Nella notte tra il 30 e il 31 dicembre 1980 a Toronto, per una emorragia cerebrale, si spegneva a 69 anni il pensatore canadese, il “guru”, il profeta dei media. O anche il filosofo, il critico, l’educatore: cos’altro, cos’oltre? Si spegneva, come diremmo di un televisore, come forse non diremmo di un computer o uno smartphone, costantemente accesi – chi spegne davvero i suoi dispositivi? Sempre acceso resta anche il pensiero di questo inclassificabile studioso: intellettuale, critico letterario, massmediologo, per alcuni un mistificatore, un provocatore. «I nuovi media accendono il “generalismo”, l’interdisciplinarità, mortificando, spegnendo il settorialismo, la specificità». Ed è difficile dargli torto in un mondo, specie quello accademico, che prova a rompere le barriere tra le discipline, tra le “materie”. Così McLuhan ha provato a scardinare la riflessione, il metodo d’indagine, attingendo, per esplorare i media, dalle categorie della critica letteraria, e viceversa. O innestando nello studio dei mezzi di comunicazione e della letteratura le “novità” offerte dalla fisica, il nuovo approccio alla conoscenza fornito dalla scienza, una scienza sempre meno comprensibile, come spiega Benjamin Labatout in Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021).
Nel 1968 arrivò in Italia, per i tipi Feltrinelli, un’opera che già nel titolo dissacrava il motto con cui McLuhan è “condannato” a essere noto (e lui per primo lo aveva capito): rovescia il celebre “the medium is the message” in The medium is the massage (Il mezzo è il massaggio, Feltrinelli, 1968). Nessun errore di stampa o di traduzione, e il titolo italiano “Il medium è il massaggio” non restituisce nemmeno appieno la portata – appunto – di quel messaggio: massage in inglese è anche mass age, l’età di massa, il centro di molti studi novecenteschi e dello stesso McLuhan. Una intuizione formidabile e folgorante: il libro in questione vorrebbe anche allontanarsi dal libro stesso, dal formato libro e, ancora una volta, dalle classificazioni. McLuhan lo scrive insieme a Quentin Fiore, graphic designer allievo della New Bauhaus di Chicago che si dimostra “il più anarchico possibile muovendosi all’interno dei limiti della costruzione del libro”, secondo la definizione di Steven Heller. Ma McLuhan avrebbe fatto di più: lo fece prima e dopo, e continua farlo oggi. C’è difatti un’altra opera ancora mai tradotta in italiano che supera ancora di più quei confini: intraducibile per definizione, Counterblast è al contempo definizione intraducibile. Prendendo le mosse dalla rivista “Blast” dell’artista Wyndham Lewis, il canadese risponde con un libro che dà alle stampe per la prima volta nel 1954, ma che nel 1970 si arricchisce del contributo grafico decisivo di Harley Parker. McLuhan avrebbe parlato di un libro “verbo-visuale”: testo e immagine sono difficilmente separabili, ed è per questo che è quasi impossibile tradurlo. Volutamente, viene da pensare, visto che lo studioso di media era primariamente uno studioso, anzi un amante, di James Joyce, che ha fatto dell’intraducibilità una cifra, una sfida, una vetta. Lo si vede soprattutto per i continui riferimenti al Finnegan’s Wake in “Guerra e pace nel villaggio globale” (1968, ma tradotto in Italia da Apogeo solo nel 1995), altro esperimento “verbo-visuale”, ma meno sfrontato, e nelle citazioni continue allo scrittore irlandese, come quando riporta che «James Joyce definì il tubo televisivo “il cannone sulla barricata della luce”».
