Al cinema senza erotia. La ‘Casa dei ricchi’ di Gadda

Nei titoli di testa di Un maledetto imbroglio, film di Pietro Germi del 1959, si legge che lo spettacolo che sta per iniziare è una «libera riduzione» di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, la cui sceneggiatura è stata redatta dal regista stesso, da Alfredo Giannetti ed Ennio De Concini. Il titolo, peraltro efficacissimo e degno del noir, genere cui la pellicola aspira a essere ascritta (malgrado qualche squarcio di commedia all’italiana), tradisce quello del romanzo, lo “riduce” a una forma più intellegibile, non più dialettale. Questo tradimento, se così vogliamo chiamarlo, appare chiaro a ogni lettore gaddiano sin dalla scena di apertura, in un bel bianco e nero a quanto pare piuttosto apprezzato dall’Ingegnere: il cortile di un caseggiato potrebbe alludere al celebre civico 219 di via Merulana e invece si apre su un luogo completamente diverso di Roma, piazza Farnese (lo si intuisce facilmente dalla fontana che appare in ogni ripresa dell’andito del caseggiato). Ed è altrettanto chiaro che la vicenda narrata ha subito uno spostamento non solo spaziale ma anche temporale: dal 1927 del romanzo si passa agli anni Cinquanta del film.

Chiunque abbia una qualche dimestichezza col Pasticciaccio noterà subito, poi, le differenze tra il dottor Ciccio Ingravallo del testo e chi conduce le indagini nel film, che poi è lo stesso Germi, protagonista – prassi abbastanza insolita per i registi italiani di quegli anni – di ben tre film di fila (i precedenti sono Il ferroviere e L’uomo di paglia). La trasformazione è tanto fisica che linguistica: al don Ciccio contraddistinto da «un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione», corrisponde la figura magra e nervosa di Germi, ricalcata invece sui detective dei noir americani (Bogart su tutti), con tanto di occhiali scuri e modi sbrigativi. Soltanto nel trattamento cinematografico realizzato in precedenza dallo stesso Gadda, Ingravallo, dotato, si insiste, di una «corporatura tarchiata», risulta sovente «furioso» e brusco, probabilmente per esigenze di semplificazione (riduzione, ancora una volta) del personaggio in vista della sua incarnazione cinematografica. E dall’accento molisano – con la forte connotazione meridionale che gli conferisce lo scrittore – si passa a quello genovese, o genericamente settentrionale, di Germi: accomuna i due Ingravallo almeno questa estraneità al flusso sonoro del romanesco in cui sono immersi, anche se nel film il commissario non è mai, ovviamente, «don Ciccio».

Pietro Germi e Carlo Emilio Gadda

Di questi tradimenti il film ne commette parecchi; non ultimo, se non il maggiore, l’individuazione dell’assassino in un giovane, il quale colpisce a morte la signora Liliana Banducci (cambio di consonante) perché da lei sorpreso a rubare. Si tratta del fidanzato della domestica Assuntina, un’indimenticabile Claudia Cardinale che nel finale, al momento in cui il giovane viene arrestato, in una evidente citazione della tragica rincorsa di Anna Magnani in Roma città aperta, insegue l’auto della polizia gridando più volte «Diomede!». Questa riduzione della trama opera un duplice spostamento: per comprenderlo occorre indugiare per qualche istante nella complessa officina del Pasticciaccio.

Come sa chi ha letto la versione del romanzo pubblicata da Garzanti nel ’57, dalle indagini il nome di chi ha ucciso Liliana Balducci non affiora: la rivelazione viene rinviata a un fantomatico secondo volume. Diversi indizi però fanno sospettare una delle tante “figliocce” di Liliana, Virginia Troddu, una specie di dark lady popolana che a sua volta avrebbe avuto degnissima cittadinanza all’interno di un film noir. Se il primo spostamento è dunque il cambio di genere dell’omicida il secondo ne è la diretta conseguenza, perché sullo schermo si attenua moltissimo quella predominanza psicologica e fisica dei personaggi femminili, quel «quanto di erotia», sul quale Gadda insiste ripetutamente tanto nel romanzo quanto nei suoi adattamenti per il cinema.

Locandina del film

Quando nel 1947-1948, come di consueto mosso dalle necessità finanziarie (le «miserrime configurazioni argentarie»), Gadda si trova a scrivere una sceneggiatura (a partire ovviamente dalla sola versione su rivista del Pasticciaccio, uscita su «Letteratura» nel ’46), quella che intitolerà Il palazzo degli ori, è costretto a indicare un colpevole, non potendo infrangere le regole del giallo cinematografico. E indica appunto nella folle vendetta di Virginia (esplicitata nella esaltata scena finale) il movente dell’assassinio di Liliana, la quale viene così ripagata della propria «follia donativa, oblativa». Quel primo mancato esperimento cinematografico apparve nel 1983, in una edizione einaudiana curata da Alba Andreini. Il nome della figlioccia ritorna nel «finale “imperfetto”» del romanzo, ossia quella serie di abbozzi riemersa dal generoso Archivio Liberati, di cui tiene conto l’edizione Adelphi del Pasticciaccio curata tre anni fa da Giorgio Pinotti. E un’ulteriore conferma giunge adesso da un altro piccolo gioiello proveniente sempre dall’Archivio Liberati, cioè La casa dei ricchi che, sempre per i tipi di Adelphi, arriva in libreria a cura del solito fedelissimo Pinotti.

