazione ventennale, uno dei titoli di lavorazione delle Ripetizioni è stato proprio Discorso attorno a un sentimento nascente) è presente nel controfrontespizio del romanzo. Il referente, cioè, interviene in praesentia per ribadire la logica attrattiva delle immagini e anche la loro capacità realmente catartica: «io, che sono qui, quando guardo questa creatura, quando la vedo rinascere dal profondo, mi ci riconosco. Mi sento rinascere anch’io».

Claudio Laudani, Discorso attorno a un sentimento nascente

Il Gas rappresenta il pieno, laddove l’occhio buñueliano di Lucia (l’amore giovane e puro ‘enucleato’) era il vuoto. L’opera del Gas offre un accesso alla verità: quando, stordito dalla visione, Mario cita Il capolavoro sconosciuto come esempio artistico che più si avvicina al sentimento provato di fronte a quel dipinto improvvisamente rivelatorio, racconta che la modella della storia «si è sentita usata, violata» (nel racconto di Balzac, infatti, il fidanzato la cede al grande maestro pittore come fosse carne inerte da ritrarre, niente più che un oggetto): anche l’arte iconoclasta di Mozzi viola i corpi (Viola è un corpo continuamente violato), perché la performance conduca al rovescio del Male. Le ripetizioni sono gli esercizi spirituali di Mozzi: todo modo para buscar la voluntad divina, ma al posto della parola, la preghiera sceglie l’immagine, come nell’ecfrasi finale, delle fotografie rinvenute negli scatoloni e descritte al lettore.

Rimarrà nelle antologie della crudeltà il finale da tregenda, l’apparizione del Male (assoluto) e quella locuzione «Adesso, basta» che lo interrompe: che significato ha questa chiusura brusca? Significa forse che le ripetizioni si sono interrotte? Che il sacrificio finale e irredimibile si è compiuto? Oppure che il narratore ha deciso che adesso poteva bastare, che il referto sulla dannazione di Mario, questo sondaggio infernale, era sufficiente?

Franco Vaccari con la Fotomatic utilizzata per realizzare le Esposizioni in tempo reale, 1972

Erano vent’anni, più o meno, che si attendeva il primo romanzo di Giulio Mozzi. Lo faceva per primo lui, in realtà: con la stessa curiosità inquietudine e diciamo pure paura, con cui lo attendevamo noi. Se non di più. Le attese non sono andate deluse, il libro sta facendo scandalo. Il che è comprensibile e probabilmente anche giusto, ma come al solito per i motivi sbagliati. È un libro che, piaccia o meno, comunque resterà. In questa sede, grazie all’autore e all’editore, riportiamo alcune delle immagini sulle quali la narrazione, se non s’impernia, certo si snoda: a partire dal Ritratto di gentiluomo della cerchia di Giorgione, conservato al Museo Poldi Pezzoli e di recente restaurato, che figura nella (bellissima) copertina.

C’è poi il Ritratto di Mario (è questo il nome del protagonista: «sempre in bianco e nero, scattata durante un Salone del Libro, a Torino, da Basso Cannarsa, un fotografo specializzato in scrittori. […] “Non c’è burattinaio migliore di quello che non appare mai” ha letto Mario di recente nel catalogo di una mostra […] – quanti anni avevo, si domanda Mario: trentadue? trentatré?»).

Non mancano le Esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari, che alla Biennale del ’72 (quella ominosa del «mongoloide» esposto da Gino De Dominicis) mettono in moto la storia. Infine c’è l’opera intitolata Discorso attorno a un sentimento nascente, del «Grande Artista Sconosciuto» Claudio Laudani, riprodotto sulla pagina che precede l’indice (per la cronaca, e a differenza di «Mario», Laudani si chiama proprio così; sempre per la cronaca il titolo dell’opera in questione è lo stesso di una delle redazioni precedenti di quello che ora s’intitola Le ripetizioni; ma naturalmente – si legge nel classico disclaimer relativo – «Nella narrazione compaiono alcuni personaggi che sembrano rimandare a persone che esistono o sono esistite nel mondo: a volte, addirittura, ne portano il nome», ma «anche in questo caso i fatti sono inventati, e non è mia intenzione attribuire alle persone reali le azioni e i sentimenti e il temperamento qui descritti»).

A.C.

Giulio Mozzi
Le ripetizioni
Marsilio, 2021, pp. 368, € 17


[1] Scena che già compare (seppur “incruenta”) nel Male naturale e che costò allo scrittore un’interrogazione parlamentare, come lui stesso ricorda: «Mi chiama una giornalista dell’Adn Kronos, mi dice che un parlamentare ha fatto un’interrogazione parlamentare sul mio libro, e minaccia una denuncia con richiesta di sequestro. Tutto era legato a un racconto, molto breve, due paginette, intitolato Amore, nel quale si descriveva un rapporto sessuale tra un adulto e un bambino (Geno Pampaloni lo definì “crudele e freddo, ma privo di compiacimenti stilistici”)».

In copertina: Franco Vaccari, Esposizione in tempo reale n. 4, 1972 © Franco Vaccari

è nato e cresciuto a Firenze. Lavora, ha famiglia, legge, scrive. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su “Alfabeta2”, “L’indice dei libri del mese”, "Le parole e le cose", “La balena bianca”. Suoi racconti sono apparsi su “Nazione indiana”, “Collettiva”.

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