Credo che ci sia, con McLuhan, un misunderstanding di fondo che restituisce anche parte della complessità del nostro tempo. “Misunderstanding” non è usato di straforo: in Italia ci son voluti quasi 50 anni per correggere il titolo “Gli strumenti del comunicare” in “Capire i media”, semplicemente e letteralmente la traduzione di Understanding media, l’opera con cui il canadese si fa conoscere oltreoceano per divenire pietra miliare del pensiero del Novecento. Concetti (perché insistere a chiamarli “slogan”?) come “villaggio globale” e “media caldi e media freddi” sono stati praticamente assimilati da subito persino nella vulgata popolare, non solo in ambito specialistico, tanto che non è parso quasi mai necessario per addetti ai lavori e non, sin dall’inizio, specificarne l’autore. È un sintomo importante: McLuhan è stato letto primariamente come fonte secondaria, attraverso i manuali, e poco direttamente. Di conseguenza (si tratta naturalmente di una mia ipotesi di studioso dell’opera dell’autore) anche le citazioni dei suoi lavori da parte degli operatori nel campo dell’arte sono così dirette da far pensare che le abbia colte solo l’autore della citazione. Un esempio chiarificatore. In Due o tre cose che so di lei del 1967 Jean-Luc Godard sembra tradurre visuamente la lezione di Marshall McLuhan. Guardare il film del regista francese della Nouvelle Vague è un’esperienza dura: somiglia alla lettura di un libro in cui, sotto le parole, spesso scorrono immagini cinematografiche. Un’operazione “verbo-visuale”: devi deciderti su cosa concentrarti, parola o immagine? In fondo se lo chiede Godard stesso nel film (citando anche Wittgenstein): «Il linguaggio umano è il limite del mondo, il mio linguaggio è il limite del mio mondo. […] C’è sempre più concorrenza tra parola e immagine. Si può persino arrivare a dire che vivere nella nostra società è quasi come vivere in un immenso fumetto, eppure la parola in sé non è in grado di definire perfettamente l’immagine». L’ultimo fotogramma della pellicola con protagonista Marina Vlady è un prato verde su cui sono sparsi alcuni dei prodotti di consumo più diffusi: chewingum, detersivi, saponi, caffè, lattine di bevande. Vengono in mente le pagine de “La sposa meccanica” di Marshall McLuhan, l’opera d’esordio in cui, à la Roland Barthes (di certo anche ispirazione godardiana), lo studioso analizza la società attraverso la stampa di libri, pubblicità, manifesti, periodici, oggetti d’uso comune quotidiano): lo fa in una maniera del tutto peculiare, con uno stile allucinatorio che fa storcere il naso ai più.
Ma qualcuno che, almeno in Italia, McLuhan lo ha letto, tradotto, curato per tutta la vita c’è e si chiama Giampiero Gamaleri. È appena uscito in libreria il suo Marshall aveva ragione (Armando, 2021), volume che contiene riflessioni originali e una attualizzazione del pensiero mcluhaniano, ma ha soprattutto il merito di ridare luce a testi già editi ma oggi di difficile reperimento. Sebbene un’attualizzazione di McLuhan non sia assolutamente necessaria: McLuhan è necessario perché attuale, ed è attuale perché essere stato un “profeta” (fra i suoi molti appellativi) significa aver bucato la contemporaneità per afferrare un tempo che è spostato più in là, significa aver previsto senza fare in tempo a vedere se si verificherà quanto si presenta come una visione. Gamaleri allora ci suggerisce che molto si è verificato. Ma azzardo una precisazione. Proprio a partire dalla concettualizzazione della “temperatura” dei media che McLuhan illustra in Understanding media, Gamaleri ricava una considerazione: “il vuoto vale più del pieno”. Vale a dire: se McLuhan ci dice che il mezzo è il messaggio, che la forma con cui si veicola ne modifica il messaggio stesso, se ci suggerisce che la televisione è “fredda” perché prevede la cooperazione dello spettatore come nel caso di un mosaico, allora significa che più esiste un vuoto da colmare e più