Stazione meteorologica di Khodovarikha, costa del Mare Pechora, Mar di Barents sud-orientale.
I
Mi scordo di essere solo d’inverno,
me ne accorgo non appena si sciolgono
i ghiacci e il mercurio si eccita, quando
ogni cosa diventa moltitudine:
i carici, le pernici, l’euforbia,
le onde, il salice polare e i licheni,
e ogni essere convive coi suoi simili,
si piega al vento, si muove a gruppetti,
in un vasto labirinto di laghi,
paludi e rivoli, di specchi d’acqua
che moltiplicano il fango inessiccabile
e sfavillante della tundra.
L’unico solo, spaiato, sono io,
bizzarro bipede che spesso incespica,
che ha bisogno di stivali e sapone,
che nel paesaggio salta all’occhio
come un moscone
precipitato in un piatto di kapuśniak.
Quassù l’inverno non è una stagione
ma un luogo, dove il calore è un’ipotesi
e sopravvivere un’occupazione.

II
Dopo la Perestrojka, di lavoro
non ce n’era, così sono venuto
a misurare il tempo alla fine mondo.
Ogni tre ore, apro lo schermo di Stevenson
– bianco, sopraelevato, con pareti
a persiana, scrigno
dei miei strumenti,
termometro, igrometro, anemometro
barometro – leggo i dati,
annoto le cifre
nel quaderno, verifico
la qualità della neve che copre
la tundra
e ascolto il suono
dei numeri celesti sulla carta.
Mando i dati con il codice Morse
e ricevo con un Volna-K a onde
medio-corte, le frequenze
illuminate, le grandi
manopole – perfette
per le dita istupidite dal freddo.
La mia isba, il faro in disuso,
il mobilio, le posate: le stesse
dagli anni Trenta. Solo l’orologio
alla parete è quasi nuovo, appeso
all’incirca quando è morto Brežnev.
È come se ogni cosa stesse
aspettandomi per cadere a pezzi,
per spegnersi; io riparo,
ma ogni nuova crepa è l’indizio
di un cedimento più grande, nascosto
più sotto, una scissione
nel permafrost,
nella memoria. Poi una fetta
di pane nero, uova di salmone
appena estratte,
e un po’ di vodka, per rimettersi
in piedi – e un’altra per
il collega dell’isola di Belyj,
che un orso divorò nel mille-
novecento settantatré,
lasciando solo la testa e uno stivale.

III
Vento da nord a nord-ovest, diciotto
metri al secondo, in aumento, pressione
in calo, c’è una tempesta in agguato.
Onestamente non so cosa ci
facciano coi miei dati,
se laggiù ancora capiscano il codice
Morse; vogliono installarmi un computer,
dicono che è un aiuto, ma io non
ho mai perso un rilevamento.
Temo sempre che qualcosa s’inceppi
in cielo o sottoterra – un ingranaggio
d’aria, una nube troppo
densa, un’aurora così luminosa
da svegliare i minatori di notte –
che i venti cambino marcia e impazziscano
le temperature, proprio quando
non ci faccio caso,
come se il mondo
decidesse di andare in folle
verso la fine, nel momento esatto
in cui io smetta di osservarlo.

Il meteorologo è liberamente ispirato alla serie fotografica Weather Man di Evgenia Arbugaeva, pubblicata il 15 dicembre 2014 dal New Yorker.
Evgenia Arbugaeva, nata e cresciuta nella città artica di Tiksi, sulla costa del Mare di Laptev, nella Repubblica di Jacuzia (Russia), si è distinta, negli ultimi anni, per il realismo onirico del suo stile e la capacità di conquistare la fiducia dei soggetti da lei ritratti – anche i più schivi e sfuggenti, come i pastori di renne della Jacuzia e i cacciatori siberiani di zanne di mammut, o come il polyarnik Slava Kotorki, capo della stazione meteorologica di Khodovarikha e protagonista della succitata serie.
Tutte le immagini sono tratte da The Guardian, 26 ottobre 2015