Lezama Lima, in un giardino di stelle

José Lezama Lima soffriva di una grave forma d’asma. Lo ricordò con un aneddoto dolceamaro anche Julio Cortázar a Berkeley, nel 1980: a un amico ch’era andato a trovarlo, Lezama era apparso affaticato e col respiro sibilante. Per strada degli operai stavano lavorando con i martelli pneumatici, c’era quindi un rumore tremendo. L’amico chiese a Lezama come si sentisse; e questi rispose: “Come vuoi che stia? Figurati, c’è questo fragore wagneriano e io qui col mio gilet mozartiano”. Vi si poteva notare – per Cortázar – il naturale gusto per la metafora, che Lezama coltivava con naturalezza; ma anche un accenno al modo in cui, come in Proust, l’asma riuscisse a entrare nella sua arte, facendo assumere alla sua scrittura la cadenza affannata di chi teme d’essere vittima d’un improvviso soffocamento.

Se questo tratto dello stile di Lezama appariva evidente a chi fosse già familiare con la sua opera narrativa, e in particolare col polimorfo romanzo Paradiso (1966, ora Sur 2016), analoga impressione coglie ora il lettore dei tre “saggi di estetica” raccolti e introdotti da Paola Laura Gorla sotto il titolo Raccontare la meraviglia, ai quali Lezama attese fra il 1957 e il 1968. La scelta intende dare speciale risalto al ruolo dell’imago quale “punto errante nell’estensione” di un universo di singolarità evocative. Diversamente da Nabokov – che pure aveva sostenuto che la letteratura fosse un disegno fatto non di idee, ma di immagini – Lezama non intende l’imago alla stregua di un minuto particolare capace di far scoccare “la scintilla sensoriale senza la quale un libro sarebbe morto”. Essa è per lui il punto d’intersezione fra gli elementi di una relazione analogica, nella quale il rapporto causa-effetto cede il passo a un “causalismo magico” di corrispondenze inusitate e sorprendenti, la cui correlazione è affidata a una sintassi elicoidale, unica o quasi garanzia d’intellegibilità per chi si aggiri fra i molteplici livelli linguistico-espressivi che connotano la prosa anche saggistica di Lezama.

Utilizzando come archetipo l’I Ching, il Libro dei Mutamenti, Lezama si esercita nel combinare i Kua, i trigrammi che formano gli esagrammi di questo libro dalle funzioni divinatorie, non già secondo un principio di progressione dei numeri binari (000, 001, 010, 101, 011, 111), come proposto da Leibniz in Explication de l’aritmètique binaire (1703), ma vedendovi, come Borges, la cronografia di un futuro già percorso nel quale i “contadini gioiosi” del Libro d’ore del Duca de Berry (1412-1416) anticipano quelli della Mietitura di Bruegel il Vecchio (1565), mentre il Cancelliere Rolin di Van Eyck (1435) sembra infondere nuova vitalità al fasto prerinascimentale del cavaliere Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini (1328). D’un tratto – osserva Lezama in Miti e stanchezza classica – una congerie di entità culturali acquisisce risonanze immense: “grazie alla sorpresa delle corrispondenze, alla magia dell’analogo metaforico, alla forma germinativa dell’analogo mnemonico, alla memoria sorpresa nell’intrepida caccia alla pariglia complementare, si genera un causalismo nuovo e più significativo, nel quale si supera la subordinazione tra antecedente e derivato per fare delle sequenze stesse due fattori di creazione, uniti da un complemento apparentemente imprevisto, ma che conferisce loro quel contrappunto in cui le entità acquisiscono vita propria, oppure si dissolvono in polvere sabbiosa, infeconda e vana”. In questo passo, che può essere assunto a emblema della prosa fastosamente paratattica di Lezama, è enunciata una poetica che, pur esplicitamente echeggiando quella baudelairiana delle corrispondenze, non intende come questa ricondurre tutto il visibile nel ciclo drammatico dell’imperfetto, ma valersi piuttosto dell’allusione: sottinteso che stabilisce un transito fra i due correlati dell’espresso e dell’implicito, portando la memoria ad annodare una fitta rete di rimandi che di ogni percezione fa il simbolo d’ogni altra.