questo vuoto assume pregnanza, significato. Ma forse McLuhan ci sta dicendo qualcosa di ancora più profondo. Ci avverte che la saturazione (della forma attraverso il contenuto) paradossalmente ci dice meno di qualche cosa che deve essere riempito, co-riempito (la cooperazione del lettore di Eco, certo, anche). Gamaleri nel suo volume giustamente sottolinea il carattere di assoluta pregnanza che hanno rivestito episodi per noi estremamente singolari legati all’emergenza della pandemia tuttora in corso. Tra questi, come esempio calzante vista la conversione al cattolicesimo di McLuhan, «La benedizione “Urbi et Orbi” di Papa Francesco del 27 marzo 2020 – solo davanti alla basilica vaticana, su una piazza San Pietro deserta, battuta dalla pioggia, con le sole immagini del crocifisso di San Marcello e della Madonna – ha avuto su tutti noi un impatto senza precedenti, destinato a rimanere emblematico di questo evento della storia». Potremmo citare anche la Via Crucis deserta, ma non è esatto definire questi due episodi “deserti”. Nel vuoto di piazza San Pietro spiccava il pieno di una personalità come quella del Pontefice, proprio come nel vuoto dell’Altare della Patria il 25 aprile 2020 si ergeva il pieno rappresentato dal Presidente della Repubblica Mattarella: la presenza di questa parte di pieno all’interno del vuoto ne ha esaltato la rilevanza. Vale a dire: il vuoto e il pieno non esistono se non compenetrati, mixati, incastonati, come non esiste il silenzio, se non come assenza di rumore, e viceversa. E come c’è del caldo evocato nei media freddi così come del freddo innescato dai media caldi. La pandemia e le restrizioni per limitare il contagio da Covid-19, in definitiva, hanno capovolto il rapporto figura-sfondo, hanno posto il vuoto in una posizione di dominanza rispetto al pieno, e ciò ha naturalmente sconvolto il nostro modo di vedere il mondo, di percepire la nostra posizione nel mondo.
Per comprendere meglio questa dinamica ci viene in soccorso un altro volume appena pubblicato, che è rivolto ad un pubblico a partire dai 5 anni. Un pubblico di bambini, sì, bambini a cui McLuhan ha guardato per tutta la vita. Perché aveva compreso due cose: la prima, che l’educazione è “il compito dell’umanità del futuro, ed è totale”; la seconda, che la letteratura per l’infanzia è un campo pregno di metafore, e i media, in quanto estensioni dell’uomo, sono anch’essi metafore, proprio come e a partire dal linguaggio. Cristina Bellemo e Luana Virardi hanno scritto e illustrato, manco a farlo apposta, Pieno vuoto (Topipittori, 2020). Il pieno e il vuoto s’incontrano e sanno di non essere inter(n)amente separati. Si tratta di un albo estremamente poetico che utilizza linee molto semplici per comunicare qualcosa di estremamente complesso: l’inseparabilità ad esempio, del rapporto figura/sfondo, altro tema caro proprio a McLuhan. È il vuoto che definisce il pieno o viceversa? Ad esempio, se si è «pieni di parole», si è necessariamente «vuoti di silenzio». «Vorresti sapere il pieno?», chiede nella storia illustrata il signor Pieno. «E tu, vorresti sapere il vuoto?», chiede il signor Vuoto. Allora signor Vuoto prova a entrare in signor Pieno, ma signor Pieno è troppo pieno. E naturalmente se signor Pieno prova a entrare in signor Vuoto, quest’ultimo per definizione. Soluzione: staccarsi a vicenda un pezzetto di vuoto e di pieno. Pezzetto che richiama alla memoria Leo Lionni, anche per il tema della compenetrazione, e dunque della non compartimentazione, della “liquidità” delle materie e della materia. Vuoto, in questa storia di Bellemo e Virardi, non si riempie, ma si compie conoscendo la “pienità”: «Per la prima volta fu sazio». Pieno non si svuota, ma si compie conoscendo la “vuotità”: «Per la prima volta ebbe fame». Infine «Qualcosa di straordinario era accaduto, anche se nessuno se ne era accorto»: qualcosa di straordinario stava accadendo, anche se nessuno se ne accorgeva.
