Michelangelo Antonioni, lo strappo nel Reale

02/04/2021

«Sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque la sua ragion di essere». Queste parole di Michelangelo Antonioni sono del 1964, l’anno di Deserto rosso: a metà strada, dunque, fra l’“astrazione” dell’Eclisse e Blow-Up. (Cioè tra quelli che sono, insieme ai successivi Zabriskie Point e Professione: reporter, i più bei finali della storia del cinema italiano.) Ma il cinema astratto di Antonioni non è mai davvero tale. Semmai è meta-astratto: perché mette in scena il processo – cognitivo, affettivo e politico, mentale comunque – col quale all’astrazione si giunge: o, piuttosto allora, vi si precipita.

È quello che capita al fotografo Thomas (David Hemmings) in Blow-Up, appunto: quando, in cerca delle prove di un delitto, ingrandisce a ripetizione gli scatti che, passeggiando in un parco nella periferia di Londra (a Charlton, per la precisione), ha fatto a una coppia di sconosciuti. La giovane donna, Jane (una nuvolosa ma fulgida Vanessa Redgrave), si accorge dello svagato voyeur; lo insegue («Non può fotografare la gente così»; al che lui replica: «Io faccio soltanto il mio lavoro. C’è chi fa il torero, chi fa il deputato, io faccio il fotografo»); tenta di strappargli la macchina e la pellicola. La sua insistenza insospettisce Thomas: senza accorgersene, deve aver ripreso qualcosa d’importante. E quel qualcosa ossessivamente cerca, après coup, sviluppando e ingrandendo le immagini (di qui il titolo del film), e finendo per convincersi che il dispositivo ha percepito quello che alla sua coscienza è sfuggito (o, piuttosto, vi è restato latente: nell’«inconscio ottico» dal quale – secondo il Walter Benjamin della Piccola storia della fotografia, saggio celebre del 1931 ma raccolto in volume, da noi, solo nello stesso ’66 in cui esce Blow-Up… – appunto lo sguardo impersonale della fotografia è in grado di recuperarlo). Ma, ingrandimento dopo ingrandimento, la grana dell’immagine esplode in un’astrazione che somiglia a quella del suo amico Bill, pittore pointilliste che gli dice (forse memore del Capolavoro sconosciuto di Balzac): «quando li faccio non mi dicono niente, un pasticcio… dopo un po’, però, trovo qualcosa a cui attaccarmi… come quella gamba lì, e allora viene fuori da solo. È come trovare la chiave in un libro giallo».

Materialista (come l’apostolo di cui porta il nome) oltre che puro-visibilista, Thomas sta in effetti cercando la prova, la chiave del giallo. In uno dei suoi detour finisce in un club dove un gruppo rock (gli Yardbirds di Jimmy Page e Jeff Beck) si esibisce davanti a uno stuolo di hipsters catatonici. Quando il chitarrista fa a pezzi il suo strumento il pubblico si scatena, ma a conquistare il feticcio più ambito, il manico della chitarra, è proprio Thomas. A pochi isolati di distanza, però, quel pezzo di Reale, decontestualizzato, non vuol dire più niente; e lui lo butta via. (Allo stesso modo s’era incapricciato di un’elica d’aeroplano; «Cosa te ne fai?», gli chiede Jane, e lui: «Niente, è bella».) Il Reale sfugge a ogni tentativo di ricondurlo a un Senso tramite la sua riproduzione: per speculum et in ænigmate.

Sin dall’uscita del film fu a tutti chiara – persino ad Alberto Moravia, che intervistando il regista sull’«Espresso» accostò Blow-Up al “giallo” senza soluzione, al pasticcio di Gadda, ma anche al suo stesso romanzo L’attenzione – la portata filosofica dell’apologo. Il “disimpegno” politico di Thomas – cinico e sciovinista fashion photographer che però, all’inizio del film, sta lavorando a un reportage sociale, fotografando in incognito un ospizio per poveri – è, nelle parole di Antonioni a Moravia, «un modo di vedere le cose» che insiste, metalinguisticamente, sul processo di vederle: esercizio fenomenologico che rende il personaggio «disponibile per qualche cosa che verrà, che ancora non c’è». Due anni dopo, infatti, sarà il tempo di un nuovo cambio di stagione (e infatti di Zabriskie Point): cioè – scrive oggi Goffredo Fofi – il ’68.

Ci sono tanti modi per ri-vedere, a più di mezzo secolo di distanza, un capolavoro come Blow-Up (al di là delle classifiche di qualità il film più “importante” – insieme a Viaggio in Italia di Rossellini e alla Dolce vita di Fellini – della nostra storia), e ce ne offre almeno due il prezioso libro di materiali edito da Contrasto (nel quale sono riportati anche i testi di Fofi e Moravia): che da un lato ne esamina le radici letterarie (mettendolo a confronto col racconto Le bave del diavolo di Julio Cortázar, dal quale Antonioni trasse il soggetto – pure compreso nel volume – sceneggiato da Tonino Guerra e Edward Bond) e dall’altro il mileu della swinging London di allora. Interessantissimo il reportage di Francis Wyndham, che sul supplemento a colori del «Sunday Times» intervistò nel ’64 tre (insopportabili) fotografi di moda – David Bailey, Brian Duffy e Terence Donovan (allora sposato con Catherine Deneuve) – che ispirarono al produttore Carlo Ponti la prima idea del film (ai quali però – spiega nel volume Walter Moser – si unisce pure, nel personaggio di Thomas, l’antitetico fotografo “sociale” Don McCullin, il quale realizzò per la produzione anche le foto “montate” dal suo avatar nel “giallo”). Un’altra pista sarebbe quella di mettere in relazione il cinema di Antonioni alle arti visive del tempo (come sta facendo Romy Golan), o a quelle che ha ispirato (interessante l’affondo recente di Antonello Frongia nel catalogo della mostra fotografica Red Desert Now!, Linea di confine 2017).

Diverso il finale nel soggetto, che immagina Thomas unirsi al ballo delle modelle in un party, «sempre più sorridente, sempre più stordito». Lo spirito è simile, nella scena che tutti ricordiamo, ma l’invenzione registica («quello che più importa», dice Antonioni a Moravia, «sono le immagini») è ineffabile. Il Reale che Thomas ha divinato fotograficamente è scomparso dalla scena del delitto, quando lui vi si aggira con la macchina in mano, seguendo con un sorriso sconfitto un gruppo di beat che mimano una partita di tennis senza racchette e senza palla. Quella palla esce dal campo, rimbalzando giusto dove si sarebbe dovuto trovare il corpo dell’assassinato. Thomas allora la raccoglie, la rilancia in campo. E fuori campo ascoltiamo insieme a lui, impossibili quanti nitidi, i suoni della partita. A quel punto anche Thomas scompare, e gli subentra la parola FINE. Commenta amaro Fofi: «anche il ’68 […] ha finito per accettare le leggi dell’apparenza che il “sistema” ci ha imposto». Più in generale, Thomas è la coscienza del soggetto individuale che si arrende alle convenzioni di realtà, al pirandelliano cielo di carta che il suo occhio espanso, per un attimo, aveva creduto di poter strappare.

Michelangelo Antonioni-Julio Cortázar,
Io sono il fotografo. «Blow-up» e la fotografia
Contrasto 2019
pp. 200, € 24,90

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Sole 24 ore» il 3 marzo 2019

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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