Il breve testo è un ulteriore passo avanti verso il romanzo “compiuto” (anche se per esempio la «casa dei ricchi» è ancora a via Merulana 119 e non al leggendario «ducentodicinnove»), ma opera un’ennesima riduzione. Stavolta a condurla è Gadda medesimo, ancorché nolente. La precedente sceneggiatura o meglio il treatment, come lo definisce lui stesso all’americana, Il palazzo degli ori, era stata presentata alla Lux Film di cui era amministratore delegato il musicologo Guido Maggiorino Gatti. Per redigerlo Gadda si era messo nella posizione di diligente apprendista dell’arte cinematografica servendosi, per il tramite di Giorgio Zampa, di un manuale allora in voga, Come si scrive un film di Seton Margrave (dell’«esperienza cinematografica» di Gadda dà conto un corposo e documentato volume di Flavio Tuliozi, «Tutto sto cinema», pubblicato dalle Edizioni dell’Orso). Questa prima redazione non incontrò il favore della casa produttrice, perciò Gadda dovette riscriverlo daccapo. Scrisse al cugino Piero Gadda Conti nell’ottobre del ’48: «Pare che la redazione del soggetto sia troppo lunga: bisognava compendiare, fare venti pagine in luogo di ottanta. Ho dovuto dunque rifare, sgobbare di nuovo, perdere altri quindici giorni e, a tutt’oggi, non so con quale esito. Silenzio perfetto».

Quel silenzio non fu mai interrotto, e del «treatment» non si fece nulla; la sceneggiatura del film di Germi nulla ha a che fare con le due elaborate da Gadda. Frutto di quella riduzione rapidissima è appunto La casa dei ricchi, il cui titolo sembra a sua volta frutto di una diminutio lessicale: dal favoloso «palazzo degli ori» – che nelle intenzioni dell’apprendista sceneggiatore «deve costituire un mito nella fantasia della gente», appunto – si arriva a una più ordinaria e prosaica «casa dei ricchi». Una strizzata d’occhio al coevo e trionfante neorealismo? Il ’48 è anche l’anno di Ladri di biciclette.

Raffaello, Sposalizio della Vergine (particolare)

La redazione più breve della Casa dei ricchi, più opportunamente definita «soggetto», fa capirecomunque come non sia stata solo la lunghezza del Palazzo degli ori a motivarne il rifiuto. Nel Palazzo Gadda spadroneggia come scrittore, certo, ma anche, sorprendentemente, come sceneggiatore. Riempie il testo di indicazioni di regia precise – costanti sceniche, lampi (ossia flashback) e soprattutto dissolvenze, delle quali sembra infatuato – e in taluni casi addirittura di suggestioni pittoriche, come nella lunga «scena 22ª», nella quale Lavinia ed Enea contemplano l’anello che lei ha al dito, frutto del furto in casa Menegazzi, in una posa simile a quella di «Maria e Giuseppe nel dipinto di Raffaello a Brera» (il celebre Sposalizio della Vergine, per intendersi). È un Gadda «aspirante regista interno al testo», come scrive Tuliozi, poco incline a farsi mero prestatore d’opera. La forza e l’autonomia del Palazzo degli ori stanno proprio nella tensione continua tra narrazione funzionale e scrittura gaddiana, tra cinema e romanzo insomma.

Nella Casa dei ricchi Gadda redistribuisce le scene anzi i «momenti visivi», che da trenta divengono quaranta, conferisce più ritmo al racconto filmico e soprattutto asciuga moltissimo la scrittura, che si fa appunto più cinematografica e meno letteraria. Per esempio, nella già citata scena 22ª del Palazzo degli ori il giovane e inesperto carabiniere che pedina Lavinia Mattonari è «un zelante bombolotto», mentre nella redazione della Casa dei ricchi, siamo alla scena numero 29, è un semplice «carabiniere novellino». Peraltro, forse in una sorta di excusatio non petita, l’autore apre la Nota che precede il testo con queste parole: «Il presente racconto per film osserva nella procedura gli schemi del giallo: repentina introduzione del delitto nel decorso della vita apparentemente normale, sospensione, multiple ipotesi di colpevolezza via via eliminate e risolte». E in tale risoluzione, del caso come del plot, si coglie appieno che, benché sia l’avantesto più vicino, La casa dei ricchi (un «interludio giallo», nelle parole di Pinotti) per alcuni aspetti rappresenta il punto di massima distanza dal Pasticciaccio del 1957, sia in termini stilistici – è raro leggere un Gadda così essenziale e scarno – sia dal punto di vista della “trama”, che negli anni successivi esploderà in «una rosa di causali»: in quel quasi proverbiale «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero», che i lettori conoscono.

Carlo Emilio Gadda
La casa dei ricchi
a cura di Giorgio Pinotti
Adelphi, 2021, pp. 87, € 5

In copertina: Claudia Cardinale nel finale di “Un maledetto imbroglio” di Pietro Germi (1959)

Massimiliano Manganelli

è nato a Tripoli, in Libia, nel 1966; vive a Roma, dove lavora come insegnante e traduttore. È dottore di ricerca in Italianistica. Ha pubblicato, tra gli altri, studi su Ungaretti, Sanguineti, Malerba, Volponi, Lucini, Porta, Frasca, la poesia oggettivista, le scritture di ricerca. I suoi saggi sono apparsi in vari volumi e riviste, tra le quali «il verri», «Avanguardia», «Istmi», «L’Ulisse», «Semicerchio», «Resine», «Nioques». Ha collaborato con «alfabeta2» e attualmente scrive recensioni per «doppiozero» e «l’immaginazione». È stato inoltre uno degli otto curatori dell’antologia di poesia “Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani tra due secoli” (Sossella, 2005).

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