È quello che ha provato a dimostrare per tutta la vita Marshall McLuhan, gettandosi nell’esplorazione del reale attraverso una sonda, annotando percezioni. Nel marzo del 1969 viene intervistato da Eric Norden, non soltanto un giornalista, più esattamente un collaboratore di “Playboy”: il “faccione” di McLuhan su una delle riviste più note e controverse del pianeta, dopo quello di, tra gli altri, Stanley Kubrick. Ma che ci fa “laggiù” un intellettuale, che qualcuno ha inserito tra le “quattro M” che hanno rivoluzionato il pensiero del Novecento, in compagnia di Marx, Mao e Marcuse. In quella intervista, riportata nel volume di Gamaleri, McLuhan chiarisce tutto, lì dentro è condensata una vita dedicata alla ricerca e al tentativo di tracciare rotte inedite: «Per molti anni, finché non ho scritto il mio primo libro, The Mechanical Bride (La sposa meccanica), ho adottato un approccio estremamente moralistico nei confronti della tecnologia ambientale. Detestavo le macchine, odiavo le città, consideravo la Rivoluzione Industriale alla stessa stregua del peccato originale e i mass media alla stessa stregua della Caduta dell’uomo. In breve, rifiutavo quasi ogni elemento della vita moderna a favore di un’utopia alla Rousseau. Ma gradualmente ho cominciato a percepire quanto fosse sterile e inutile il mio atteggiamento e ho cominciato a rendermi conto che i più grandi artisti del XX secolo – Yeats, Pound, Joyce, Eliot – avevano scoperto un approccio del tutto diverso, basato sull’identità dei processi di cognizione e creazione. Mi sono reso conto che la creazione artistica è il playback dell’esperienza ordinaria – che va dai rifiuti ai tesori. Ho cessato di essere un moralista e sono divenuto uno studioso. […] Poiché sono stato formato all’interno della tradizione alfabetica occidentale, personalmente non mi rallegro di assistere alla dissoluzione di questa tradizione nell’oceano del coinvolgimento elettrico di tutti i sensi. Non provo alcun piacere ad assistere alla distruzione di interi quartieri sostituiti dai grattacieli e non mi diverte la sofferenza della ricerca di un’identità. Nessuno potrebbe essere meno entusiasta di me di questi cambiamenti radicali. Non sono un rivoluzionario, né per temperamento né convinzione; preferirei un ambiente stabile, immutabile con servizi a misura d’uomo. La TV e tutti i media elettrici stanno sfilacciando l’intero tessuto della nostra società, ed essendo un uomo costretto a vivere in questa società dalle circostanze, non provo piacere nella sua disintegrazione. Non sono un crociato; immagino che sarei più felice di vivere in un ambiente prealfabetico più sicuro. Non tenterei mai di cambiare il mio mondo, in meglio o in peggio. Così non traggo alcuna gioia dall’osservare gli effetti traumatici dei media sull’uomo, ma al tempo stesso traggo soddisfazione nel capire il loro modo di operare. […] Il mondo in cui viviamo non è quello che io avrei creato sul mio tavolo da disegno, ma è quello in cui devo vivere e in cui gli studenti a cui insegno devono vivere. Se non altro, devo evitare per loro il lusso dell’indignazione morale o la trogloditica sicurezza della torre d’avorio per scendere sul campo del cambiamento ambientale e cercare di capire i contenuti e le sue linee di forza – per capire come e perché stia trasformando l’uomo».
Giampiero Gamaleri
Marshall aveva ragione
Armando editore 2021
pp. 176, 15 €.
Cristina Bellemo, Luana Virardi
Pieno Vuoto
Topipittori 2020
pp. 48, 18 €
In copertina: una scena di Annie Hall di Woody Allen (1977), in cui Marshall McLuhan compare nella parte di se stesso