Il meteorologo

14/04/2021

Stazione meteorologica di Khodovarikha, costa del Mare Pechora, Mar di Barents sud-orientale.

I

Mi scordo di essere solo d’inverno,
me ne accorgo non appena si sciolgono
i ghiacci e il mercurio si eccita, quando

ogni cosa diventa moltitudine:
i carici, le pernici, l’euforbia,
le onde, il salice polare e i licheni,

e ogni essere convive coi suoi simili,
si piega al vento, si muove a gruppetti,
in un vasto labirinto di laghi,

paludi e rivoli, di specchi d’acqua
che moltiplicano il fango inessiccabile
e sfavillante della tundra.

L’unico solo, spaiato, sono io,
bizzarro bipede che spesso incespica,
che ha bisogno di stivali e sapone,

che nel paesaggio salta all’occhio
come un moscone
precipitato in un piatto di kapuśniak.

Quassù l’inverno non è una stagione
ma un luogo, dove il calore è un’ipotesi
e sopravvivere un’occupazione.

II

Dopo la Perestrojka, di lavoro
non ce n’era, così sono venuto
a misurare il tempo alla fine mondo.

Ogni tre ore, apro lo schermo di Stevenson
– bianco, sopraelevato, con pareti
a persiana, scrigno

dei miei strumenti,
termometro, igrometro, anemometro
barometro – leggo i dati,

annoto le cifre
nel quaderno, verifico
la qualità della neve che copre

la tundra
e ascolto il suono
dei numeri celesti sulla carta.

Mando i dati con il codice Morse
e ricevo con un Volna-K a onde
medio-corte, le frequenze

illuminate, le grandi
manopole – perfette
per le dita istupidite dal freddo.

La mia isba, il faro in disuso,
il mobilio, le posate: le stesse
dagli anni Trenta. Solo l’orologio

alla parete è quasi nuovo, appeso
all’incirca quando è morto Brežnev.
È come se ogni cosa stesse

aspettandomi per cadere a pezzi,
per spegnersi; io riparo,
ma ogni nuova crepa è l’indizio

di un cedimento più grande, nascosto
più sotto, una scissione
nel permafrost,

nella memoria. Poi una fetta
di pane nero, uova di salmone
appena estratte,

e un po’ di vodka, per rimettersi
in piedi – e un’altra per
il collega dell’isola di Belyj,

che un orso divorò nel mille-
novecento settantatré,
lasciando solo la testa e uno stivale.

III

Vento da nord a nord-ovest, diciotto
metri al secondo, in aumento, pressione
in calo, c’è una tempesta in agguato.

Onestamente non so cosa ci
facciano coi miei dati,
se laggiù ancora capiscano il codice

Morse; vogliono installarmi un computer,
dicono che è un aiuto, ma io non
ho mai perso un rilevamento.

Temo sempre che qualcosa s’inceppi
in cielo o sottoterra – un ingranaggio
d’aria, una nube troppo

densa, un’aurora così luminosa
da svegliare i minatori di notte –
che i venti cambino marcia e impazziscano

le temperature, proprio quando
non ci faccio caso,
come se il mondo

decidesse di andare in folle
verso la fine, nel momento esatto
in cui io smetta di osservarlo.

Il meteorologo è liberamente ispirato alla serie fotografica Weather Man di Evgenia Arbugaeva, pubblicata il 15 dicembre 2014 dal New Yorker.

Evgenia Arbugaeva, nata e cresciuta nella città artica di Tiksi, sulla costa del Mare di Laptev, nella Repubblica di Jacuzia (Russia), si è distinta, negli ultimi anni, per il realismo onirico del suo stile e la capacità di conquistare la fiducia dei soggetti da lei ritratti – anche i più schivi e sfuggenti, come i pastori di renne della Jacuzia e i cacciatori siberiani di zanne di mammut, o come il polyarnik Slava Kotorki, capo della stazione meteorologica di Khodovarikha e protagonista della succitata serie.

Tutte le immagini sono tratte da The Guardian, 26 ottobre 2015

Federico Italiano

(Novara, 1976) vive a Vienna, dove è ricercatore presso l’Accademia Austriaca delle Scienze. Poeta, traduttore e saggista, insegna Letterature Comparate a Monaco di Baviera. Dopo “Nella costanza” (Atelier 2003), ha pubblicato altre quattro raccolte di poesie, “L’invasione dei granchi giganti” (Marietti 2010), “L’impronta” (Aragno 2014), l’auto-antologia “Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000–2015” (Feltrinelli 2015) e Habitat (Elliot 2020, premio “Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi”). Autore di saggi sulla poesia e sulla teoria della traduzione, ha pubblicato “Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan” (Mimesis 2009), “Translation and Geography” (Routledge 2016) e, a sua cura, “The Dark Side of Translation” (Routledge 2020). Ha tradotto “Variazioni sul barile dell’acqua piovana” di Jan Wagner (Einaudi 2019) e ha curato per l’editore tedesco Hanser un’antologia di poesia italiana contemporanea (con Michael Krüger) e un’antologia della giovane poesia europea (con Jan Wagner).

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