La natura transitiva dell’allusione tende il più delle volte a caricarsi di valore metaforico. Così il celebre accostamento dei versi di Keats a una pesca, che si legge nel Diario di Charles du Bos (scoperto da Lezama negli Studi di letteratura europea di Ernst Robert Curtius, e che Cortázar riprende in A passeggio con John Keats), parrebbe donare “la presenza della grazia mattutina, l’incantesimo di tutti i sensi, le ondulazioni venate di giallo e di porpora, e la fragranza della sua buccia vellutata che quasi ci preannuncia un risveglio nel plenilunio”. In questa vocazione a trasformare ogni cosa in un linguaggio figurato acuito fino all’estremo, in antitesi alla secchezza del sillogismo, Lezama rivela il proprio debito verso l’età barocca di cui soprattutto raccoglie la tendenza alla perplessità interrogativa, a congiungere l’incongiungibile, a conciliare l’inconciliabile: vedendo tutta la vita dello spirito, dall’empiria sensoria alla speculazione metafisica, riflessa in un’immensa e inesauribile metafora, formata a sua volta da miriadi di piccole metafore.

Al riguardo il confronto fra arte e poesia a Cuba, su cui si concentra il secondo saggio della silloge, permette di osservare come la Cattedrale di L’Avana “si torce e curva” come il “barocco concavo e gesuita di Borromini”, mentre i versi tardosettecenteschi del poeta santiaguero Manuel Justo de Rubalcava arieggiano quelli del Paraíso cerrado para muchos, jardines abiertos para pocos (1652) di Pedro Soto de Rojas: tripudio di ritrovati stilistici composto nel 1652 a specchio d’un lussureggiante giardino costruito ad Albaicín, presso Granada. Viene in tal modo delineandosi una genealogia storica e spirituale che induce a comprendere l’intero universo culturale che fa da sfondo alla poetica di Lezama nell’alveo di quella sensibilità barocca che – scriveva Carlo Calcaterra nel Parnaso in rivolta – assume la forma d’una fantasmagoria speciosa di metafore e antitesi perché “l’empiria sensoria non è più certa del vero creduto per convenzione”; mentre il tempo aspira per la prima volta a una infinità di cui la storia non può più avere ragione, tanto da dover necessariamente cedere il passo alla cronaca, la quale non si occupa dell’esatta concatenazione di determinati avvenimenti, ma del modo in cui si inseriscono nel grande e imperscrutabile corso del mondo. Per questo il cronista, divaga Lezama commentando l’opera di Fernández de Oviedo, “si perde alla ricerca della somiglianza delle forme”, riuscendo così a percepire ciò che è straordinario, pur non riuscendo a esprimerlo, perché si limita a ricondurlo a una quantità senza incanto.

In perfetta continuità con la poetica barocca e col suo canone guidato della meraviglia, Lezama crea un complesso sistema poetico che gira attorno alla costituzione dell’immagine poetica, la quale – si legge in Confluenze, l’ultimo e più denso di questi saggi – “è l’incessante complementare di ciò che è appena percepito con la vista e con l’udito”, cui si contrappone l’horror vacui, quale paura di restare senza immagini, ossia privi della realtà del mondo invisibile. Per Lezama, infatti, la realtà non è che l’immaginazione ridotta ai minimi termini, laddove l’immaginazione è investita del compito di provocare meraviglia tanto quanto di farla gemmare spontaneamente. Per questa ragione è stato a più riprese proposto un accostamento della sua poetica con quella di Góngora. Influsso negato da Lezama, secondo il quale Góngora può solo dare un “frisson”, lo “scossone della lingua in una ricerca”. Eppure, sostiene sempre il cubano, l’autore delle Soledades con José Martí è fra i pochi capaci di introdurre la poesia entro una “quantità incantata”, nella quale l’immagine ha il valore di un significato e di un contrappunto: una germinazione continua che tende a superare sempre i propri confini. “La penetrazione dell’immagine nella natura genera la super-natura”, si legge in Confluenze: a dimostrazione di come in Lezama il linguaggio diventi imago, referente di possibilità per la letteratura, distanza incessantemente percorsa e mai realmente superata fra essenza ed esistenza.

Leggere Lezama – scriveva Cortázar sul margine di Paradiso – equivale a partecipare a “una cerimonia, a qualcosa che preesiste ad ogni lettura con fini e modi letterari; ha quella sollecita presenza tipica di ciò che fu la visione primordiale degli Eleati, amalgama di ciò che più tardi si chiamò poema e filosofia, nudo confronto del volto dell’uomo con un cielo punteggiato di stelle”. Significa tornare a partecipare al thaumazein, alla gratuità della meraviglia, a quello stupore che sorregge l’interrogarsi a cospetto di tutto quanto è o, meglio, potrebbe essere: ammirazione muta per una totalità che trascende l’hic et nunc delle singole particolarità per abbracciare la possibilità dell’impossibile – contraddizione assoluta che non si può dirimere.

José Lezama Lima
Raccontare la meraviglia. Saggi di estetica
a cura di Paola Laura Gorla, ETS, 2021, pp. 128, € 11,40

In copertina: illustrazione per il mese di luglio, dal codice miniato Les Très Riches Heures du Duc de Berry, 1412-1416 (particolare)

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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